ISSN 2039-1676


04 febbraio 2013 |

A proposito del volume di A. Roiati, Medicina difensiva e colpa professionale medica in diritto penale. Tra teoria e prassi giurisprudenziale, Giuffrè, 2012.

Recensione

Medicina difensiva e colpa professionale in diritto penale di Alessandro Roiati non tradisce le aspettative sintetizzate dal sottotitolo Tra teoria e prassi giurisprudenziale, restituendo un convincente ed esaustivo affresco delle questioni e della casistica che, in materia di responsabilità colposa del medico, continuano ad affollare tanto gli scaffali della riflessione teorica quanto gli archivi delle decisioni giurisprudenziali e che l'Autore sceglie di esaminare attraverso la lente prospettica, indubbiamente peculiare, della c.d. medicina difensiva.

La tradizionale coppia concettuale dottrina-giurisprudenza ed un sia pur accurato esame delle ancor più tradizionali "discrasie" che scandiscono la loro tormentata relazione dialettica, rivelano però tutta la loro incompletezza. Qualsiasi tentativo di ricostruzione sistematica che, più o meno consapevolmente, prescinda da ogni riferimento alle effettive condizioni in cui la classe medica si trova ad operare, rischia di apparire come la riflessione del saggio che, dal chiuso della sua torre d'avorio, osserva con superiore distacco quell'aiuola di ospedali e tribunali che ci fa tanto feroci: una visione dall'alto che può ottenere il solo risultato di descrivere lo stato dell'arte, senza però riuscire a metterne a fuoco le cause e, soprattutto, senza riuscire ad individuare prospettive concretamente praticabili.

Del tutto condivisibilmente, dunque, l'opera di Roiati prende avvio da una serie di considerazioni preliminari che, oltre a tratteggiare le linee ricostruttive sviluppate nei Capitoli successivi, offre fin da subito al lettore quella sapiente intersezione tra piani di indagine che necessariamente deve caratterizzare una riflessione in materia di «colpa professionale medica». Il fenomeno della medicina difensiva - spiega l'Autore ­- si lascia definire e inquadrare sulla base di dati e dinamiche assai eterogenei e per molti aspetti tendenti al paradosso nelle loro interazioni reciproche.

Così, solo per restare agli aspetti più evidenti, all'ormai proverbiale "alleanza terapeutica" tra medico e paziente e alla significativa accelerazione subita negli ultimi decenni dalle potenzialità della scienza medica, fanno da contraltare le accresciute aspettative sociali sull'esito praticamente taumaturgico del trattamento sanitario e, dunque, la tendenza a ricorrere pressoché automaticamente al giudice penale qualora quelle aspettative non vengano  soddisfatte. A ciò si aggiunga che i margini di operatività del singolo medico risultano spesso significativamente ridotti in ragione delle "carenze organizzative" che caratterizzano il contesto di riferimento: strutture inefficienti, apparecchiature inadeguate, personale insufficiente, saturazione delle liste d'attesa. Mentre dunque il paradigma della (sola) responsabilità individuale mostra chiaramente tutte le proprie aporie e contraddizioni, la giurisprudenza penale, in una malintesa e sostanzialmente irrealizzabile logica di «massimizzazione del controllo e minimizzazione del rischio», sembra voler (in)seguire con pervicace ostinazione l'irrealizzabile modello del medico quale «garante ultra vires della salute del paziente ed infallibile gestore di ogni fattore di rischio».

L'esasperazione del contenzioso giudiziario registra e al contempo amplifica la paradossale relazione intercorrente tra medico e paziente, i quali, lungi dal coalizzarsi in qualità di "alleati" in vista del perseguimento di uno scopo comune, assumono spesso il ruolo di due antagonisti che, l'un contro l'altro armati, si preparano alla battaglia giudiziaria ancor prima che la guerra sia stata dichiarata. Il fenomeno della medicina difensiva, in perfetta armonia con questo circolo vizioso, diviene effetto e causa insieme della domanda di tutela rivolta al diritto penale, nonostante sia stata efficacemente rilevata da più parti la «conclamata ineffettività della pena in relazione ai casi di medical malpractice».

Spostandosi sul piano della ricostruzione giuridica e sviluppando coerentemente le principali linee argomentative già emerse in alcuni suoi scritti precedenti, Alessandro Roiati evidenzia con mirabile chiarezza i crocevia sistematici verso cui quelle paradossali contraddizioni inevitabilmente convergono.

Viene anzitutto presa in considerazione la tematica del consenso c.d. informato, la cui centralità è di un'evidenza addirittura lapalissiana, ma che, almeno per ciò che attiene alla sua tutela penale, fatica ancora a trovare inquadramento entro uno schema sufficientemente coerente. Le recenti prese di posizione della giurisprudenza di legittimità, a partire dalla nota pronuncia della Corte di cassazione a Sezioni unite, risultano caratterizzate da un'evidente logica compromissoria: muovendo dalla consueta distinzione tra "esito fausto" e "esito infausto" dell'intervento, si sforzano di trovare un convincente punto di equilibrio sul delicato crinale che corre tra dolo e colpa, pervenendo tuttavia a soluzioni che non di rado rinvengono il loro fondamento in prevalenti (ed assorbenti) ragioni di "opportunità".

