ISSN 2039-1676


05 maggio 2014 |

Monitoraggio Corte Edu Febbraio 2014

Rassegna di sentenze e decisioni della Corte EDU rilevanti in materia penale sostanziale e processuale

A cura di Giulio Ubertis e Francesco Viganò.

Tutti i provvedimenti citati sono agevolmente reperibili sul database ufficiale della Corte EDU.

Il monitoraggio delle pronunce è stato curato, questo mese, da Francesco Zacchè e Stefano Zirulia. L'introduzione è a firma di Stefano Zirulia per quanto riguarda gli art. 2, 3 e 10 Cedu, mentre si deve a Francesco Zacchè la parte relativa agli art. 5 e 6 Cedu. 

 

1. Introduzione

a) Art. 2 Cedu

b) Art. 3 Cedu

c) Art. 5 Cedu

d) Art. 6 Cedu

e) Art. 10 Cedu

2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

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1. Introduzione

 

a) Art. 2 Cedu

In materia di obblighi negativi discendenti dal diritto alla vita, è intervenuta questo mese la sent. 25 febbraio 2014, Makbule Kaymaz e altri c. Turchia, che ha condannato la Turchia in relazione ad un'operazione antiterroristica nei confronti di sospetti membri del PKK, sfociata nell'uccisione di un uomo e di un ragazzo di giovane età. La Corte europea ha ritenuto, anzitutto, che l'operazione non fosse stata organizzata in maniera tale da ridurre al minimo i rischi di perdita di vite umane; ed in secondo luogo che le indagini sull'accaduto non avessero fornito sufficienti elementi per stabilire se vi erano i presupposti di assoluta necessità cui l'art. 2 comma 2 Cedu subordina il ricorso alla forza mortale. Sotto quest'ultimo profilo, la violazione degli obblighi negativi è risultata - come spessissimo accade in questa tipologia di casi - legata a filo doppio a quella degli obblighi positivi sul piano procedurale. Proprio sotto il profilo della double violation dell'art. 2 Cedu, particolarmente significativi sono i passaggi della pronuncia che assegnano peso decisivo alla circostanza che gli agenti coinvolti nell'operazione fossero stati interrogati ben dieci giorni dopo l'accaduto, beneficiando così di tempo sufficiente per accordarsi sulla versione dei fatti da fornire agli inquirenti: «tels retards - ha osservato il collegio - ne créent pas seulement une apparence de collusion entre les autorités judiciaires et la police, mais peuvent également conduire les proches des victimes - ainsi que le public en général - à croire que les membres des forces de sécurité opèrent dans le vide de sorte qu'ils ne sont pas responsables de leurs actes devant les autorités judiciaires» (§ 141).

Passando agli obblighi positivi sul piano sostanziale, la sent. 4 febbraio 2014, Oruk c. Turchia è intervenuta sugli obblighi di prevenzione di morti accidentali nell'ambito di attività pericolose. Il caso di specie riguardava l'esplosione di un ordigno militare, abbandonato in un campo di addestramento, nella quale erano rimasti uccisi sei bambini. La Corte europea ha ritenuto le autorità militari turche responsabili dell'accaduto in quanto, «malgré leur connaissance précise des risques réels pour la vie qui étaient en jeu dès lors que des munitions non explosées se trouvaient sur un site qui relevait de leur contrôle [...] n'ont pas pris des mesures promptes, concrètes et suffisantes pour sécuriser ce site et pour empêcher que pareilles munitions non neutralisées ne soient découvertes ou déplacées par des civils» (§ 65). La violazione riscontrata dalla Corte ha investito altresì gli obblighi procedurali, e precisamente la mancata attivazione di un procedimento di natura penale volto ad individuare e punire i responsabili dell'accaduto. Ha osservato a tal proposito la Corte: «Dans les cas où il est établi que la faute imputable [...] aux agents ou organes de l'Etat va au-delà d'une erreur de jugement ou d'une imprudence, en ce sens qu'ils n'ont pas pris, en toute connaissance de cause et dans l'exercice des pouvoirs qui leur étaient conférés, les mesures nécessaires et suffisantes pour pallier les risques inhérents à une activité dangereuse, l'absence d'incrimination et de poursuites à l'encontre des personnes responsables d'atteintes à la vie peut entraîner une violation de l'article 2 (§ 50). Sulla scorta di tali considerazioni, inoltre, la pronuncia ha respinto l'obiezione del Governo che contestava alla ricorrente - madre di uno dei bambini uccisi dall'ordigno - il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne per non essersi avvalsa di rimedi risarcitori civilistici.

