ISSN 2039-1676


06 dicembre 2011 |

In tema di tentata estorsione mediante minaccia (a proposito del giudizio di idoneità  degli atti e dei requisiti per la configurabilità  della desistenza volontaria)

Cass. pen., Sez. VI, 11.10.2011 (dep. 9.11.2011), n. 40673, Pres. Garribba, Rel. Calvanese

Con la sentenza allegata, la Corte di cassazione ha annullato l'ordinanza con la quale il Tribunale di Palermo aveva accolto l'appello di R., indagato per tentata estorsione, avverso l'ordinanza con cui il G.i.p. presso il medesimo Tribunale aveva rigettato la richiesta di revoca della misura cautelare degli arresti domiciliari. A venire in rilievo è il problema dei limiti entro i quali è configurabile la tentata estorsione mediante minaccia, nel caso in cui tra la minaccia e l'intervento della pubblica autorità sia intercorso un sensibile lasso di tempo (16 mesi) senza alcuna iniziativa criminosa da parte dell'imputato.

I fatti: l'indagato e un altro soggetto con lui concorrente si presentano in due occasioni presso un supermercato, palesandosi come "amici dell'Acquasanta" (chiaro riferimento ad organizzazione mafiosa) e domandando incontri con i titolari di detto esercizio; successivamente inviano a questi il messaggio che qualora avessero rifiutato tali incontri avrebbero "commesso un errore". A tali fatti non segue tuttavia alcuna altra iniziativa intimidatoria, sino alla denuncia da parte dei titolari del supermercato e all'avvenuta applicazione di misura cautelare, avvenuta ben sedici mesi dopo l'ultimo contatto tra estorsori e vittima. Il Tribunale, accogliendo l'appello, aveva rilevato come in via principale non potesse configurarsi tentativo a causa dell'inidoneità degli atti, e in ogni caso, in via subordinata, anche a voler ritenere configurato un tentativo di estorsione, come dovesse trovare applicazione l'esimente della desistenza volontaria, ritenuta sussistente sulla base della volontaria inazione dell'indagato e del suo concorrente, successiva ai fatti e di molto antecedente la notizia che i due avessero avuto del procedimento penale in corso.

La Corte di cassazione, accogliendo parzialmente il ricorso del P.M., richiama alcuni fondamentali principi in tema di:

a) criteri di valutazione dell'idoneità degli atti nel tentativo mediante minaccia e

b) limiti dell'istituto della desistenza volontaria.

1. Per darsi reato tentato, osserva la sentenza annotata, è necessario che la condotta sia valutata idonea a integrare la corrispondente figura di reato consumato mediante una prognosi postuma ex ante, considerando cioè tutti gli elementi presenti nel contesto di azione del reo valutati nella loro concreta interazione e capacità causale (ex plurimis, leggasi Cass. pen. n. 23706/04). Non possono pertanto ritenersi inidonei gli espliciti riferimenti a collegamenti tra l'estorsore e una potente organizzazione mafiosa né gli inviti a "incontrarsi" accompagnati dall'avvertimento che la condotta contraria sarebbe stata considerata "un errore": la forza intimidatoria di tale lessico e di tali comportamenti appare in concreto idonea a ingenerare il timore presupposto del reato di estorsione (per una particolare valorizzazione "della connotazione storica del fatto, delle sue effettive implicazioni sia per quanto attiene alla posizione dell'autore del comportamento censurato sia del suo interlocutore, dei significati del messaggio reso, alla luce delle consuetudini locali" cfr. Cass. pen. 34242/09, sempre in un caso di tentata estorsione mafiosa). Estranea a questa valutazione è la circostanza che a tali atti non siano seguite ulteriori condotte intimidatrici o violente.

2. L'istituto della desistenza volontaria può operare solo all'interno di determinati limiti e coordinate. Innanzitutto il dies a quo: la desistenza, per assumere giuridico rilievo, presuppone che l'azione sia penalmente rilevante e che sia pervenuta perlomeno alla fase del tentativo punibile, diversamente risultando una disposizione inutile perché volta a privare di punibilità una condotta già di per sé non penalmente rilevante (così Cass. pen. n. 24711/06 e Cass. pen. n. 8031/92, citate in sentenza, nonché Cass. pen. n. 42688/08). Inoltre, perché essa operi deve ancora essere possibile il reato consumato: la Cassazione afferma infatti che la desistenza volontaria presuppone - al pari del recesso attivo - la costanza della possibilità di consumazione del delitto, e che pertanto, qualora tale possibilità non vi sia più, ricorre, sussistendone i requisiti, l'ipotesi del delitto tentato (Cass. pen. n. 9015/09, citata in sentenza, nonché - "anche soltanto per una non realizzabilità erroneamente ritenuta dal soggetto agente" - Cass. pen. n. 22519/11, Cass. pen. n. 21821/11 e Cass. pen. n. 44046/10). Più articolata è l'individuazione del dies ad quem. La Corte richiama qui le principali prospettazioni teoriche in materia, valorizzando la distinzione tra "tentativo incompiuto" e "tentativo compiuto" (la desistenza restando possibile solo nel primo caso), nonché i concetti di "continuità temporale" e "dominio diretto". Tali ultimi concetti, in particolare, consentono di "individuare il momento ultimo in cui la desistenza è ancora configurabile, a prescindere dalla eventuale pluralità di atti che possono essere posti in essere": "la differenza tra desistenza volontaria e recesso attivo andrebbe quindi colta nel fatto che la prima è un abbandono dell'azione, quando ancora l'agente ne domina in modo diretto e immediato il divenire, mentre il secondo è caratterizzato da un intervento postumo, quando tale dominio è ormai cessato". È quindi la perdita di continuità temporale che determina la perdita di dominio diretto sull'azione rendendola "idonea a produrre i propri effetti quali determinatisi a quel momento" (leggansi anche Cass. pen. n. 39293/08 e Cass. pen. n. 32830/09). Pertanto può dirsi che ciò che rileva per configurare la desistenza volontaria nei casi in cui già la parte di condotta compiuta presenterebbe i requisiti per la configurabilità degli elementi costitutivi del delitto tentato è che - in termini di sostanziale continuità temporale - l'autore inverta con modalità inequivoche la situazione, di cui ha ancora la piena disponibilità, il pieno dominio, sicché quella situazione già concretizzatasi e penalmente rilevante non sia, per sé, inevitabilmente suscettibile di muovere autonomamente verso la piena consumazione del delitto (per un'opinione contraria v. invece Cass. pen. n. 32742/10).

Da ultimo la Corte rileva come in ogni caso le condotte dell'indagato ben potessero integrare gli estremi della violenza privata, avendo travalicato i limiti della minaccia e "dato luogo ad una concreta e specifica coercizione comportamentale della vittima, vulnerandone l'autodeterminazione".