ISSN 2039-1676


25 febbraio 2019 |

Si chiude il “caso Santa Rita’’: la Corte d’Assise d’Appello di Milano esclude il dolo d’omicidio

Corte d'Assise d'Appello di Milano, Sez. II, sent. 19.10.2018 (dep. 15.1.2019), Pres. Ondei, Est. Anelli, imp. Brega Massone e a.

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1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, la Corte d’Assise d’Appello di Milano, pronunciandosi a seguito di rinvio dalla Corte di Cassazione, ha definito il caso relativo ai gravi fatti posti in essere presso la clinica Santa Rita di Milano, tristemente assurta agli onori della cronaca come “clinica degli orrori”. La vicenda, che ha avuto ampio clamore mediatico, riguarda come si ricorderà la realizzazione di interventi chirurgici inutili (non solo a fini terapeutici, ma anche a fini palliativi) ai danni di pazienti spesso anziani e affetti da gravi patologie, che ne hanno causato la morte.

Cuore della pronuncia è la riqualificazione del fatto, attribuito dai giudici di prime e di seconde cure agli imputati a titolo di omicidio doloso - nella forma del dolo eventuale -, in omicidio preterintenzionale. Essendo ormai precluso il sindacato sulla oggettiva inutilità degli interventi, nonché sulla loro efficacia causale rispetto al decesso dei pazienti sottopostivi, la sentenza annotata si è limitata all’analisi dell’elemento psicologico che ha caratterizzato le condotte degli imputati, giungendo a ritenere, attraverso una rilettura di praticamente tutte le risultanze istruttorie e dibattimentali, non provato il dolo eventuale.

 

2. Ripercorriamo anzitutto brevemente l’iter giudiziario della vicenda, affrontata in primo grado dalla Corte d’Assise di Milano (clicca qui per la decisione, pubblicata e annotata su questa Rivista) e relativa a  Pierpaolo Brega Massone (dirigente medico responsabile dell'unità Operativa di Chirurgia Toracica della casa di cura Santa Rita di Milano), Pietro Fabio Presicci e Marco Pansera (membri dell'équipe di chirurgia toracica, il secondo poi estromesso dal procedimento perché riconosciuto estraneo ai fatti), accuati di aver realizzato interventi chirurgici non necessari, senza finalità terapeutica e in assenza di valido consenso del paziente a carico di numerosissimi ospiti della clinica, causandone le lesioni e, in quattro casi, la morte. I fatti sarebbero stati commessi al fine di far conseguire alla clinica Santa Rita (e, per un periodo, alla clinica San Carlo) rimborsi da parte della Regione Lombardia. Gli imputati erano stati riconosciuti colpevoli di falso, truffa, lesioni e omicidio volontario – mai prima di allora attribuito a un medico.

La Corte d’Assise, avendo fin da subito escluso il dolo generico e quello intenzionale, non essendo in dubbio che gli imputati non agirono allo scopo di causare la morte dei pazienti, aveva invece come è noto riconosciuto la sussistenza del dolo eventuale, ravvisando nella condotta dei medici non la mera previsione dell’evento (né, a maggior ragione, la sua sola prevedibilità), ma anche la sua accettazione, e la scelta degli imputati di agire comunque, “costi quel che costi”, pur di realizzare il fine del conseguimento dei rimborsi pubblici. La decisione, confermata in Appello, è stata invece oggetto di serrata critica da parte della Cassazione, la quale l’ha annullata relativamente al dolo di omicidio e alla qualificazione giuridica dei reati, rinviando, per un nuovo giudizio su tali punti, a una nuova sezione della Corte d’Assise d’Appello di Milano.

 

3. La Corte di Cassazione, con sentenza del 22 giugno 2017, che qui pure pubblichiamo per l’interesse, aveva ritenuto immune da vizi logici la valutazione operata dai giudici di merito con riguardo all’inutilità degli interventi realizzati, ed aveva riconosciuto infondati i ricorsi dei difensori, che lamentavano l’applicazione dell’art. 582 c.p. in ragione della mancata prova del dolo di lesioni in capo agli agenti: la Corte aveva sostenuto, richiamando la propria giurisprudenza, che un intervento chirurgico non orientato a una finalità terapeutica non costituisse un atto medico trovante la sua legittimazione nell’art. 32 della Costituzione, non differenziandosi, quindi, dalla condotta di chiunque leda volontariamente l’integrità fisica altrui; di conseguenza, aveva argomentato la Corte, un atto estraneo a qualsiasi finalità terapeutica si traduce sempre in una non consentita alterazione dell’organismo del paziente, indipendentemente dalle finalità perseguite dall’agente.