Infine, sempre in punto di violazione degli obblighi procedurali, nel mese di febbraio è stata emessa la sent. 11 febbraio 2014, Vasilca c. Moldavia, relativa alla morte di un ragazzo in circostanze rimaste oscure, che potevano lasciar pensare sia ad un suicidio che ad un omicidio, e sulla quale le autorità avevano colpevolmente omesso di svolgere un'inchiesta adeguata.

 

b) Art. 3 Cedu

Apriamo questa disamina segnalando, anzitutto, l'ennesimo caso italiano di trattamento inumano e degradante nei confronti di un detenuto: la tardiva concessione della detenzione domiciliare a Bruno Contrada - ex funzionario di polizia e ufficiale del SISDE giudicato colpevole in via definitiva di concorso esterno in associazione mafiosa - è infatti costata al nostro Paese una nuova condanna a Strasburgo, giunta con la sent. 11 febbraio 2014, Contrada c. Italia (n. 2) (per una sintesi, v. infra). La Corte europea, decidendo a maggioranza di sei giudici su sette, ha censurato il fatto che, nonostante gli inequivocabili referti medici relativi alle gravissime condizioni di salute dell'uomo, ci fossero volute ben otto istanze alla magistratura di sorveglianza, sette delle quali rigettate, per ottenere il beneficio penitenziario, concesso nove mesi dopo che la prima istanza era stata formulata.

In tema di condizioni materiali di detenzione in carcere, tra le numerose pronunce emesse nel mese di febbraio (sent. 6 febbraio 2014, Semikhvostov c. Russia; 11 febbraio 2014, Mihaila c. Romania e Nicolae Augustin Radulescu c. Romania; 18 febbraio 2014, Necula c. Romania; 20 febbraio 2014, Shishkov c. Russia; 25 febbraio 2014, Gheorghe Predescu c. Romania; 27 febbraio 2014, Koroviny c. Russia, relativa alle condizioni di detenzione in un ospedale psichiatrico) merita di essere segnalata la sent. 20 febbraio 2014, Firstov c. Russia, in cui la Corte europea è intervenuta a sindacare la proporzionalità del risarcimento concesso ad un soggetto che aveva subito - come rilevato dalle stesse giurisdizioni interne - condizioni di trattenimento lesive della sua dignità. Pur riconoscendo in capo agli Stati un ampio margine di apprezzamento nella quantificazione dell'«adequate and sufficient redress», i giudici di Strasburgo hanno ribadito la propria prerogativa di valutare se le motivazioni poste alla base delle decisioni interne siano o meno sorrette da «sufficient reasons». Ed è proprio alla luce della laconicità del provvedimento oggetto di scrutinio che la Corte europea ha dichiarato manifestamente sproporzionata per difetto la cifra accordata al ricorrente, e pertanto, riconoscendo il suo perdurante «victim status», ha condannato lo Stato resistente per violazione dell'art. 3 Cedu.

Due sentenze hanno riscontrato altrettanti casi di sproporzione nell'utilizzo della forza pubblica. La prima (sent. 11 febbraio 2014, Gramada c. Romania) si è concentrata sull'esimente del «excès justifié», prevista dal diritto penale rumeno a beneficio di chi eccede i limiti della legittima difesa a causa di paura o di stato confusionale, e che nel caso di specie le giurisdizioni nazionali avevano accordato ad un agente di polizia responsabile di aver ferito un innocente con un colpo di arma da fuoco. La Corte europea, pur riconoscendo che l'esimente in parola «n'est pas inconnue du droit pénal européen en tant que telle», e pur ammettendo che ne possano beneficiare anche i membri delle forze dell'ordine, ha condannato a maggioranza lo Stato resistente per duplice violazione, sostanziale e procedurale, dell'art. 3 Cedu, atteso che le indagini nazionali, affette da numerosi ritardi ed omissioni, non avevano evidenziato alcun elemento di fatto che rendesse plausibile la sussistenza dello stato di paura e confusione invocato dall'agente. La seconda pronuncia in tema di uso sproporzionato della forza pubblica (sent. 13 febbraio 2014, Tali c. Estonia) concerne invece l'impiego di mezzi di contenimento all'interno di un carcere. Anche qui la Corte europea ha condannato lo Stato resistente, non per il tipo di mezzi utilizzati dalla polizia penitenziaria (spray al peperoncino e letto di contenzione), ma per le modalità attraverso cui si era svolta l'operazione di contenimento, che erano andate al di là di quanto strettamente necessario per immobilizzare il detenuto, tramutandola così in una sorta di punizione. Questioni ripetitive in materia di uso della forza pubblica sono infine venute in rilievo nelle sent. 11 febbraio 2014, Gulizar Tuncer Gunes c. Turchia (violazione sostanziale e procedurale dell'art. 3 Cedu per i maltrattamenti inferti durante e dopo un arresto in occasione di una manifestazione); 11 febbraio 2014, Sapozkovs c. Lituania (violazione procedurale dell'art. 3 Cedu a seguito di sospetti episodi di maltrattamenti in carcere); 25 febbraio 2014, Berzins c. Lituania (violazione procedurale dell'art. 3 Cedu a seguito di sospetti maltrattamenti durante un arresto).

