ISSN 2039-1676


19 aprile 2012 |

Un recente arresto della Cassazione in tema di molestia o disturbo alle persone: alcuni spunti di riflessione

Nota a Cass. I, 23 novembre 2011 (dep. 21 dicembre 2011), n. 47667 Pres. Giordano - Rel. Capozzi

1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, la Cassazione torna ad affrontare il problema della configurabilità della contravvenzione di molestia o disturbo alle persone (art. 660 c.p.).

Il caso concreto oggetto di giudizio riguarda l'immissione di un numero di telefono cellulare, effettuata da una donna all'insaputa del titolare dell'utenza, in un sito internet dedicato allo scambio di comunicazioni di carattere sessuale, con conseguente ricezione da parte della vittima di numerose telefonate di natura molesta provenienti da terzi sconosciuti.

Secondo il Tribunale, che condanna l'imputata alla pena di Euro 100 di ammenda per la violazione dell'art. 660 c.p., la condotta descritta integra la contravvenzione anzidetta anche se il disturbo alla p.o. è stato causato non direttamente dall'imputata ma dalle telefonate a contenuto molesto effettuate da terzi.

La donna proponeva ricorso in Cassazione lamentando l'erronea applicazione dell'art. 660 c.p. dal momento che le telefonate moleste alla vittima erano state effettuate non dalla stessa ricorrente, bensì da terze persone in modo del tutto svincolato dalla sua volontà.

La Suprema Corte, ritenendo il ricorso infondato, conferma la condanna per la contravvenzione di cui all'art. 660 c.p.

 

2. La vicenda giudiziaria in commento offre lo spunto per una breve digressione sull'analisi del reato di molestia o disturbo alle persone.

Come noto, l'art. 660 c.p. ha rivestito, negli anni immediatamente precedenti l'introduzione da parte del legislatore del nuovo delitto di atti persecutori di cui all'art. 612 bis c.p.[1], una grande importanza per quanto riguarda la repressione di condotte riconducibili al fenomeno dello stalking, per lo meno allorché si trattasse di condotte prive di componenti minacciose o violente[2], soprattutto da quando era prevalso - in termini espliciti in dottrina, almeno implicitamente in giurisprudenza - l'orientamento secondo cui il bene giuridico tutelato dall'art. 660 c.p. non vada individuato nell'ordine pubblico (e specificatamente nella pubblica tranquillità)[3], bensì nella tranquillità personale, intesa come "interesse alla privatezza, alla intangibilità e al rispetto della sfera della vita privata"[4].

Le numerose applicazioni giurisprudenziali della contravvenzione in parola erano (e sono tuttora) dovute anche alla struttura della fattispecie di cui all'art. 660 c.p. quale reato d'evento a forma libera, in cui la formula che descrive gli eventi - "molestia o disturbo" - deve essere interpretata, secondo l'elaborazione giurisprudenziale e dottrinale più recente, come "una interferenza, momentanea o durevole, nella sfera di tranquillità del soggetto passivo che provoca disagio, fastidio o insofferenza per il proprio equilibrio fisico o psichico"[5].

Per quanto riguarda il riferimento alla petulanza e al biasimevole motivo, parte della dottrina e della giurisprudenza ritiene che costituiscano il parametro di rilevanza penale della molestia e del disturbo[6], e non già il punto di riferimento di un dolo specifico. Non occorre, pertanto, configurare la contravvenzione in parola in termini di dolo specifico, essendo necessaria, per la sussistenza dell'elemento soggettivo, esclusivamente la cosciente volontà di porre in essere una condotta petulante, di arrogante invadenza ed intromissione nella sfera privata altrui, senza che assumano rilevanza i motivi perseguiti.

Un ultimo elemento su cui è opportuno porre l'attenzione, anche ai fini della presente vicenda giudiziaria, riguarda la scelta del legislatore di prevedere, alternativamente nella contravvenzione de qua, un requisito di luogo[7] e uno strumentale - il mezzo del telefono[8]-.

Detti requisiti, secondo autorevole dottrina[9], sarebbero qualificabili come condizioni obiettive di punibilità, ponendosi al di fuori del piano dell'offesa. Svolgerebbero, quindi, una funzione di selezione, tra tutte le condotte biasimevoli o petulanti che offendono il bene giuridico della tranquillità personale, di quelle che il legislatore considera opportuno punire[10].