Ciò su cui, invece, è intervenuta la Suprema Corte, è il riconoscimento, a carico degli imputati, dell’elemento psichico del dolo di omicidio, e la conseguente qualificazione del fatto come omicidio volontario ex art. 575 c.p., piuttosto che come omicidio preterintenzionale ex art. 584 c.p.; correttamente era stata esclusa, invece, la configurabilità dell’omicidio colposo ex art. 589 c.p., il quale avrebbe presupposto che la scelta di intervenire chirurgicamente del medico fosse stata ab origine di natura colposa – cosa che invece non si può affermare nel caso in cui egli abbia agito senza alcuna finalità terapeutica.

La Corte di Cassazione chiarisce, preliminarmente, che l’omicidio preterintenzionale è ravvisabile quando l’agente vuole soltanto l’evento minore consistente nelle lesioni cagionate alla persona offesa ma non anche l’evento maggiore (la morte): quest’ultimo risultando a carico dell’agente sulla base del fatto che costituisce la conseguenza diretta, sul piano causale, della sua condotta, ed inoltre che esso rappresenta conseguenza altamente probabile della condotta lesiva voluta. Il dolo eventuale (unico forma di dolo ipotizzabile nel caso in esame) presuppone invece che l’agente si sia rappresentato e abbia voluto, nella più lieve forma dell’accettazione, l’evento realizzato (in questo caso, la morte). Al fine di meglio definire il concetto di dolo eventuale, la Corte richiama le Sezioni Unite sul caso ThyssenKrupp: il dolo eventuale non consiste nella mera rappresentazione dell’evento (in questo caso, la morte del paziente in seguito all’operazione), né nella formula – abusata – della sua accettazione; ciò che deve essere dimostrato, è la chiara, concreta presa d’atto, da parte dell’agente, del rischio di verificazione dell’evento, nonché una scelta razionale e consapevole di agire comunque, anche a costo di provocarlo. Occorre – ed è onere dell’accusa – dimostrare una piena adesione psichica dell’agente all’evento-morte. Tale onere secondo la S.C. non è stato assolto nel caso di specie: la Corte d’Appello avrebbe infatti preso una decisione illogica, perché fondata su dati parziali: è stata omessa, infatti, la valutazione di elementi di pari peso (ma di opposto senso), che avrebbero potuto condurre a una lettura diversa dell’elemento psicologico, ed è stata omessa un’analisi complessiva della situazione, per accertare che una lettura alternativa della situazione non fosse consentita. Non è stata, insomma, raggiunta quella prova “oltre ogni ragionevole dubbio”, che costituisce il presupposto indefettibile di una condanna in sede penale.

 

4. La sentenza della Cassazione, pur netta nell’enunciazione dei principi che avrebbero dovuto guidare la decisione del giudice del rinvio, non imponeva alcuna soluzione obbligata; la Corte d’Appello, tuttavia, non solo si è pienamente conformata all’orientamento garantista di cui la Cassazione si è fatta portavoce, ma ha anche riletto pressoché tutti gli elementi ritenuti dal primo giudice indizianti il dolo omicidiario, giungendo spesso a ritenerli addirittura i sintomi di un’assenza di volontarietà.

Ma andiamo con ordine: la Corte d’Assise d’Appello (19 ottobre 2018), chiamata ad indagare in quale situazione psicologica si trovassero gli imputati al momento del fatto, ha recepito l’indicazione della Corte di Cassazione di valorizzare alcuni elementi di fatto, al fine dell’accertamento del coefficiente psicologico del dolo eventuale: in particolare, entrambe le sentenze richiamano l’elemento della rappresentazione dell’evento, affermando che, per poter ritenere sussistente il dolo, l’evento deve essere stato anticipatamente percepito dall’agente, in modo diretto e completo; sulla valutazione possono poi incidere l’urgenza di intervenire (tanto minore è l’urgenza, tanto meno è probabile un intervento frettoloso dovuto a imprudenza o imperizia, rispetto a uno che sia frutto di una scelta ponderata), la protrazione o reiterazione della condotta, la circostanza che l’agente potesse nutrire una ragionevole speranza di evitare l’evento, o che avesse adottato cautele, anch’esse ragionevoli, per farlo, l’esistenza di eventuali conseguenze negative per l’agente nel caso di verificazione dell’evento (sul principio dell’economicità dell’azione, in base al quale ogni essere umano sceglierà la soluzione che gli consentirà di ottenere il massimo risultato con un minimo sacrificio dei propri interessi), l’utilizzo di artifici o inganni per porre in essere la condotta causativa del danno.

In assenza di confessione, il giudice è tenuto a scrutinare i fatti, al fine di ricavare indizi sullo stato psichico dell’agente al momento del reato; ed è proprio dai fatti, di cui viene fornita una lettura opposta rispetto a quella del primo giudice di merito, che la Corte ricava l’assenza di dolo.