Sul fronte del divieto di refoulement "secondo Strasburgo" si segnalano due sentenze nei confronti del Belgio, che hanno negato la violazione potenziale dell'art. 3 Cedu rispetto all'eventuale rimpatrio dei ricorrenti in Nigeria ed in Russia, concedendo peraltro ad entrambi la interim measure di cui alla Rule 39 (sent. 27 febbraio 2014, Josef c. Belgio e Zarmayev c. Belgio).

Un solo caso, questo mese, relativo alle note tristi vicende dei desaparecidos ceceni (sent. 27 febbraio 2014, Dzhabrailov e altri c. Russia)

 

c) Art. 5 Cedu

Si segnalano tre pronunce in tema di durata ragionevole della detenzione provvisoria e di garanzie da riconoscere ai ricorrenti in sede di proroga della custodia cautelare. Con le sent. 11 febbraio 2014, Gábor Nagy c. Ungheria, e 20 febbraio 2014, Novruz Ismayilov c. Azerbaijan (per una sintesi, v. infra), anzitutto, la Corte di Strasburgo ha accertato l'irragionevole durata delle custodie cautelari patite dai ricorrenti, perché queste si erano protratte dalla data degli arresti fino alle condanne di primo grado, in un caso, per oltre quattro mesi, nell'altro, per un anno e quattro mesi, in assenza di ragioni sufficienti e rilevanti per giustificare la loro proroga. Quanto al comma 4 dell'art. 5 Cedu, si è riscontrata la violazione del dettato convenzionale poiché, nella prima vicenda, l'autorità procedente si era rifiuta di sentire il ricorrente nel corso dell'udienza di procrastinazione della detenzione provvisoria, benché nell'intero periodo trascorso in vinculis l'imputato fosse stato sentito in una sola occasione; nella seconda, l'udienza per il mantenimento dello stato detentivo si era celebrata in assenza del ricorrente e del suo difensore, il quale nemmeno era stato avvisato della data e del luogo della stessa. Con la sent. 20 febbraio 2014, Ovsjannikov c. Estonia, invece, il giudice europeo ha escluso la violazione dell'art. 5 comma 3 Cedu in ordine a una detenzione protrattasi per oltre sei mesi dall'arresto alla concessione del divieto d'allontanamento dal luogo di residenza: qui, la Corte ha constatato che i giudici nazionali hanno giustificato adeguatamente e senza formule stereotipate la necessità di prolungare l'incarcerazione del ricorrente, né le autorità hanno mancato d'impiegare una speciale diligenza nella conduzione del procedimento, vista la sua complessità. La Corte di Strasburgo, però, ha ravvisato la violazione dell'art. 5 comma 4 Cedu, dato che alla difesa era stato negato l'accesso agli atti sulla base dei quali il giudice aveva sia applicato sia prorogato la custodia.

Va menzionata, infine, la sent. 18 febbraio 2014, Ruiz Rivera c. Svizzera, dove il giudice europeo ha censurato: anzitutto, il rifiuto dell'autorità svizzera di disporre una nuova perizia a tre anni dalla precedente nei confronti d'un internato - un omicida affetto da disturbi psichiatrici -, il quale aveva presentato domanda di liberazione; in secondo luogo, il diniego di tenere un'udienza di fronte al tribunale amministrativo per discutere oralmente gli esiti della perizia psichiatrica espletata illo tempore. Da qui, ancora, la lesione del comma 4 dell'art. 5 Cedu.

 

d) Art. 6 Cedu

Si segnala anzitutto la sent. 25 febbraio 2014, Văduva c. Romania (per una sintesi, cfr. infra) relativa a un'indagine sotto copertura svolta dalle unità antidroga. Qui, il giudizio di primo grado si era concluso con un'assoluzione. Nei gradi successivi, però, le corti nazionali hanno ribaltato la sentenza, accertando la colpevolezza del ricorrente sulla base delle prove raccolte nel corso delle indagini, senza controbilanciare le limitazioni subite dalla difesa a seguito delle operazioni speciali. La Corte ha riscontrato, così, la violazione dell'equità processuale.

