ISSN 2039-1676


09 giugno 2016 |

La Corte di Cassazione ritorna sul tema del concorso esterno in associazione mafiosa: infondata la questione di legittimità  costituzionale per violazione del principio di legalità  e di ragionevolezza della pena

Cass., sez. II, 13 aprile 2016 (dep. 2 maggio 2016), n. 18132, Pres. Prestipino, Rel. Rago

 

1. Con la sentenza in commento, la Corte di Cassazione ha colto nuovamente l'occasione per tornare a parlare del delitto di concorso esterno in associazione di stampo mafioso, dichiarando la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 110 e 416 bis c.p. sollevata sotto il profilo di una presunta violazione del principio di legalità e di ragionevolezza della pena.

 

2. Il caso di specie può essere brevemente così riassunto. In data 15 ottobre 2015, il Tribunale del riesame di Catanzaro rigettava la richiesta d'appello del pubblico ministero contro l'ordinanza con cui il g.i.p. di Catanzaro aveva escluso l'applicabilità della custodia cautelare in carcere nei confronti di T. Quest'ultimo era stato indagato per il reato di concorso esterno in associazione mafiosa, avendo egli posto in essere "una serie di condotte materiali e procedimentali-amministrative a favore dell'associazione"; nonché per il reato di cui all'art. 86 d.p.r. 570/1960, per avere, in qualità di candidato al Consiglio Regionale della Calabria, "promesso e successivamente realizzato, una volta eletto, condotte a favore dell'associazione (...) e in particolare a favore dell'articolazione imprenditoriale della cosca medesima", con l'aggravante di cui all'art. 7 l. 203/1991, sotto forma dell'agevolazione della consorteria mafiosa, "giacché il patto elettorale ha comportato, a seguito e per effetto della elezione di T. al Consiglio Regionale, un rafforzamento del prestigio esterno della consorteria".

A parere concorde del g.i.p. e del Tribunale del Riesame, la richiesta di custodia cautelare in carcere avanzata dal pubblico ministero non poteva trovare accoglimento per un duplice motivo: da un lato, perché mancava la prova dell'elemento soggettivo del concorso esterno in associazione mafiosa (infatti, secondo i giudici del riesame, "non era stato provato l'elemento psicologico di agevolare la cosca mafiosa in quanto gli atti compiuti dal T. erano diretti ad agevolare non la cosca mafiosa ma gli interessi privati di alcuni singoli esponenti di essa"); dall'altro, perché, nonostante la presenza dei gravi indizi di colpevolezza, il reato di cui all'art. 86 d.p.r. 570/1960, ancorché aggravato ai sensi dell'art. 7 l. 203/1991, non rispettava i requisiti minimi di pena edittale previsti per l'applicazione della misura cautelare in questione.

Contro tale decisione, il pubblico ministero proponeva ricorso per cassazione, deducendo l'illogicità e la contraddittorietà della pronuncia del giudice del riesame.

Secondo il ricorrente, la conclusione del Tribunale di escludere la configurabilità del concorso esterno per difetto dell'elemento soggettivo sarebbe stata contraddittoria perché insanabilmente contrastante con la decisione di ravvisare la sussistenza dei gravi indizi di colpevolezza in ordine al reato di cui all'art. 86 d.p.r. 570/1962, aggravato ai sensi dell'art. 7 l. 203/1991. Più specificamente, il pubblico ministero sottolineava l'inconciliabilità tra il difetto della consapevolezza di agevolare la cosca mafiosa richiesto ai fini della configurabilità del concorso esterno e la presenza del dolo specifico di agevolazione dell'associazione richiesto ai fini della configurabilità dell'aggravante di cui all'art. 7 l. 203/1991.

 

3. La Suprema Corte ha ritenuto fondato il ricorso proposto dal pubblico ministero e ha annullato con rinvio l'ordinanza impugnata al Tribunale di Catanzaro per un nuovo esame della questione.

 

4. Quanto al profilo che qui maggiormente interessa, va rilevato che, nel corso della discussione, la difesa aveva sollevato la questione di legittimità costituzionale del combinato disposto degli artt. 110 e 416 bis c.p., sia perché la pena non sarebbe prevista dalla legge, sia perché al concorrente esterno - nonostante il diverso e minore apporto alla consorteria criminale - è applicata la stessa pena prevista per il partecipe interno.

