ISSN 2039-1676


10 novembre 2017 |

La Grande Camera di Strasburgo sulle competenze della Corte in materia di esecuzione delle sentenze europee da parte degli Stati: una scelta di self restraint?

C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sentenza 11 luglio 2017, Moreira Ferreira c. Portogallo (n. 2), ric. n. 19867/12

Contributo pubblicato nel Fascicolo 11/2017

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1. Con la sentenza in commento, la Grande Camera è tornata a interrogarsi circa la competenza della Corte europea dei diritti dell’uomo a vigilare – ovviamente a seguito di ricorso individuale del soggetto che si assuma leso nei propri diritti convenzionali – sull’adempimento dell’obbligo di esecuzione delle sentenze definitive di Strasburgo da parte degli Stati membri già destinatari di una condanna in sede europea.

Nell’affrontare tale questione, che vedeva invocati entrambi i parametri di cui agli artt. 6 e 46 CEDU, la Corte si dimostra estremamente timorosa di affermare la propria autonomia decisionale, e intenzionalmente recessiva rispetto alle attribuzioni e del Comitato dei Ministri (l’organo che, ai sensi della Convenzione, è istituzionalmente deputato al controllo sull’esecuzione delle sentenze europee da parte degli Stati del Consiglio d’Europa), e degli stessi Stati membri, ai quali viene riconosciuto un “margine di apprezzamento” ancora notevolmente ampio.

Il ricorso della cittadina portoghese, infatti, viene considerato infondato, con riferimento all’addotta violazione delle garanzie di cui all’art. 6 CEDU, e radicalmente inammissibile in relazione al parametro di cui all’art. 46 CEDU.

 

2. Ma procediamo con ordine, esaminando più da vicino la vicenda in esame.

La ricorrente Moreira Ferreira era già stata protagonista di un precedente giudizio dinanzi ai giudici di Strasburgo, che per l’appunto si era concluso nel 2011 con la condanna dello Stato portoghese[1]: la ricorrente, la quale soffriva di disturbi psichiatrici e della personalità, si era rivolta ai giudici europei lamentando di essere stata condannata in via definitiva per i delitti di minacce e ingiuria senza che nel processo interno i giudici l’avessero mai personalmente sentita; tale fatto costituiva, a giudizio della Corte di Strasburgo, una violazione delle garanzie processuali predisposte dall’art. 6 CEDU, che in via assolutamente principale stabilisce il diritto “to a fair and public hearing”.

Nell’ambito di tale procedimento, il Portogallo era stato espressamente condannato al risarcimento delle spese legali affrontate dalla ricorrente, oltre che al pagamento di una somma di denaro (2.400 euro) a titolo di risarcimento dei danni morali subiti; la stessa sentenza della Corte europea, peraltro, evidenziava come il meccanismo di revisione previsto dall’articolo 449 del codice di procedura penale portoghese costituisse, in principio, un rimedio efficace al fine di garantire la riparazione della violazione a carattere processuale riscontrata nel caso di specie, consentendo la riapertura dei procedimenti penali nelle ipotesi in cui la Corte europea avesse riscontrato una lesione dei fondamentali diritti dell’individuo[2].

Ciò nonostante, il 21 marzo 2012 la Suprema Corte portoghese rigettava l’istanza di revisione proveniente dalla ricorrente vittoriosa.

Tale rigetto veniva motivato sulla base dell’assunto che la condanna emessa nei confronti della ricorrente non fosse di per sé incompatibile con la sentenza della Corte europea dei diritti dell’uomo: e questo perché, secondo la Suprema Corte, la stessa pronuncia europea – nella parte in cui affermava che appariva “impossibile speculare riguardo alla decisione che la Corte d’Appello [portoghese] avrebbe assunto se la persona condannata fosse stata sottoposta a esame”[3] – aveva chiaramente escluso la possibilità che a seguito dell’accertamento di quella specifica violazione di carattere processuale si potessero sollevare seri dubbi in ordine alla legittimità della condanna irrogata. A riprova di ciò, si aggiungeva che i giudici di Strasburgo avevano infatti accordato alla ricorrente un risarcimento per i danni morali subiti, il cui pagamento a opera dello Stato portoghese doveva pertanto ritenersi esauriente ai fini dell’adempimento dell’obbligo di esecuzione di cui all’art. 46 CEDU.