 

3. Tutto ciò premesso si può rilevare che, nella sentenza in commento, la Cassazione qualifica come tipica ai sensi dell'art. 660 c.p. una condotta che, seppur fornisce un apporto causale alla realizzazione della molestia o del disturbo, non appare, in realtà, integrare la contravvenzione ivi incriminata.

La ricorrente, infatti, non ha utilizzato il mezzo del telefono per recare molestia alla parte offesa, così come richiede la lettera dell'art. 660 c.p., ma ha posto in essere un comportamento causalmente collegato all'evento di molestia, giacché in mancanza di tale suo comportamento i terzi non avrebbero potuto conoscere l'utenza cellulare della vittima.

La condotta dell'imputata potrebbe, pertanto, rilevare tutt'al più solo all'interno dello schema del concorso di persone nel reato ai sensi dell'art. 110 c.p.

Anche la Cassazione sembra intuirlo laddove, nella sua motivazione, afferma la ravvisabilità "a carico della ricorrente di un volontario concorso nelle molestie arrecate alla p.o.". A tal proposito, tuttavia, essa definisce ambiguamente l'imputata quale "autrice mediata di dette molestie telefoniche", sollevando in tal modo non poche perplessità nel lettore più accorto.

Come noto, infatti, per "autore mediato" si intende colui che strumentalizza un altro essere umano non colpevole o non punibile come esecutore materiale di un reato.

Il concetto di "autore mediato" nasce nel sistema penale tedesco, in quanto tale ordinamento - ancorato, in tema di concorso di persone, alla teoria della accessorietà estrema[11] - necessitava di un siffatto concetto per giustificare la punibilità di comportamenti che, seppur ritenuti meritevoli di punizione, non avrebbero potuto essere sanzionati attraverso le norme del concorso di persone[12].

La dottrina italiana dominante esprime, tuttavia, un atteggiamento di netto rifiuto nei confronti del riconoscimento della figura dell'autore mediato, stante l'adesione del nostro ordinamento alla teoria della accessorietà minima[13] e la previsione legislativa esplicita di alcune importanti ipotesi di reità mediata (cfr. gli artt. 111, 112 comma I n. 4, IV comma e 119 comma I)[14].

Meglio, quindi, la Corte avrebbe fatto a non invocare il concetto di "autore mediato", che, per le ragioni anzidette, risulta richiamato fuori luogo, e motivare, invece, la condanna dell'imputata facendo leva sulla teoria dell'accessorietà minima nel concorso di persone nel reato.

Partendo da tale teoria, il compito dei giudici sarebbe stato quello di verificare la sussistenza, nel caso di specie, dei requisiti che fondano la possibilità di ravvisare un concorso di persone nel reato ai sensi dell'art. 110 c.p., ovverosia: a) la pluralità di persone; b) la realizzazione di un fatto tipico di reato, almeno nella forma del tentativo; c) la presenza del contributo causale della condotta atipica alla realizzazione del fatto; d) infine, la consapevolezza e volontà di contribuire causalmente alla realizzazione del fatto tipico[15].

 

4. Ebbene, dal momento che la vittima ha ricevuto, così come emerge dalla sentenza, numerose telefonate moleste effettuate da terzi, risulta sussistere, senza dubbio alcuno, il requisito sub a) della pluralità di persone, anche se non risulta il numero preciso degli autori del fatto tipico.

Parrebbe, altresì, sussistere, nel caso di specie, il requisito sub b) della realizzazione del fatto tipico incriminato dalla contravvenzione di molestia o disturbo alle persone di cui all'art. 660 c.p., per quanto la Cassazione non si sia affatto soffermata sul punto, limitandosi a fare cenno ad una pluralità di telefonate moleste, senza alcuna ulteriore specificazione.

Supponendo, quindi, almeno ai limitati fini della presente nota, come realizzato il fatto tipico di cui all'art. 660 c.p., è possibile sostenere che la condotta posta in essere dall'imputata - immissione del numero di telefono della vittima in un sito internet di annunci a carattere sessuale - si configura come condicio sine qua non per l'esecuzione del fatto concreto penalmente rilevante. Dalla motivazione emerge, infatti, che i terzi hanno appreso l'utenza cellulare della vittima proprio dal sito internet in questione, sicché, in assenza della condotta atipica dell'imputata, i terzi non avrebbero potuto effettuare le telefonate moleste alla vittima. Possiamo, quindi, ritenere sussistente, nel caso di specie, anche il requisito sub c), quello del contributo causale alla realizzazione del fatto tipico.