Il nucleo della trattazione è evidentemente costituito dai riflessi che il fenomeno della medicina difensiva è in grado di produrre sulla formulazione del giudizio di responsabilità per colpa. Non è un caso, del resto, che la casistica riconducibile al generale (e per certi aspetti generico) concetto di "responsabilità del medico" abbia assunto ormai da tempo la consistenza di un autentico banco di prova sul quale verificare la solidità delle ricostruzioni in materia di reato colposo. Se in effetti la colpa non può più considerarsi una "sorella minore del dolo", la stessa, come icasticamente rilevato dall'Autore, resta per molti aspetti una "sorella minore della causalità", dando luogo in sede giurisprudenziale ad autentiche "amputazioni" sul piano dell'accertamento.

Tra gli aspetti esaminati criticamente e a più riprese, si segnala anzitutto la tendenza a transitare, a seguito dell'accertamento causale, pressoché automaticamente sul piano della colpevolezza, svuotando sostanzialmente di contenuto il ruolo che la regola cautelare è chiamata a svolgere già in sede di individuazione della condotta tipica. Altrettanto evidente risulta la significativa dilatazione dei casi di responsabilità per omesso controllo e/o per omesso impedimento del reato altrui: i presupposti applicativi e l'area di operatività della posizione di garanzia del medico vengono ricostruiti in termini talmente ampi da risultare tendenzialmente onnicomprensivi, tanto che i riferimenti giurisprudenziali all'art. 40, secondo comma c.p. si atteggiano sempre più di frequente a mere clausole di stile, prive di una reale valenza selettiva.

L'effetto comune è quello di segnare un progressivo allontanamento dalla necessaria particolarizzazione della colpa sul singolo evento, magari attraverso un «indebito "innalzamento cautelativo" dell'obbligo di prevedere e di antivedere, dettato dall'utopistica finalità di azzeramento del rischio»: le cadenze argomentative sono assai prossime a quella "logica precauzionale" con la quale sempre più spesso l'interprete è chiamato a confrontarsi in materia di responsabilità colposa.

La pars destruens è sempre affiancata da una pars construens, in cui l'Autore, oltre a prendere posizione su alcuni dei temi maggiormente dibattuti negli ultimi anni, non manca di proporre soluzioni caratterizzate da profili di indubbia originalità.

Quanto alla necessità di una più incisiva tipizzazione dell'illecito, terreno su cui storicamente sono chiamate a confrontarsi le esigenze di certezza del diritto e il carattere "strutturalmente" aperto delle fattispecie colpose, viene valutato il possibile ruolo svolto sia dalle regole prasseologiche di esperienza generalmente riconosciute e condivise sia dalle linee guida elaborate da società scientifiche di prestigio internazionale.

Dopo aver esaminato i vantaggi indubbiamente connessi allo sforzo di attribuire più sicura consistenza ad un comportamento diligente altrimenti evanescente, Roiati richiama l'attenzione sui limiti intrinseci e sui possibili inconvenienti del processo di standardizzazione delle regole cautelari. Anzitutto le leges artis di riferimento, lungi dal costituire degli immobili (o almeno tendenzialmente stabili) punti di riferimento, si evolvono costantemente in relazione al progresso scientifico, con la conseguente ineliminabilità di un sia pur residuale margine di genericità della colpa medica. Senza contare che "imbrigliare" il comportamento del medico nelle pastoie troppo strette di regole rigidamente predeterminate comporterebbe il rischio di frustrare la libertà di cura del singolo operatore, il quale viceversa è tenuto ad adeguare le proprie scelte a quelle peculiarità del caso concreto che per definizione sfuggono alla preventiva formulazione della regola di comportamento. Una rigorosa ed intransigente predeterminazione del regola di condotta potrebbe addirittura indurre il medico ad adottare comportamenti terapeutici improntati al suo esclusivo vantaggio (si pensi al ricorso al parto cesareo elettivo, dettato da esigenze pratiche, logistiche o meramente economiche), conducendo quindi, in una sorta di eterogenesi dei fini, a frustrare «la portata selettiva della finalità di prevenzione del rischio nel giudizio di individuazione della norma cautelare da adottare nel singolo caso concreto».

Un certo deficit di tassatività resta in definitiva insopprimibile, rappresentando del resto una conseguenza necessaria delle intrinseche peculiarità che contraddistinguono tanto il tipo colposo quanto la scienza medica. Il riferimento a prassi terapeutiche diffuse, pur potendo in certi casi contribuire a "sdrammatizzare" il carattere aperto delle fattispecie colpose, non rappresenta una formula matematica dall'esito certo e, soprattutto, non vale né a garantire il medico dal rischio del contenzioso né, qualora si sia attenuto a quelle regole, a metterlo al riparo da una possibile responsabilità per colpa.