Il vizio di natura procedurale che aveva inficiato il diritto di difesa della ricorrente, pertanto, pur traducendosi in una nullità insanabile ai sensi del diritto processuale portoghese, non poteva dare adito a un procedimento di revisione straordinaria, in quanto il citato art. 449 § 1, lett. g) del c.p.p. locale espressamente consente la riapertura del processo nei soli casi in cui “la condanna sia incompatibile con una sentenza vincolante per lo Stato portoghese che sia stata emessa da un’autorità internazionale”, ovvero allorché “una simile sentenza faccia sorgere seri dubbi circa la legittimità della condanna in questione”[4].

 

3. A seguito del diniego della Suprema Corte, la signora Moreira Ferreira provvedeva a presentare un nuovo ricorso alla Corte di Strasburgo, sostenendo che il rigetto della sua richiesta di revisione del processo integrasse un’ulteriore violazione dell’art. 6 CEDU, oltre che dell’art. 46 CEDU.

Il ricorso veniva inizialmente assegnato alla Quarta sezione della Corte, ma questa, ritenendo che la questione sollevasse gravi problemi di interpretazione della Convenzione, o comunque rischiasse di dare adito a contrasti giurisprudenziali, decideva di investire direttamente del caso la Grande Camera.

 

4. Esaminando anzitutto la doglianza della ricorrente relativa alla presunta violazione dell’art. 6 § 1 CEDU a opera della Suprema Corte portoghese, la Grande Camera riconosce di dover affrontare, prima ancora che il merito del ricorso, due distinte questioni preliminari attinenti alla sua ammissibilità: in primo luogo, deve accertare la sussistenza della giurisdizione della Corte, ossia che l’esame del ricorso non ricada nelle prerogative che l’art. 46 CEDU espressamente attribuisce al solo  Comitato dei Ministri; in secondo luogo – laddove il primo scrutinio abbia esito positivo – se sussista la sua competenza ratione materiae, e dunque se le garanzie previste dall’art. 6 CEDU siano effettivamente applicabili al procedimento in questione.

Alla prima questione, la Grande Camera fornisce risposta positiva. Richiamando i principi già espressi nella sentenza Bochan c. Ucraina (n.2)[5], essa ricorda infatti che il ruolo assegnato dalla Convenzione al Comitato dei Ministri in relazione all’esecuzione delle sentenze della Corte non impedisce che le misure intraprese da uno Stato per porre rimedio alla violazione accertata possano a loro volta sollevare nuove questioni non assorbite dal precedente giudizio; il che significa che in linea generale “la Corte può ricevere una doglianza relativa a una nuova violazione della Convenzione commessa nell’ambito di un procedimento di riesame svolto a livello nazionale per dare attuazione a una delle sue sentenze”[6].

La Corte europea, rammentano i giudici di Strasburgo, non possiede il potere di ordinare direttamente la riapertura di procedimenti da parte dello Stato convenuto; ciò nonostante, come riconosciuto anche dalla Raccomandazione No. R (2000)2 del Comitato del Ministri[7], la prassi degli stessi Stati membri dimostra che in circostanze eccezionali il riesame di un caso o la riapertura del procedimento si sono dimostrati il più efficiente se non l’unico strumento per garantire al ricorrente vittorioso un’effettiva restitutio in integrum, in particolare con riferimento al diritto penale. Di conseguenza, la Corte stessa, specialmente laddove accerti la violazione delle garanzie di cui all’art. 6 CEDU, può indicare nella riapertura del processo il modo più opportuno, in principio, per rimuovere la violazione riscontrata, senza che ciò comprometta in alcun modo la piena libertà dello Stato soccombente nella scelta del rimedio esecutivo interno più idoneo a porre il ricorrente nella situazione in cui si sarebbe trovato se la violazione non fosse mai stata commessa, come previsto dall’art. 46 CEDU.

Questo significa peraltro, conclude la Grande Camera, che la questione relativa alla compatibilità del nuovo procedimento di revisione con gli standard dell’art. 6 CEDU può essere esaminata separatamente dagli aspetti strettamente relativi all’esecuzione della sentenza europea già pronunciata; il ricorso ora oggetto di esame, infatti, concerne nello specifico la validità ai sensi dei principi inerenti al giusto processo delle motivazioni con cui la Suprema Corte portoghese ha negato la riapertura del procedimento a carico della ricorrente, fatto che, correttamente, costituisce una nuova informazione per la Corte rispetto a quelle già oggetto di giudizio.

