ISSN 2039-1676


27 luglio 2011 |

In tema di responsabilità  ex d.lgs. n. 231/2001 ed enti privatistici senza fine di lucro (Onlus)

Nota a Tribunale di Milano, 22 marzo 2011, giudice Arnaldi

1. Con la sentenza che si allega il Giudice per l’udienza preliminare del Tribunale di Milano – pronunciandosi su richiesta delle parti ex art. 63 d.lgs. n. 231/2001 –  ha condannato un’associazione volontaria di pubblica assistenza (A.n.p.a.) per il delitto di truffa ai danno dello Stato (art. 640, comma 2, n. 1, c.p.), previsto tra i reati presupposto della responsabilità ex crimine dell’ente dall’art. 24 comma 1 d.lgs. n. 231/2001.
 
La pronuncia assumerebbe rilevanza, ad una lettura superficiale, perché dimostrerebbe all’evidenza – in ragione cioè dell’avvenuta condanna - l’applicabilità del sistema punitivo delle persone giuridiche anche agli enti privatistici no profit, ed in particolare alle associazioni Onlus.
 
Nel dibattito dottrinale erano stati sollevati talora dei dubbi sulla possibilità che l’art. 1 del decreto legislativo – che individua i “Soggetti” destinatari della disciplina della responsabilità amministrativa delle persone giuridiche - abbracciasse anche gli enti privatistici, in qualsiasi forma giuridica organizzati, privi di finalità lucrativa.
 
Come noto, il suddetto art. 1 circoscrive l’estensione soggettiva della responsabilità degli “enti” (questa è la categoria generica e generale fissata dal comma 1) sia in positivo (comma 2), sia in negativo (comma 3): (i) in positivo, sono richiamati tutti indistintamente gli “enti forniti di personalità giuridica”, nonché le “società” e le “associazioni” anche qualora “prive della personalità giuridica”; (ii) in negativo, sono richiamati lo Stato, gli enti pubblici territoriali, gli enti pubblici non economici e gli enti che svolgono funzioni di rilievo costituzionale.
 
Gli enti no profit privatistici (comitati, fondazioni, associazioni o altre organizzazioni collettive che perseguono fini ideali e/o solidaristici) non rientrano certamente nella categoria pubblicistica degli enti espressamente esclusi, ma – secondo un cospicuo orientamento dottrinale – non rientrerebbero comunque nella sfera applicativa del d.lgs. n. 231/2001 in quanto carenti del necessario “carattere imprenditoriale” dell’attività svolta, requisito attorno al quale appare essere costruito il complessivo sistema punitivo del decreto legislativo (si veda in questo senso soprattutto O. Di Giovine, Lineamenti sostanziali del nuovo illecito punitivo, in Reati e responsabilità degli enti, a cura di G. Lattanzi, Milano, 2010, 35).
 
 
2. A ben vedere, la sentenza in esame non fornisce una reale risposta a tale quesito interpretativo: nel caso de quo, infatti, la Onlus, è stata condannata per la commissione di condotte fraudolente attraverso le quali, sostanzialmente, simulava all’esterno la propria natura solidaristica e volontaristica (senza fini di lucro) per ottenere sussidi e contributi a titolo gratuito, nonché per assicurarsi contratti e convenzione con enti e istituzioni pubbliche, benché priva dei necessari presupposti. Risulta allora evidente come l’associazione condannata dal Tribunale milanese solo apparentemente costituisse un ente no profit, mentre in realtà svolgeva attività sostanzialmente imprenditoriale nel settore sanitario, perseguendo, anche e soprattutto illecitamente (attraverso le condotte truffaldine) ben precisi interessi economici.
 
Il nodo interpretativo relativo all’assoggettabilità delle (vere) Onlus al regime punitivo del d.lgs. n. 231/2001 non trova pertanto effettiva risposta (implicita) nella sentenza di patteggiamento in esame, dalla quale può essere tratto solo il principio – in realtà non particolarmente innovativo – secondo cui il mero riconoscimento formale della natura di “organizzazione non lucrativa di utilità sociale” non solleva l’ente dal rischio di incorrere nel sistema sanzionatorio per i reati commessi nel suo interesse o a suo vantaggio, qualora si dimostri la reale natura economica dell’attività svolta.
 
 
3. Precisato il significato della sentenza e tornando al profilo problematico sopra evidenziato, gli argomenti di ordine sistematico addotti per escludere gli enti privatistici senza fine di lucro (e che realmente non esercitano, sotto mentite spoglie, attività imprenditoriale) dall’ambito applicativo del decreto non sembrano comunque insuperabili, ed anzi il dettato normativo sembra deporre a favore della conclusione contraria. La fattispecie concreta, per rendere esemplificativamente l’idea, sarebbe quella relativa ad una Onlus, ad esempio una struttura sanitaria (come quella condannata nel caso de quo), che si adoperasse clandestinamente per favorire la realizzazione fatti di “Pratiche di mutilazione degli organi genitali femminili” (reato-presupposto ex art. 25-quater.1 d.lgs. n. 231/2001), senza tuttavia perseguire fini economici, ma esclusivamente mossa da ragioni di carattere ideologico. Ebbene, il dato normativo – come anticipato – non sembra porre ostacoli alla punibilità dell’ente no profit anche nella situazione descritta:
 
(i) in primo luogo, perché il requisito della necessaria economicità dell’attività svolta è richiesto espressamente  dalla legge (sebbene desumibile a contrario) solo in relazione agli “enti pubblici” (diversi dallo Stato e dagli enti pubblici territoriali) (cfr. art. 1, comma 3, d.lgs. n. 231/2001) e non, viceversa, in merito agli enti privatistici, che sono selezionati solo sulla base della tipologia di organizzazione collettiva – societaria o associativa – che concretizza la “terzietà soggettiva” rispetto alla persona fisica (l’essere un “ente” ai sensi dell’art. 1 comma 1 del decreto legislativo);
 
(ii) in secondo luogo, perché l’interesse e il vantaggio per l’ente, quali criteri oggettivi di ascrizione della responsabilità ex crimine all’ente (ex art. 5 d.lgs. n. 231/2001), non hanno alcuna espressa caratterizzazione normativa in senso patrimonialistico, potendo pertanto essere apprezzati anche in una dimensione non economica;

(iii) infine, se anche il contesto criminologico in cui il d.lgs. n. 231/2001 è partorito fosse individuabile – come pare ragionevole – proprio nella “criminalità del profitto”, cioè nelle attività di impresa orientate alla realizzazione illecita di vantaggi economici, ciò non toglie che tale sistema punitivo sia stato progressivamente utilizzato dal legislatore anche per colpire altri paradigmi criminali, orientati al raggiungimento di scopi ideologici: ne è un chiaro esempio l’art. 25-quater, che inserisce nel catalogo dei reati-presupposto i “Delitti con finalità di terrorismo o di eversione dell’ordine democratico”, cioè fattispecie potenzialmente anche estranee alla logica del profitto economico.