Alla luce di quanto sopra, i giudici avrebbero a questo punto dovuto interrogarsi diffusamente sulla sussistenza, in capo all'imputata, del requisito sub d), relativo all'elemento soggettivo necessario per rispondere a titolo di concorso nel reato di cui all'art. 660. Più precisamente, secondo l'interpretazione dottrinale e giurisprudenziale ormai consolidata[16], si sarebbe dovuto provare la sussistenza in capo alla donna non solo della coscienza e volontà del fatto di molestie, ma anche della volontà di concorrere con altri soggetti, anche indeterminati, alla realizzazione del fatto tipico di reato (trattasi del c.d. dolo di partecipazione)[17].

Come noto, il dolo di partecipazione deve sussistere in capo al solo concorrente atipico, mentre gli autori del fatto tipico possono ignorare l'altrui contributo materiale alla realizzazione del fatto: nel caso concreto, quindi, gli autori delle telefonate ben avrebbero potuto supporre che il numero di telefono fosse stato immesso consapevolmente dallo stesso titolare dell'utenza.

Orbene, nel caso in esame i giudici per ritenere colpevole l'imputata a titolo di concorso, avrebbero dovuto soffermarsi adeguatamente sulla sussistenza in capo alla stessa della consapevolezza e della volontà di contribuire causalmente, attraverso l'immissione del numero di telefono, alla realizzazione del fatto di molestie da parte di terzi. Tanto più che, come rileva attenta dottrina, "concorrere" nel reato non significa provocare, per pura combinazione, un fatto tipico altrui, ma significa "operare idoneamente a suscitare la condotta esecutiva che di fatto si verifica"[18].

Peraltro, alla luce delle circostanze del caso concreto - natura del sito internet in cui è stato immesso il numero di telefono e mancanza del consenso da parte della vittima - sarebbe stato presumibilmente non disagevole dimostrare la sussistenza del dolo di partecipazione in capo all'imputata: è infatti ragionevole ritenere che un soggetto che immette consapevolmente un numero di telefono altrui su un sito internet destinato allo scambio di comunicazioni di carattere sessuale ben abbia la consapevolezza e la volontà di contribuire alla realizzazione di telefonate moleste da parte dei soggetti che "frequentano" tali siti.

La Cassazione, tuttavia, sul punto non ha speso nemmeno una parola, ed anziché percorrere la strada, relativamente agevole, della configurazione - sulla scorta della teoria dell'accessorietà minima - di una responsabilità a titolo di concorso nel reato a carico dell'imputata, ha imboccato la fuorviante strada del richiamo della figura dell'"autore mediato".

 

 

 

 


[1] L'art. 612 bis c.p. è stato introdotto dal Decreto legge n. 11/2009 convertito in Legge n. 38/2009. Si riporta, per comodità del lettore, il primo comma di tale articolo: "Salvo che il fatto costituisca più grave reato, è punito con la reclusione da sei mesi a quattro anni chiunque, con condotte reiterate, minaccia o molesta taluno in modo da cagionare un perdurante e grave stato di ansia e paura ovvero da ingenerare un fondato timore per l'incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva ovvero da costringere lo stesso ad alterare le proprie abitudini di vita".

[2] La giurisprudenza riteneva che i comportamenti caratterizzati da violenza o minaccia fossero sussumibili entro i più gravi delitti di violenza privata di cui all'art. 610 c.p. o di minaccia di cui all'art. 612 c.p.

[3] La dottrina tradizionale, sulla base della collocazione sistematica della norma e sul rilievo della perseguibilità d'ufficio del reato, riteneva, influenzata anche dal clima culturale nel quale fu concepito il codice Rocco, che la quiete dei singoli ricevesse una tutela solo mediata dall'art. 660 c.p. Cfr. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, X,  Delle contravvenzioni in ispecie, Torino, 1986, p. 188; Rosso, Ordine pubblico (contravvenzioni), in Novissimo Digesto, 1965, XII, p. 143; in senso analogo, in giurisprudenza, v. Cass. Pen. sez. II, 23 febbraio 1940, Braile, in Giustizia Penale 1940, II, p. 900.

[4] Basile, Commento all'art. 660, in Dolcini E. - Marinucci G. (a cura di), Codice penale commentato, vol. II, III ed., Milano, 2011, pag. 6693 (ove v. ulteriori riferimenti di dottrina e giurisprudenza).