Sul punto, la Corte sottolinea preliminarmente come, in passato, essa abbia già avuto modo di dichiarare "manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale dell'art. 110 e 416 bis c.p., sollevata per asserito contrasto con gli artt. 25, comma secondo, e 117 della Costituzione, quest'ultimo in riferimento all'art. 7 della Convenzione EDU, per violazione del principio di legalità, nella parte in cui le due disposizioni di legge ordinarie attribuiscono rilevanza penale alla fattispecie di «concorso esterno» in associazioni di tipo mafioso, poiché quest'ultima non costituisce un istituto di creazione giurisprudenziale, bensì conseguenza della generale funzione incriminatrice dell'art. 110 c.p., e la sua configurabilità trova una conferma testuale nella disposizione di cui all'art. 418, comma primo, c.p."[1].

Pertanto, con riferimento al primo dei due profili richiamati dalla difesa (indeterminatezza della pena), la Corte afferma che la pena applicabile al concorrente esterno non sia affatto indeterminata, la funzione estensiva della punibilità di cui all'art. 110 c.p. comportando l'applicazione della stessa pena prevista dall'art. 416 bis c.p.

Per quanto concerne il secondo profilo richiamato dal difensore (identità della pena tra partecipe e concorrente), i giudici di legittimità ritengono che non sia neppure ipotizzabile la violazione del principio di ragionevolezza della pena, "in quanto, (...) il giudice, applicando norme generali (attenuanti nonché artt. 132-133 c.p.), può comminare una pena adeguata al concreto disvalore della condotta tenuta dall'agente".

 

5. Al di là delle specificità del caso concreto, il ragionamento della Corte di Cassazione è tendenzialmente da condividere, sia pure con alcune precisazioni.

Decisamente condivisibile è - a parere di chi scrive - la posizione assunta dai giudici di legittimità rispetto al principio di diritto da essi richiamato. Secondo la Cassazione, la natura "normativa" del concorso esterno dipende, come in ogni altra ipotesi di reato concorsuale, dalla combinazione della disposizione generale di cui all'art. 110 c.p. con una specifica norma incriminatrice di parte speciale.

A ben vedere, però, il punto su cui vertevano le censure della difesa era un altro: ad essere in discussione non era tanto la presunta compatibilità del reato de quo con il principio di legalità (costituzionale e convenzionale) in sé e per sé considerato, quanto, piuttosto, la legittimità o meno del suo trattamento sanzionatorio.

Ebbene, anche con riferimento a quest'ultimo profilo, pare altrettanto condivisibile la posizione assunta dalla Suprema Corte. Invero, l'art. 110 c.p., nell'estendere la rilevanza penale a titolo concorsuale, comporta anche l'applicazione del trattamento sanzionatorio previsto per il reato a cui accede la condotta atipica. Come ha correttamente precisato la Cassazione, detto trattamento andrà modulato dal giudice attraverso l'utilizzo di norme di parte generale, la cui applicazione dipende dalle caratteristiche del caso concreto.

Resta, peraltro, un problema mai affrontato funditus dalla copiosissima giurisprudenza in materia di concorso esterno. Tutti i delitti associativi - compreso quello di cui all'art. 416 bis c.p. - prevedono infatti una diversa cornice edittale a seconda del ruolo che il soggetto ricopre all'interno del sodalizio: alla reclusione da sette a dodici anni per "chiunque fa parte di un'associazione di tipo mafioso" si contrappone la reclusione da nove a quattordici anni per "coloro che promuovono, dirigono o organizzano l'associazione". Quando dunque si afferma, come fa ora la Cassazione, che per il concorrente esterno "la pena è quella prevista dall'art. 416 bis c.p.", non si risolve in effetti il problema di stabilire a quale dei due possibili trattamenti sanzionatori fare riferimento. Com'è noto, la giurisprudenza ha sempre tradizionalmente dato per scontato che all'extraneus si dovesse applicare la cornice edittale prevista per il partecipe; e tale è evidentemente la conclusione a cui pervengono anche i giudici di legittimità con riferimento alla sentenza in commento. Ma le ragioni di tale soluzione non sono mai state chiarite: né vengono purtroppo chiarite neppure dalla sentenza qui segnalata, nonostante la magnifica occasione fornitale da una censura difensiva che verteva proprio sulla legalità della pena del concorso esterno.

 


[1] Cfr. Cass., Sez. II, 7 agosto 2015 (ud. 21 aprile 2015), n. 34147, Perego, con commento di A. Esposito, Ritornare ai fatti. La materia del contendere quale nodo narrativo del romanzo giudiziario, in questa Rivista, 2 ottobre 2015.