Quanto alla rappresentazione dell’evento morte, per esempio, si giunge a escludere che esso non potesse che essere percepito nitidamente come inevitabile da parte degli agenti: al contrario, gli interventi a cui i pazienti furono sottoposti non paiono al giudice del rinvio (che si spinge forse, qui, anche oltre il compito affidatogli, giungendo a rivalutare la stessa opportunità dell’intervento chirurgico) abnormi, ma semplicemente frettolosi e gravemente imprudenti, in quanto condotti su pazienti debilitati senza effettuare diagnosi complete; da questo consegue che le conseguenze mortali non fossero lampanti, ma solo prevedibili da parte di un agente modello. I medici Brega Massone e Presicci, invece, essendo risultati assolutamente inidonei ad assolvere il compito che essi stessi avevano assunto, non avevano previsto la morte dei pazienti: ciò è tanto più probabile, alla luce della personalità dei soggetti agenti, e in particolare del Brega, in possesso  di una straordinaria, e sempre inopportunamente espressa, fiducia nelle proprie capacità. Depone in questo senso anche la frequenza degli interventi, ritenuta dai giudici di prime cure come sintomo del dolo, e riletta invece in senso opposto dalla seconda Corte d’Appello, che aveva positivamente valutato il fatto che moltissimi degli interventi non avessero condotto alla morte dei pazienti (i fatti di lesioni sono ottantotto, i casi di decesso “solo” quattro). I giudici di prime e seconde cure avevano accertato la volontà di procedere agli interventi ad ogni costo anche dalla incompletezza e superficialità delle informazioni rese ai pazienti, che si erano quindi trovati a prestare un consenso viziato; la Corte d’Appello in sede di rinvio valorizza invece alcuni atteggiamenti dei familiari dei pazienti, dai quali ricava la consapevolezza della gravità dell’intervento a cui si sottoposero i loro congiunti, o, in altri casi, addebita le scarse informazioni a persone diverse dagli imputati. L’impressione che si ricava è quasi di sottovalutazione di un elemento – quello del consenso informato – che è la base per discernere la condotta lecita del sanitario da quella illecita di chiunque, per qualsiasi motivo (anche il più nobile) cagioni lesioni a un’altra persona; le parole dei congiunti delle vittime, per esempio, non sempre sembrano decisive ai fini dell’accertamento di una loro piena consapevolezza circa la pericolosità dell’intervento (a pagina 58, per esempio, il figlio di una paziente dichiara la propria consapevolezza della situazione critica in cui versava la madre, affetta da un tumore ormai in stadio metastatico – consapevolezza che non basta, di per sé, a indicare una piena coscienza del fatto che la signora avesse alte probabilità di non sopravvivere all’intervento). Al di là, comunque, di questa breve nota “di stile”, è fuor di dubbio che da un’informativa superficiale non possa desumersi in alcun modo un intento omicidiario. Ancora, e per concludere, la Corte valorizza la condotta infra operatoria dei medici, che avevano posto in essere manovre “di salvataggio” (incomprensibilmente, la prima Corte d’Appello aveva escluso che tali interventi avessero rilevanza nella valutazione dell’elemento psicologico); infine, i giudici osservavano come, in un ipotetico giudizio di bilanciamento tra i vantaggi economici attesi dagli interventi e l’evento della morte dei pazienti, non poteva non avere un peso il danno reputazionale, professionale ed economico che inevitabilmente si sarebbe trovato a subire un medico che aveva provocato i decessi dei propri pazienti.

 

5. Prima di concludere, una breve nota su un’altra “novità” della sentenza di rinvio: la Corte d’Assise d’Appello di Milano ha escluso l’aggravante teleologica dell’aver agito allo scopo di commettere il reato di truffa (ormai accertato, e consistente nel rappresentare falsamente gli interventi posti in essere, al fine di conseguire un più ingente rimborso pubblico), ritenuta invece sussistente dalla “prima” Corte d’Appello. L’aggravante teleologica era stata in particolare riconosciuta sul presupposto che gli imputati avrebbero posto in essere interventi ingiustificabili e inopportuni allo scopo di frodare la Regione Lombardia. Tale scelta è stata ritenuta erronea dalla sentenza annotata tanto sotto il profilo logico (perché “delle due l’una”: o l’intervento, mai realizzato, è falsamente esposto all’ente pubblico, il quale, tratto in inganno, dispone il rimborso, o l’intervento è stato davvero realizzato, a danno del paziente, non del sistema sanitario), quanto sotto il profilo giuridico (l’artificio consisterebbe qui nell’inutilità o nella inappropriatezza dell’intervento, cosa che non è contemplata dalla legge).

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6. Tornando al profilo centrale, osserviamo conclusivamente come la sentenza annotata si pone nel solco tracciato dalla Corte di legittimità, con la sentenza sul caso ThysseKrupp, riaffermando una nozione di dolo eventuale inteso non come mera accettazione di un evento in termini sfumati e astratti, ma come vera presa d’atto della chiara probabilità della sua verificazione; non è ammissibile una diversa caratterizzazione di uno stato psicologico che costituisce una delle forme della volontà, sebbene la più attenuata.