[5] Si veda tra i tanti Flick, Molestia o disturbo alle persone, in Enciclopedia del diritto, XXVI, Varese, 1976, p. 702. Secondo un più risalente orientamento, invece, la molestia e il disturbo erano previsti in modo alternativo facendo riferimento, per la definizione del disturbo, alla nozione di cui all'art. 659 c.p. (Manzini, Trattato, cit., p. 193) 

[6] Flick, Molestia, cit., p. 720; Contento, Molestie o disturbo alle persone, in Enciclopedia Giuridica, Roma, 1990, XX, p. 2; sul fronte della giurisprudenza si veda: Cass. Pen., 9 marzo 2009 n. 10409, Alacqua.

[7] Il legislatore utilizza la formula "in luogo pubblico o aperto al pubblico" senza riferirsi, secondo un orientamento  ormai consolidato non solo in dottrina ma anche in giurisprudenza, alla necessità che siano effettivamente presenti, al momento del fatto, un pluralità di persone, bensì solo per indicare una nozione di pubblicità presunta. Si veda, tra i tanti, Flick, Molestia, cit., p. 700; Manzini, Trattato, cit., p. 197 e Cass. pen., 9 marzo 2009, Alacqua.

[8] Tale espressione è stata, infatti, oggetto di una serie di pronunce giurisprudenziali tese ad espanderne la portata al fine di tutelare la tranquillità personale dei soggetti da più moderne forme di aggressione alla stessa. Come ben sappiamo, infatti, il telefono oggi non è più solo utilizzato, come avveniva negli anni '30, per effettuare telefonate, bensì anche per inviare messaggi di testo (sms) o fotografie attraverso i sistemi di mms: tutte ipotesi in cui, attraverso l'uso del telefono, si può invadere la sfera personale altrui. 

Manifestatasi, così, l'esigenza di espandere la tutela della tranquillità personale, la giurisprudenza ha, in modo corretto e nel pieno rispetto del principio di legalità, interpretato estensivamente la vetusta lettera della norma degli anni '30 fino a ricomprendervi gli sms (Cass. Pen., sez. I, 16 marzo 2011, n. 10983) e gli mms (Cass. Pen., sez. I, 21 settembre 2007 n. 36225). I giudici hanno motivato tali decisioni sottolineando che, nelle ipotesi di invio di sms/mms, viene, in primo luogo, pur sempre utilizzato il mezzo del telefono (Cass. pen., Sez. I, 11 maggio 2006, n. 16215) anche se con modalità sconosciute al legislatore storico, e, secondariamente, si concretizza, il turbamento della quiete psichica del destinatario, essendo la vittima costretta a leggere i contenuti dei messaggi.

Pur in presenza di esigenze punitive, il giudice penale non può, tuttavia, violare il principio di legalità sancito dall'art. 25 Cost. ampliando oltre l'area dell'interpretazione estensiva il comando legislativo. Appare, quindi, condivisibile la decisione dei giudici di legittimità di non dilatare la fattispecie di cui all'art. 660 c.p. fino a ricomprendervi le ipotesi di molestie perpetrate mediante la posta elettronica nel caso in cui le e-mail vengano inviate tramite personal computer (Cass. pen., Sez. I, 27 settembre 2011 n. 985).

[9] Manzini, Trattato, cit., p. 196.

[10] Basile, Commento all'art. 660, cit. p. 6699.

[11] Al fine di spiegare, ai sensi del concorso di persone nel reato, il fondamento giuridico della punibilità di condotte non descritte da una fattispecie incriminatrice, la dottrina penalistica ha escogitato diverse teorie, prima tra tutte quella della accessorietà.

Secondo tale teoria il comportamento atipico può essere punito solo se accede ad un fatto principale tipico.

Tra le diverse accezioni di tale teoria vi è quella dell'accessorietà estrema, secondo la quale la punibilità della condotta di partecipazione dipende dalla realizzazione di una condotta principale che sia, altresì, a sua volta punibile in concreto. Ciò significa, nell'ottica della concezione quadripartitica del reato, che il comportamento atipico deve accedere ad un fatto tipico, antigiuridico, colpevole e punibile. Il sistema tedesco, aderendo a tale impostazione, quindi, non prevede la punibilità di chi coopera a un fatto tipico, antigiuridico ma incolpevole.