Dopo aver dunque appurato che l’art. 46 CEDU non pone un problema di giurisdizione rispetto alle competenze del Comitato dei Ministri, i giudici di Strasburgo passano a verificare se i principi richiamati dall’art. 6 § 1 CEDU siano effettivamente applicabili al procedimento di revisione in esame.

Il problema che la Grande Camera si trova ad affrontare riguarda, per la precisione, la possibilità o meno di considerare esistente il diritto ad avere un giusto processo paventato dalla ricorrente in relazione a un procedimento di revisione, all’interno del quale, come sostenuto in alcune precedenti decisioni della Corte, nei confronti dell’individuo non sarebbe propriamente formulata nessuna “accusa penale”, essendo egli già condannato in via definitiva[8]. Nondimeno, in altre precedenti pronunce la Corte ha invero ricondotto sotto le garanzie di cui all’art. 6 CEDU anche i procedimenti in cui i giudici nazionali siano comunque chiamati a rideterminare l’accusa penale, benché nei confronti di un soggetto che risulti già condannato[9].

Proprio quest’ultimo è, a parere dei giudici della Grande Camera, il caso del giudizio di revisione svolto innanzi alla Suprema Corte portoghese ai sensi dell’art. 449 del c.p.p. nazionale: compito della Suprema Corte, infatti, era proprio valutare la compatibilità della condanna irrogata all’esito del processo penale con l’accertamento svolto dai giudici di Strasburgo e, se ritenuto necessario, riesaminare il caso di specie al fine di condurre un nuovo accertamento in merito alle accuse mosse nei confronti della ricorrente. Il ricorso proposto ai sensi dell’art. 6 CEDU deve, pertanto, ritenersi ratione materiae ammissibile.

 

5. Sancita l’ammissibilità del ricorso fondato sull’art. 6 § 1 CEDU, la Grande Camera passa dunque a esaminare il merito delle doglianze mosse dalla ricorrente.

Quest’ultima, infatti, lamentava che, a differenza di quanto sostenuto dalla Suprema corte portoghese, la pronuncia della Corte europea del 5 luglio 2011 poneva seri dubbi in ordine alla legittimità della condanna penale da lei subita, tali da richiedere un nuovo procedimento in cui i vizi processuali riscontrati fossero interamente emendati; la Suprema Corte, pertanto, aveva commesso un grave errore nell’interpretazione e applicazione dell’art. 449 del c.p.p. interno, che si era a sua volta tradotto in un sostanziale diniego di giustizia.

A tali accuse, il Governo portoghese replicava sostenendo che, sulla base del diritto interno, il diritto alla riapertura di un procedimento penale ormai concluso non poteva considerarsi né assoluto, né automatico; e che, essendo già avvenuto il pagamento del risarcimento ordinato dai giudici di Strasburgo, una rinnovazione del processo nel caso di specie sarebbe stata comunque superflua.

Nel motivare la propria decisione, la Grande Camera richiama ancora una volta i principi espressi dalla precedente pronuncia Bochan c. Ucraina (n.2), e in particolare ricorda che la Corte europea, non potendosi trasformare in una sorta di “quarto grado di giudizio”, non può sindacare le scelte assunte dai giudici interni in base all’art. 6 § 1 CEDU, a meno che le stesse non risultino arbitrarie o manifestamente irragionevoli[10]. Solo laddove le motivazioni addotte dall’organo giurisdizionale nazionale siano completamente mancanti, o comunque frutto di automatismi decisionali o stereotipi, può effettivamente riconoscersi l’esistenza di un vero e proprio diniego di giustizia.

Di conseguenza, la Grande Camera si trova a dover vagliare la ragionevolezza, e dunque la compatibilità con gli standard convenzionali, delle motivazioni addotte dalla Suprema Corte portoghese per giustificare il proprio provvedimento di diniego: ragionevolezza che, a suo giudizio, sussiste.

Primariamente, la Grande Camera osserva che la giurisprudenza della Corte europea e la prassi deli Stati membri dimostrano che la riapertura dei processi, pur essendo strumento spesso idoneo a garantire la rimozione della violazione convenzionale accertata, non è comunque un rimedio obbligato per lo Stato condannato; di conseguenza, la decisione assunta dalla Suprema Corte portoghese, pur fondandosi su una propria autonoma e personale interpretazione della sentenza europea di condanna, non poteva solo per questo ritenersi arbitraria, apparendo al contrario compatibile con il margine di apprezzamento riconosciuto agli Stati in relazione all’esecuzione delle pronunce di Strasburgo.