Sotto il profilo del diritto di difesa, poi, vanno menzionate le sent. 11 febbraio 2014, Șiray c. Turchia (per una sintesi, cfr. infra), e 18 febbraio 2014, Bayram Güçlü c. Turchia, in cui il giudice europeo ha ravvisato, per l'ennesima volta, la violazione dell'art. 6 comma 1 e 3 lett. c Cedu a causa dell'assenza del difensore durante l'interrogatorio svolto dalla polizia nelle fasi preliminari del procedimento nei confronti di sospetti terroristi.

Con specifico riguardo al contraddittorio, si segnala la dec. 11 febbraio 2014, González Nájera c. Spagna, e la sent. 27 febbraio 2014, Lučić c. Croazia. Con la prima pronuncia, la Corte europea ha dichiarato il ricorso irricevibile, poiché la condanna dell'imputato si era fondata su affermazioni rese da minorenni - vittime di abusi sessuali - nel corso delle indagini, ma controbilanciate da fattori idonei a compensare la carenza di dialetticità: ad esempio, le dichiarazioni erano state raccolte da un team con competenze psico-sociali istituito dal giudice istruttore; le dichiarazioni verbalizzate erano state consegnate al ricorrente, il quale si era astenuto da qualunque osservazione in ordine alle stesse; gli incontri con i minori erano stati videoregistrati e mostrati durante il dibattimento; durante l'istruttoria erano stati sentiti i genitori e i tutori delle vittime, ecc. Con la seconda sentenza, invece, il giudice europeo ha accertato la violazione dell'art. 6 commi 1 e 3 lett. d Cedu, in quanto il ricorrente non aveva avuto un'occasione adeguata di confronto con l'accusatore; le dichiarazioni unilaterali usate per condannare erano risultate determinanti; mancavano, tuttavia, le garanzie necessarie per controbilanciare il deficit di contraddittorio.

Quanto alla presunzione d'innocenza, sono significative la sent. 11 febbraio 2014, Vella c. Malta (per una sintesi, cfr. infra) e la sent. 27 febbraio 2014, Karaman c. Germania (per una sintesi, cfr. infra), dove i ricorrenti hanno lamentato, senza successo, la violazione dell'art. 6 comma 2 Cedu per l'uso di espressioni implicanti un loro giudizio di colpevolezza, rispettivamente, in sentenze civili per la restituzione del bene e/o il risarcimento del danno proveniente da reato e in sentenze penali pronunciate separatamente nei confronti dei complici.

 

e) Art. 10 Cedu

Due sono state le sentenze di febbraio in materia di libertà di espressione. Con la sent. 4 febbraio 2014, Pentikäinen c. Finlandia (per una sintesi, v. infra) la Corte europea ha respinto il ricorso di un giornalista che era stato arrestato e condannato per non avere obbedito all'ordine di allontanarsi da una zona dove la polizia stava disperdendo una manifestazione degenerata in atti di violenza. I giudici di Strasburgo hanno infatti ritenuto "necessaria" ai sensi dell'art. 10 comma 2 Cedu l'interferenza con la libertà di espressione del ricorrente, ed al contempo hanno reputato, alla luce di una serie di indici ricavati da una scrupolosa ricostruzione dei fatti (per ulteriori dettagli, v. infra la sintesi del provvedimento), che le autorità nazionali avessero effettuato un corretto bilanciamento tra gli interessi in gioco. Giova sottolineare l'importanza attribuita dalla Corte europea al profilo sanzionatorio. Nell'escludere la violazione dell'art. 10 Cedu, infatti, particolare rilievo è stato attribuito alla circostanza che il giudice nazionale, pur avendo riconosciuto la responsabilità del ricorrente, avesse deciso di non infliggergli nessuna sanzione, sulla base della norma del codice penale finlandese secondo cui «a court may waive punishment if...due to special reasons related to the act or the perpetrator the act is to be deemed comparable to an excusable act» (a tal fine, il giudice finlandese aveva valorizzato, quale elemento integrante «special reason», il fatto che il ricorrente «was confronted with contradictory expectations, stemming from obligations imposed on the one hand by the police and on the other by his employer»). Si segnala infine, sempre con riferimento alla centralità della sanzione (qui valutata sotto il profilo del quantum) nei giudizi in materia di libertà di espressione, anche la sent. 11 febbraio 2014, Tešić c. Serbia, in cui la Corte europea ha ritenuto non "necessaria in una società democratica" la condanna in sede civile inflitta ad una donna che aveva diffamato il proprio avvocato, facendo leva, tra l'altro, sulla sproporzione tra l'ammontare del risarcimento imposto e la pensione percepita mensilmente dalla ricorrente.