L'opera prosegue con l'accurato esame delle questioni con le quali la giurisprudenza più recente è stata chiamata a confrontarsi: la responsabilità del medico psichiatra per gli atti auto e etero lesivi posti in essere dal proprio paziente, la somministrazione di farmaci off label e gli incerti confini della "medicina sperimentale", la controversa applicazione del principio di affidamento nelle ipotesi di attività medica svolta da una pluralità di soggetti. La metodologia resta fedele a quella "dichiarata" in apertura: le luci e le ombre di ogni snodo problematico vengono tratteggiate coniugando il piano della ricostruzione sistematica con le peculiarità del singolo settore di riferimento, senza mai rinunciare a quella prospettiva dialogica tra scienza medica e scienza giuridica, che in effetti rappresenta uno dei fili conduttori dell'intera opera. Il risultato è un efficace chiaroscuro che consente al lettore di mettere nitidamente a fuoco gli interrogativi attualmente più controversi, le risposte fornite al riguardo dalla giurisprudenza e le soluzioni proposte dall'Autore.

L'ultima parte della trattazione è dedicata alla complessa tematica della responsabilità per carenze organizzative, caratterizzata dalla tendenza a concentrare le conseguenze penali in capo al singolo operatore che ha eseguito il trattamento medico-chirurgico, senza un'adeguata valorizzazione del contesto lavorativo in cui concretamente quel trattamento è stato praticato. Una simile situazione si spiega probabilmente con l'esigenza di soddisfare una certa prospettiva "vittimologica", che pretende «l'individuazione e la punizione della singola persona ritenuta colpevole» e, evidentemente, comporta indubbi vantaggi legali ed economici per le organizzazioni sanitarie.

Le carenze ravvisabili sul piano strutturale e/o organizzativo, nella misura in cui possano incidere sulla formulazione del giudizio di responsabilità penale, si prestano invece a rilevare in una duplice direzione. Anzitutto, sul piano della responsabilità individuale, sarebbe opportuno incidere su quella vera e propria "cifra nera" derivante dalla mancata individuazione di responsabilità presso il c.d. secondo livello operativo, costituito dai vertici legali e amministrativi della struttura sanitaria. L'operazione in questione, pur non conducendo ad un esonero di responsabilità del c.d. primo livello che, almeno in certi casi, è chiamato a rispondere secondo gli schemi della "colpa per assunzione", potrebbe almeno restituire coerenza ad una forma di manifestazione particolarmente significativa di quella dimensione "plurisoggettiva" assunta quasi regolarmente dall'attività medica.

Un utile punto di partenza al riguardo potrebbe individuarsi nella nuova disciplina legislativa in materia di dirigenza sanitaria, che, registrata dalla giurisprudenza nei termini di un mero cambiamento terminologico rispetto al passato, offre invece indicazioni affatto trascurabili per una delimitazione della responsabilità dei vertici entro il perimetro segnato dal principio di personalità della responsabilità penale.

Il secondo piano di indagine è quello relativo alla responsabilità amministrativa da reato ex d. lgs. n. 231 del 2001. Roiati ritiene possibile (e per certi aspetti doverosa) l'introduzione di un criterio di imputazione della persona giuridica che, muovendo dal paradigma della colpa di (o per) l'organizzazione, consenta di individuare, per le fattispecie colpose di evento, «un criterio ascrittivo differenziato ed autonomo in quanto sganciato dalla prospettiva - invero confacente solo alle ipotesi dolose - dell'agire nell'interesse o a vantaggio dell'ente».

Le sistemiche disfunzioni determinate dalle prassi difensive, in definitiva, contribuiscono a delineare un quadro poco rassicurante della collocazione assunta dalla colpa professionale medica tra i due fuochi della teoria e della prassi giurisprudenziale. Fin troppo eloquente si rivela il crescente e preoccupante senso di disagio denunciato dagli appartenenti alla classe medica, con particolare riferimento a coloro che esercitano specializzazioni ormai considerate "a rischio": chirurghi, ginecologi, medici del pronto soccorso.

Il bilancio conclusivo dell'opera di Roiati, unito all'esame delle più significative proposte di riforma elaborate negli ultimi anni, sembrerebbe riproporre, sia pur in maniera differente, quell'andamento paradossale da cui la trattazione prende le mosse. Da una parte si rafforza nel lettore l'impressione che il settore della responsabilità colposa del medico si stia ritagliando in maniera sempre più evidente i caratteri di un autonomo microsistema normativo e giurisprudenziale, caratterizzato da regole generali e meccanismi di funzionamento per molti aspetti divergenti rispetto agli schemi del diritto penale "classico". Dall'altra, tuttavia, esce altrettanto rafforzata la convinzione per cui l'unica via seriamente percorribile, almeno come necessaria ed irrinunciabile condizione preliminare, sia quella di muovere da una convinta (ri)affermazione di quei pilastri dai quali anche il diritto penale "della modernità" deve necessariamente essere sostenuto: a partire dall'idea della sanzione penale come extrema ratio per arrivare al principio di personalità della responsabilità penale. Il tutto recuperando una sistematica della colpa che riesca a dar conto della natura "ibrida" di questo criterio di imputazione, valorizzandone le potenzialità selettive tanto sul piano dell'individuazione della condotta tipica quanto su quello della colpevolezza.