Questa osservazione è, pertanto, secondo la Corte sufficiente a escludere un’ulteriore violazione dell’art. 6 § 1 CEDU da parte dello Stato portoghese.

 

6. Sul secondo motivo di ricorso, avente a oggetto l’addotta violazione dell’art. 46 CEDU (ossia il presunto inadempimento dell’obbligo di eseguire la sentenza del 2011 da parte del Portogallo), la Grande Camera è lapidaria.

Le questioni relative alla conformazione da parte degli Stati alle sentenze definitive di Strasburgo emesse a loro carico, infatti, ricadono al di fuori della giurisdizione della Corte europea dei diritti dell’uomo, salvo i casi in cui sia avviata la procedura d’infrazione espressamente disciplinata dall’art. 46 §§ 4 e 5 CEDU.

Detto specifico ricorso viene dunque considerato radicalmente inammissibile.

 

***

 

7. Come si evince dalla sentenza ora esaminata, le competenze che la Corte europea dei diritti dell’uomo ritiene di potersi auto-attribuire con riferimento al controllo sull’esecuzione delle sue pronunce di condanna da parte degli Stati sono estremamente limitate.

L’esito del giudizio in esame può apparire per alcuni versi addirittura paradossale, se si considera che la stessa Grande Camera ammette chiaramente che il rifiuto dello Stato condannato di riaprire il processo svoltosi in violazione dell’art. 6 CEDU non comporta, di per sé, alcuna ulteriore violazione della Convenzione europea: né dell’art. 46 CEDU, in merito al quale la Corte europea sostiene di non avere alcuna giurisdizione, né dell’art. 6 CEDU, a meno che i motivi che hanno fondato il rigetto non risultino “arbitrari”.

Al cuore di quello che sembra in larga parte un vero e proprio self restraint dei giudici di Strasburgo sta, anzitutto, il delicato equilibrio di potere che gli stessi devono mantenere con il Comitato dei Ministri, l’organo “politico” del Consiglio d’Europa, deputato dalla Convenzione (art. 46 § 2) al controllo sull’esecuzione delle sentenze della Corte. In virtù delle attribuzioni a quest’ultimo riservate, pertanto, la Grande Camera sostiene di non essere autorizzata a rilevare la mancata esecuzione di una sentenza di condanna europea da parte di uno Stato, e dunque ad accertare una violazione dell’art. 46 CEDU: sarà il Comitato dei Ministri a vigilare sulle misure esecutive poste in essere dallo Stato condannato e, laddove non le ritenga sufficienti, ad adire nuovamente la Corte ricorrendo alla procedura d’infrazione delineata dai §§ 4 e 5 della norma in esame. Nessun altro margine d’intervento è previsto per la Corte di Strasburgo in questo campo, e, in particolare, appare completamente esclusa la possibilità per il ricorrente di far valere di fronte ai giudici europei l’inadempimento della pronuncia emessa in suo favore da parte dello Stato, in caso di inerzia del Comitato dei Ministri.

 

8. Nondimeno, con riferimento alla presunta violazione inerente le garanzie di cui all’art. 6 § 1 CEDU, la Grande Camera sembra prima facie dimostrare un atteggiamento più generoso, dichiarando l’ammissibilità del motivo di ricorso.

Tale specifico punto, peraltro, è oggetto di serrata critica all’interno della dissenting opinion redatta congiuntamente dai giudici Raimondi, Nußberger, De Gaetano, Keller, Mahoney, Kjølbro e O’Leary. A giudizio di costoro, infatti, in base all’art. 46 CEDU la Corte europea deve ritenersi priva di qualsiasi competenza, di qualsiasi tipo, nel campo dell’esecuzione delle sue sentenze; e tale preclusione coprirebbe, pertanto, anche i procedimenti di revisione conseguenti all’accertamento di una violazione della Convenzione, che non costituirebbero, in realtà, nessun “nuovo fatto rilevante” idoneo a giustificare la presa in carico di un nuovo giudizio a opera della Corte. La Grande camera, pertanto, secondo i dissenzienti avrebbero dovuto dichiarare l’inammissibilità anche di questo motivo di ricorso, declinando la propria giurisdizione in favore del Comitato dei Ministri (davanti al quale, del resto, il procedimento d’esecuzione a carico del Portogallo risultava ancora pendente).