 

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2. Sintesi delle pronunce più rilevanti

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 4 febbraio 2014, Pentikäinen c. Finlandia

Un  giornalista e fotografo di un settimanale finlandese viene inviato a documentare una manifestazione finalizzata a protestare contro il meeting Asia-Europa tenutosi a Helsinki nel 2006. L'assembramento degenera presto in lanci di oggetti, sassaiole e altri atti violenti. Le forze dell'ordine intimano ai manifestanti di interrompere la dimostrazione, dopodiché sigillano la zona, consentendo comunque a tutti di continuare ad allontanarsi. Sul posto resta soltanto un gruppetto di irriducibili, che vengono arrestati. Tra loro vi è anche il giornalista, il quale pure finisce in manette e trascorre 18 ore in un commissariato. Verrà poi condannato per il reato di disobbedienza ad un ordine dell'autorità di pubblica sicurezza. Dinanzi alla Corte europea egli lamenta la violazione del diritto di cronaca tutelato dall'art. 10 della Convenzione. Il ricorso viene respinto. La sentenza afferma infatti che l'interferenza con la libertà di espressione è stata esercitata entro i limiti sanciti dal comma 2 dell'art. 10 Cedu, in quanto volta "alla difesa dell'ordine e alla prevenzione dei reati", ed in quanto "necessaria in una società democratica". A quest'ultimo proposito, il collegio reputa che  le autorità finlandesi abbiano bilanciato correttamente i contrapposti interessi in gioco, e motiva tale convincimento sulla scorta delle seguenti circostanze di fatto: al giornalista era stato offerto di spostarsi in un'area protetta specificamente dedicata alla stampa; a fronte del suo rifiuto, non gli era stato impedito di documentare l'operazione di polizia contro i manifestanti, né gli erano state sequestrate le fotografie; era stato arrestato soltanto per ragioni di ordine pubblico, e non allo scopo di interferire con il suo diritto di cronaca; la sua condotta gli era costata una condanna per disobbedienza all'ordine dell'autorità, ma nessuna sanzione gli era stata applicata, proprio valorizzando il fatto che si trovasse nell'esercizio di un diritto. (Stefano Zirulia)

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 11 febbraio 2014, Contrada c. Italia (n. 2)

La vicenda è nota alle cronache. Nel 2007 Bruno Contrada, ex funzionario di polizia e ufficiale del SISDE, viene condannato in via definitiva per concorso esterno nell'associazione mafiosa "Cosa Nostra", sulla base di dichiarazioni rilasciate da alcuni pentiti. Dopo avere trascorso qualche mese nel carcere militare di Santa Maria Capua Vetere, formula istanza volta ad ottenere un trattamento penitenziario compatibile con il suo grave stato di salute, allegando una certificazione del servizio medico del carcere che attesta ischemia, difetti della vista, cardiopatie, diabete, ipertrofia della prostata, artrosi, iponutrizione e depressione. Sia la domanda di differimento dell'esecuzione della pena, che quella di detenzione domiciliare, vengono tuttavia rigettate. Dopo sette ulteriori richieste alla magistratura di sorveglianza ed un ricorso in Cassazione, tutti supportati da documentazione medica, Contrada ottiene finalmente di scontare parte della pena a casa della sorella. Con il ricorso a Strasburgo lamenta che la tardiva concessione del beneficio gli abbia arrecato uno stato di sofferenza in carcere che trascende quello connaturato alla detenzione. Come da propria consolidata giurisprudenza, la Corte valuta la compatibilità tra la detenzione in carcere e la salute del detenuto sulla scorta di tre indici: «a) la condition du détenu, b) la qualité des soins dispensés et c) l'opportunité de maintenir la détention au vu de l'état de santé du requérant». Alla luce delle condizioni di salute di Contrada, attestate da documentazione medica sempre univoca, la Corte europea conclude nel senso che la prosecuzione della sua detenzione in carcere anziché presso il domicilio fosse sin dall'origine incompatibile con l'art. 3 Cedu, del quale pertanto dichiara la violazione, benché solo a maggioranza di sei giudici su sette (dissenziente il presidente KarakaÅŸ). Vengono invece respinte come manifestamente infondate (art. 35 comma 3 e 4 Cedu) tutte le doglianze basate sull'art. 6 comma 1 Cedu relative al processo penale che aveva stabilito la responsabilità di Contrada per concorso esterno in associazione mafiosa (si trattava, in particolare, di doglianze relative alla regolare formazione del collegio giudicante, alla formazione del fascicolo del dibattimento ed all'utilizzo delle dichiarazioni dei pentiti). (Stefano Zirulia)