[12] Cfr. Padovani, Le ipotesi speciali di concorso nel reato, Milano, Giuffrè 1973, p. 55. La concezione dell'accessorietà estrema considera quali partecipi solo coloro che, con la loro condotta atipica, accedono ad un'azione principale completa di tutti gli elementi. Nelle ipotesi, pertanto, in cui un soggetto, per esempio, istiga a commettere un reato un altro soggetto, privo di colpevolezza per errore incolpevole sul fatto o perché ubbidisce ad un ordine vincolante illegittimo, non vi sarebbe, nell'ordinamento tedesco, la possibilità di incriminazione per l'istigatore. Per far fronte a questo vuoto di tutela, la dottrina tedesca ha, dunque, accolto la nozione estensiva di autore ricomprendendovi tutti coloro che contribuiscono a realizzare l'offesa di un interesse tutelato dall'ordinamento. In tal modo, si supera l'ostacolo costituito dalla impossibilità di considerare l'istigatore quale partecipe di un reato, qualificandolo direttamente come autore monosoggettivo e mediato della condotta, integrante gli estremi di un reato, materialmente realizzata dal soggetto non colpevole. 

[13] Marinucci - Dolcini, Manuale di diritto penale, parte generale, Milano, Giuffrè, III edizione, 2009, p. 396. Secondo tale versione della teoria dell'accessorietà, oggi dominante, la punibilità della condotta di partecipazione dipende dalla realizzazione di una condotta tipica, senza che rilevi ai fini della configurabilità del concorso di persone né l'antigiuridicità di tale condotta, né la colpevolezza del suo autore né, infine, la sua punibilità. 

[14] Seminara, Tecniche normative e concorso di persone nel reato, Milano, Giuffrè, 1987, p. 355; Padovani, Le ipotesi speciali di concorso, cit., p. 59. Il nostro ordinamento, infatti, aderendo alla teoria della accessorietà minima già prevede la possibilità di sanzionare penalmente i soggetti che concorrono in un reato commesso da persona non colpevole. Il legislatore ha, d'altronde, previsto specifiche circostanze aggravanti per chi determini al compimento del reato un soggetto non imputabile (art. 111 c.p.) e per colui che ha sfruttato la sua posizione di preminenza (si veda art. 112 comma I n. 4 e IV comma c.p.), così confermando la possibilità di concorrere nel fatto tipico, ma non colpevole, altrui.

[15] Marinucci - Dolcini, Manuale, cit., p. 394; Fiandaca - Musco, Diritto penale, parte generale, VI edizione, 2011, Bologna, Zanichelli Editore, p. 501. Secondo la dottrina che aderisce al modello dell'accessorietà minima, la sussistenza del concorso di persone nel reato ai sensi dell'art. 110 c.p. si fonda su quattro elementi costituitivi: la pluralità di persone, la realizzazione di un fatto di reato (consumato o tentato), il contributo causale della condotta atipica alla realizzazione del fatto e, infine, la consapevolezza e volontà, da parte del concorrente, di contribuire causalmente alla realizzazione del fatto tipico commesso dal soggetto agente.

 

[16] Tra i tanti si veda: Latagliata, Concorso di persone ne reato (dir. pen), in Enciclopedia del Diritto, Milano, 1961, Giuffrè, p. 583; Marinucci - Dolcini, Manuale, cit., p. 402; Fiandaca - Musco, Diritto penale, cit., p. 513.

[17] Marinucci - Dolcini, Manuale, cit., p. 402.

[18] Latagliata, I principi del concorso di persone nel reato, Pompei, 1964, Morano Editore, p. 160. Secondo tale impostazione, il requisito del dolo di partecipazione serve, altresì, a delimitare l'ambito causale della partecipazione. Non si può, infatti, ritenere sufficiente una mera impostazione causale dell'istituto della partecipazione criminosa dal momento che "è il significato impresso all'azione dal contenuto della volontà di chi agisce a determinare in concreto la distinzione tra due comportamenti esteriormente identici e a segnarne l'appartenenza all'ambito del concorso di persone o a quello di specifiche fattispecie autonome di reato". Si pensi, per esempio, al caso di un soggetto che promette, anteriormente, alla consumazione di un delitto di furto di ricevere e nascondere la refurtiva. Orbene tale comportamento potrebbe integrare la fattispecie di cui all'art. 648 c.p. - ricettazione - o un'ipotesi di concorso nel reato di furto. Solo attraverso la valorizzazione dell'elemento della volontà - consistente nel rafforzare l'altrui proposito delittuoso - sarà possibile ravvisare, nella condotta descritta nell'esempio, un'ipotesi di concorso nel reato previsto all'art. 624 c.p.