In ogni caso, pur analizzando nel merito il ricorso, la Grande Camera ritiene di non dover riconoscere alcuna violazione dell’art. 6 CEDU: e ciò nonostante la decisione della Suprema Corte portoghese avesse platealmente interpretato la pronuncia di condanna europea del luglio 2011 in un senso non solo estremamente restrittivo, ma in larga parte anche incompatibile con il dato letterale della sentenza stessa, che peraltro aveva espressamente indicato la riapertura del procedimento penale ai sensi dell’art. 449 del c.p.p. locale quale rimedio idoneo a riparare alla riscontrata violazione.

Questa soluzione, finalizzata a riconoscere agli Stati il più ampio margine di apprezzamento possibile, con l’unico, indeterminato limite della “non arbitrarietà” delle proprie decisioni, è stata adottata da una maggioranza molto stretta all’interno della Grande Camera, formata da solo nove giudici contro otto. Ben tre le opinioni apertamente dissenzienti in merito a questo profilo, tra le quali spicca, per la peculiare sistematicità, quella redatta dal giudice Pinto de Albuquerque, a firma congiunta con i giudici Karakaş, Sajó, Lazarova Trajkovska, Tsotsoria, Vehabović e Kūris.

Nella sua dissenting opinion, il giudice Pinto fornisce una ricostruzione della giurisprudenza della Corte europea parzialmente alternativa a quella della Grande Camera, valorizzando il sempre più frequente uso delle c.d. retrial clauses[11] da parte dei giudici di Strasburgo e la stessa prassi esecutiva degli Stati membri nel senso di riconoscere un vasto consenso europeo nell’attribuzione di un vero e proprio diritto individuale alla riapertura di procedimenti penali in conseguenza all’accertamento di violazioni della Convenzione; a ragione di ciò, stigmatizza fortemente l’approccio “minimalista” prescelto dalla Grande Camera, che a suo giudizio indebolisce l’autorità della Corte europea, e in particolare la scelta di condonare – adducendone la vaga “non arbitrarietà” – l’aperto inadempimento della Suprema Corte portoghese all’obbligo di rimuovere la violazione accertata nella sentenza Moreira Ferreira, fondato su un’interpretazione della pronuncia europea volutamente distorta e inaccettabile.

 

9. Alla luce della breve analisi finora svolta, e rimandando ad altra sede più attenti approfondimenti, sembra possibile condividere la critica mossa dal giudice Kūris nella dissenting opinion a sua firma, secondo la quale la sentenza in esame “non solo non ha affatto chiarificato la giurisprudenza europea in materia di revisione o riapertura di procedimenti penali a seguito dell’accertamento da parte della Corte di una violazione dell’art. 6 CEDU, ma ha anzi prodotto nuovi dubbi”.

Senza contare che la stessa Grande Camera, nella precedente e più volte citata sentenza Bochan c. Ucraina (n. 2), era giunta a una soluzione radicalmente diversa, riconoscendo che la lettura operata in quel caso dalla Suprema Corte nazionale, discostandosi apertamente dal contenuto letterale della sentenza di condanna europea, doveva ritenersi “arbitraria” e costituiva pertanto un sostanziale diniego di giustizia in danno del ricorrente[12].

Lo stato dell’arte, in conclusione, non permette di definire con chiarezza i criteri in base ai quali la Corte europea potrà valutare l’arbitrarietà di un provvedimento dei giudici interni che neghi la riapertura di un processo penale a un soggetto già risultato vittorioso davanti ai giudici di Strasburgo; ed è solo un caso che questa pronuncia sia intervenuta in un momento in cui il tema dell’esecuzione delle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo appare oggetto di animato dibattito nell’ordinamento italiano, sul quale si è recentemente espressa anche la nostra Corte di cassazione, nella pronuncia che ha definito il caso Contrada, prediligendo una posizione estremamente rigorosa[13].