 

C. eur. dir. uomo, sez. II, sent. 11 febbraio 2014, Șiray c. Turchia

Arrestati come sospetti terroristi, il ricorrente e un suo complice vengono interrogati dalla polizia in assenza dei rispettivi difensori. Nel successivo giudizio, il ricorrente viene condannato sulla base delle dichiarazioni del correo, il quale asserisce d'essere stato maltrattato durante l'interrogatorio. Di qui, le doglianze del ricorrente di fronte alla Corte europea, sia perché la sua condanna si è fondata sulle dichiarazioni rilasciate dal coimputato in sede d'arresto, sia perché egli non ha potuto beneficiare dell'assistenza d'un difensore nello svolgimento dell'interrogatorio di fronte alla polizia. A quest'ultimo riguardo, il giudice europeo riscontra la violazione dell'art. 6 comma 1 e 3 lett. c Cedu, richiamando espressamente il leading-case Salduz c. Turchia, dove si è statuito che l'assistenza difensiva riveste un valore fondamentale nella fase delle indagini, allorché l'indagato sia detenuto, al fine di riequilibrare il contesto di coercizione. Quanto all'uso in sentenza delle dichiarazioni del coimputato, la Corte europea si limita a osservare che, quando la condanna di una terza persona si fonda solo o in maniera determinante su deposizioni rese in violazione dei principi elaborati nel caso Salduz, ciò costituisce normalmente una violazione dell'equità processuale. In tale ottica, prosegue la Corte, la conseguente riapertura del procedimento dovrebbe essere improntata a chiarire tutte le circostanze in cui quelle dichiarazioni sono state rese. (Francesco Zacchè)

 

C. eur. dir. uomo, sez. IV, sent. 11 febbraio 2014, Vella c. Malta

Collezionista d'antichità, il ricorrente viene sottoposto a procedimento penale per il furto e per l'incauto acquisto d'una serie di oggetti. All'esito della vicenda processuale, la corte d'appello lo assolve dai reati di furto, per mancanza di prove. Durante il processo penale, tre vittime dei furti intentano altrettante cause civili per la restituzione dei beni e/o per il risarcimento del danno. A tal proposito, i giudici civili riconoscono le pretese degli attori e, nella sentenza di condanna, usano delle espressioni di responsabilità che il ricorrente reputa lesive della presunzione d'innocenza, considerata la sua assoluzione. Di qui, il ricorso alla Corte europea per violazione dell'art. 6 comma 2 Cedu. Il giudice europeo, tuttavia, esclude una violazione del dettato convenzionale. La Corte, fra l'altro, rileva che: le decisioni sulla restituzione dei beni e sui risarcimenti del danno si sono fondate su materiale probatorio raccolto in sede civile, secondo procedure adversary; i giudici hanno valutato le prove in forza dei criteri meno stringenti - specie con riguardo all'onere della prova - che caratterizzano il processo civile rispetto a quello penale; nonostante qualche affermazione infelice, le motivazioni delle sentenze civili non contengono affermazioni di responsabilità del ricorrente che vadano al di là di quanto acclarato in sede penale. (Francesco Zacchè)

 