Non sfugge, tuttavia, che tale situazione di incertezza può rischiare di incentivare comportamenti volutamente elusivi da parte degli Stati membri che desiderino sottrarsi all’esecuzione di pronunce per loro scomode; e che il bene in gioco, pertanto, non è altri che la stessa effettività della protezione accordata dal sistema convenzionale ai diritti dell’uomo, la quale risulterebbe severamente compromessa laddove i meccanismi predisposti dalla Convenzione a tutela dell’esecuzione delle sentenze di condanna della Corte europea non riuscissero a funzionare in modo fluido e armonizzato.

A ulteriore detrimento di chi, avendo già subito una violazione dei propri diritti convenzionalmente garantiti, non sia riuscito a ottenere un’adeguata riparazione mediante gli strumenti predisposti dal diritto interno e tenti ancora una volta la strada europea per ottenere giustizia.

 


[1] C. eur. dir. uomo, Sez. II, sentenza 5 luglio 2011, Moreira Ferreira c. Portogallo, ric. n. 19808/08.

[2] Cfr. in particolare il § 41 della richiamata sentenza: “The Court firstly considers that when, as in the instant case, an individual has been convicted after proceedings that have entailed breaches of the requirements of Article 6 of the Convention, a retrial or the reopening of the case, if requested, represents in principle an appropriate way of redressing the violation. In that regard, it notes that Article 449 of the Portuguese Code of Criminal Procedure permits the reopening of proceedings at domestic level where the Court has found a violation of a person’s fundamental rights and freedoms. However, the specific remedial measures, if any, required of a respondent State in order to discharge its obligations under the Convention must depend on the particular circumstances of the individual case and be determined in the light of the terms of the Court’s judgment in that case (…)”.

[3] C. eur. dir. uomo, Sez. II, sentenza 5 luglio 2011, Moreira Ferreira c. Portogallo, § 42.

[4] Cfr. § 27 della sentenza in commento.

[5] C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sentenza 5 febbraio 2015, Bochan c. Ucraina (n.2), §§ 33-39.

[6] Cfr. il § 47 della sentenza in commento; così anche C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sentenza 5 febbraio 2015, Bochan c. Ucraina (n.2), § 33; C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sentenza 30 giugno 2009, Verein gegen Tierfabriken Schweiz c. Svizzera, § 62.

[7] Raccomandazione adottata il 19 gennaio 2000 dal Comitato dei Ministri in cui si invitano gli Stati membri a introdurre nel proprio ordinamento meccanismi idonei a garantire la riapertura dei processi conseguentemente all’accertamento di una violazione da parte della Corte europea dei diritti dell’uomo, e in particolare nei casi in cui:

“(i) the injured party continues to suffer very serious negative consequences because of the outcome of the domestic decision at issue, which are not adequately remedied by the just satisfaction and cannot be rectified except by re-examination or reopening, and

(ii) the judgment of the Court leads to the conclusion that

(a) the impugned domestic decision is on the merits contrary to the Convention, or

(b) the violation found is based on procedural errors or shortcomings of such gravity that a serious doubt is cast on the outcome of the domestic proceedings complained of.”

[8] Cfr. C. eur. dir. uomo, Fischer c. Austria (dec.), ECHR 2003-VI; C. eur. dir. uomo, Ocalan c. Turchia (dec.), 6 luglio 2010.

[9] C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sentenza 26 luglio 2002, Meftah e a. c. Francia, § 40; C. eur. dir. uomo, sentenza 2 marzo 1987, Monnell e Morris c. Regno Unito, 54.

[10] Cfr. § 83 della sentenza in commento.

[11] Si tratta di clausole mediante le quali la Corte europea indica espressamente allo Stato soccombente, in motivazione o direttamente nel dispositivo, i rimedi individuali a suo giudizio più idonei per rimuovere la riscontrata violazione: quali la scarcerazione del ricorrente, in caso di detenzione in violazione dell’art. 5 CEDU o dell’art. 7 CEDU; la riduzione della pena concretamente irrogata, in caso di condanna contraria all’art. 7 CEDU; la riapertura di procedimenti interni svolti in violazione delle garanzie di cui all’art. 6 CEDU.

[12] Cfr. C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sentenza 5 febbraio 2015, Bochan c. Ucraina (n.2), § 64.

[13] Si rimanda, a tale riguardo, al commento svolto da F. Viganò, Strasburgo ha deciso, la causa è finita: la Cassazione chiude il caso Contrada, in Dir. pen. cont., fasc. 9/2017, p. 173 ss.