C. eur. dir. uomo, sez. I, sent. 20 febbraio 2014, Novruz Ismayilov c. Azerbaijan

Nel corso di un'inchiesta per truffa, malversazione e altri reati di natura economica, il pubblico ministero chiede la custodia cautelare del ricorrente per la gravità dei fatti addebitati e per il pericolo d'inquinamento delle prove. Sentito l'interessato, il giudice ordina che la detenzione abbia una durata di tre mesi. Trascorso tale lasso di tempo, la pubblica accusa chiede la proroga della misura privativa della libertà, poiché le indagini non si sono ancora concluse. Con una motivazione per relationem, il giudice concede una proroga di altri due mesi. L'udienza si svolge in assenza del ricorrente e del suo difensore. Nel verbale d'udienza, però, il giudice dà atto della presenza dell'avvocato. Il ricorrente di conseguenza appella: anzitutto, lamenta che il suo avvocato non era stato avvisato della data e del luogo dell'udienza; in secondo luogo, contesta la sussistenza dei presupposti cautelari. La corte d'appello rigetta l'impugnazione, senza considerare la doglianza relativa alla mancata partecipazione del legale all'udienza di primo grado. Va segnalato, in proposito, che all'udienza di secondo grado il prevenuto, assente, era assistito da due avvocati. La detenzione si protrae per un altro anno, fino a quando il ricorrente viene condannato dalla corte d'assise per i reati contestati. L'interessato lamenta, allora, la durata irragionevole della detenzione provvisoria e la mancanza di garanzie durante la prima udienza di proroga della custodia cautelare, a causa della sua assenza e di quella del suo difensore. Quanto all'art. 5 comma 3 Cedu, la Corte europea constata che la detenzione si è protratta per un lasso di tempo di un anno quattro mesi, calcolato a partire dalla data dell'incarcerazione fino alla sentenza di primo grado. All'inizio, osserva la Corte, esistevano ragioni - la gravità dei reati addebitati e la circostanza che il ricorrente non avesse partecipato al compimento di atti investigativi che richiedevano la sua presenza - tali da giustificare l'applicazione della misura cautelare. Con il passare del tempo - aggiunge però la Corte - questi motivi perdono d'importanza e il mantenimento della misura cautelare può essere giustificato solo dall'emergere d'altre ragioni rilevanti. In tale cornice, i giudici nazionali hanno prorogato la custodia sulla base del fatto che le indagini non erano terminate, nel frattempo al ricorrente erano stati addebitati altri reati e, infine, altri soggetti erano stati coinvolti nell'inchiesta. La Corte europea, tuttavia, nega che l'incompletezza delle indagini sia una ragione accettabile per mantenere una persona in vinculis. Del resto, aggiunge il giudice europeo, i nuovi reati sono stati contestati quattro mesi dopo la proroga della custodia, né appare rilevante che l'inchiesta penale coinvolgesse altri individui. Non solo: l'ordinanza di procrastinazione era priva d'una valutazione autonoma rispetto alle richieste del pubblico ministero, né la corte d'appello vi ha posto rimedio. Circa le proroghe successive, per di più, le autorità nazionali non hanno fornito le informazioni necessarie alla Corte per valutare la loro fondatezza. In conclusione, si ravvisa la violazione dell'art. 5 comma 3 Cedu. Con riguardo alla seconda doglianza, il giudice di Strasburgo accerta la violazione del dettato convenzionale sotto l'angolo dell'art. 5 comma 4 Cedu. Anzitutto, tanto nella prima udienza di proroga quanto nel successivo appello, non è stata assicurata la partecipazione del ricorrente, nonostante questi fosse stato sentito in una sola occasione, al momento dell'applicazione della misura coercitiva. Inoltre, sebbene sia la stessa legge nazionale a stabilire che la persona in custodia debba essere presente all'udienza di proroga della detenzione, le autorità procedenti non hanno posto rimedio al vizio. Ma v'è di più: sulla base degli atti a propria disposizione, la Corte ritiene plausibile la doglianza del ricorrente sull'assenza del suo avvocato all'udienza di proroga della custodia cautelare. Né, asserisce la Corte, colma siffatto deficit difensivo la circostanza che all'udienza di secondo grado fossero presenti due difensori. L'ordinanza di proroga, invero, ha prodotto i propri effetti immediatamente e la regolarità dell'appello non può valere quale convalida a posteriori del pregresso difetto procedurale. (Francesco Zacchè)

 

C. eur. dir. uomo, sez. III, sent. 25 febbraio 2014, Văduva c. Romania

Su indicazione del ministro degli interni, la procura allestisce un'operazione antidroga sotto copertura nei confronti del ricorrente e di altri soggetti. Il pubblico ministero, così, dispone l'intercettazione delle utenze dei sospettati, mentre gli agenti undercovert si mettono in contatto con due degli indiziati per l'acquisto simulato di una certa quantità di pastiglie di ecstasy. Arrestati al momento della consegna della droga, questi confessano in assenza dei rispettivi avvocati la loro partecipazione all'associazione finalizzata allo spaccio di stupefacenti. Un trafficante, in particolare, chiama in correità il ricorrente. A questo punto, la polizia effettua una perquisizione nella casa del ricorrente, ma senza successo. Il ricorrente viene comunque arrestato; poi, anche sulla base delle dichiarazioni rese da un confidente della polizia, messo in custodia cautelare. Dopo un mese, il ricorrente e i suoi ipotizzati sodali vengono rinviati a giudizio. Nel dibattimento, i coimputati ritrattano le precedenti dichiarazioni, mentre il ricorrente nega qualunque addebito; la difesa mette in discussione l'autenticità delle registrazioni telefoniche e chiede inutilmente una perizia al riguardo; né va a buon fine la richiesta di sentire i poliziotti sotto copertura e gli altri testimoni. In tale cornice, il giudice assolve il ricorrente e condanna gli altri imputati. Su impugnazione del pubblico ministero, tuttavia, la corte d'appello ribalta la decisione di primo grado, senza rinnovare l'istruttoria dibattimentale. La condanna si fonda specificamente sulle dichiarazioni accusatorie rese dal coimputato al momento dell'arresto; sulle trascrizioni dei dialoghi telefonici intervenuti fra questi e il ricorrente; sulle dichiarazioni rese dal confidente della polizia e dagli stessi agenti in forma anonima durante le indagini preliminari. Il successivo giudizio di fronte alla Corte suprema conferma la condanna. Il ricorrente lamenta l'iniquità del processo, ai sensi dell'art. 6 comma 1 Cedu. A tal proposito, la Corte europea osserva come la condanna pronunciata in secondo grado, e ribadita dalla Corte suprema, si sia basata esclusivamente su una diversa valutazione delle carte del giudizio di prime cure. Ciò premesso, il giudice europeo rileva, tra l'altro, che al ricorrente è stato negato il controllo sull'autenticità e sull'accuratezza delle trascrizioni dei colloqui telefonici; inoltre, egli non ha avuto la possibilità d'esaminare gli agenti undercover, né il confidente della polizia. Per la Corte europea, in conclusione, siffatte manchevolezze hanno reso il processo iniquo, poiché l'autorità procedente non ha adottato garanzie adeguate a controbilanciare le difficoltà incontrate dalla difesa nella limitazione dei relativi diritti. (Francesco Zacchè)

 

C. eur. dir. uomo, sez. V, sent. 27 febbraio 2014, Karaman c. Germania

Alcuni complici del ricorrente vengono processati e condannati separatamente per aver impiegato in maniera fraudolenta dei fondi donati a una loro associazione no profit. Il ricorrente, nel frattempo, viene indagato per i medesimi fatti sia in Germania sia in Turchia, e i relativi procedimenti sono ancora pendenti. Il ricorrente lamenta che: la sentenza pronunciata nei confronti dei complici giudicati aliunde contiene affermazioni di responsabilità a proprio carico; al momento della lettura del dispositivo, il giudice ha impiegato parole incompatibili con il suo diritto a essere presunto innocente; al tempo stesso, la stampa ha riportato notizie provenienti dalla procura secondo cui egli sarebbe stato a capo dell'organizzazione criminale; la corte ha pubblicato la sentenza di condanna sul proprio sito Internet, usando acronimi in luogo dei nomi degli imputati e dei correi processati in modo separato, con la precisazione che per questi ultimi vale la presunzione d'innocenza, diversamente da quanto avvenuto nel testo ufficiale della sentenza. Si segnala al riguardo che il ricorrente, prima, si è rivolto alla Corte costituzionale tedesca, affinché venisse riconosciuto il suo diritto alla presunzione d'innocenza; dichiarata la questione inammissibile, a questo punto, l'interessato ha adito la Corte europea, ma senza successo. In generale, premette il giudice di Strasburgo, la legge tedesca è sufficientemente chiara nel vietare di trarre qualunque inferenza di colpevolezza nei confronti di persone che non hanno preso parte a processi penali. Nel caso di specie, inoltre, l'autorità procedente aveva a che fare con una vicenda molto complessa, in cui era indispensabile ricostruire il ruolo concreto giocato da ogni persona nell'organizzazione criminale, compreso quello del ricorrente. Ma v'è di più: secondo il giudice europeo, il tenore delle parole impiegate dal presidente della corte al momento della lettura del dispositivo della sentenza non era tale da comportare una violazione della presunzione d'innocenza, e lo stesso vale per gli articoli comparsi sulla stampa. Infine, constata la Corte europea, nemmeno l'impiego di acronimi nella sentenza ufficiale sarebbe stata una soluzione idonea a evitare eventuali violazioni della presunzione d'innocenza. Piuttosto, appare decisivo per escludere violazioni della Convenzione il fatto che, nel riferirsi al ricorrente, il giudice nazionale ha sempre specificato che si trattasse di "persona accusata separatamente" e che, nella parte della sentenza dedicata alla struttura dell'organizzazione criminale, ha parlato genericamente di "persone dietro le quinte", senza esprimere un giudizio di colpevolezza sul ricorrente. (Francesco Zacchè)