ISSN 2039-1676


25 maggio 2012 |

Una (problematica) sentenza della Cassazione in tema di raccolta abusiva di scommesse e di rapporti tra diritto interno e diritto dell'Unione europea

Nota a Cass. pen., Sez. III, 16 maggio 2012 (ud. 8 febbraio 2012), n. 18767, Pres. De Maio, est. Franco, imp. Ferraro

 

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Il presente contributo è frutto della riflessione comune dei due autori. Tuttavia, i paragrafi 1-4 sono stati materialmente redatti da Carlo Parodi e i paragrafi 5-7 da Francesco Viganò.

 

1. Con la sentenza in commento, la Corte di cassazione si è pronunciata - a distanza di pochi mesi da un'importante sentenza (CGUE, 16 febbraio 2012, Costa e Cifone, cause riunite C-72/10 e C-77/10, con nota di C. Parodi, La Corte di giustizia UE dichiara, una volta ancora, incompatibile con il diritto europeo la vigente disciplina italiana in materia di scommesse, in questa Rivista) con la quale la Corte di giustizia europea si era espressa in via pregiudiziale su una questione parzialmente coincidente con quella decisa dalla Cassazione - sulla compatibilità tra la fattispecie penale prevista dall'art. 4 co. 4 bis l. 401/1989 per l'esercizio abusivo dell'attività di raccolta di scommesse in via telematica e gli artt. 43 e 49 CE (oggi 49 e 56 TFUE) che tutelano la libertà di stabilimento e di prestazione di servizi.

La Cassazione si è espressa altresì, in via preliminare, sui rapporti tra diritto interno e diritto dell'Unione europea, enunciando un principio che merita peraltro un'accurata analisi in ragione delle sua potenziale rilevanza sulla futura giurisprudenza della Corte, anche in ambiti assai diversi da quello qui in discussione (cfr. infra, §§ 5-7).

 

2. La normativa italiana in materia di attività di raccolta di scommesse - che, lo ricordiamo, subordina lo svolgimento di tale attività all'ottenimento di una concessione amministrativa e di una conseguente autorizzazione di polizia, e che sanziona lo svolgimento abusivo di tale attività attraverso l'art. 4 l. 401/89 - è stata più volta oggetto d'interventi da parte della Corte di giustizia.

Nella sentenza Gambelli (CGCE, 6 novembre 2003, Gambelli et al., C-243/01), la Corte del Lussemburgo aveva ritenuto che il divieto per le società di capitali di partecipare ai bandi per l'ottenimento delle concessioni amministrative costituisse una restrizione alla libertà di stabilimento, e che le sanzioni penali per l'esercizio non autorizzato dell'attività in via telematica costituissero una restrizione della libertà di prestazione di servizi; la Corte aveva peraltro rinviato al giudice nazionale il compito di valutare se tali restrizioni potessero considerarsi legittime alla luce dei Trattati.

Nella sentenza Placanica (CGCE, Grande Sezione, 6 marzo 2007, Placanica et al., cause riunite C-338/04, C-359/04 e C-360/04) la Corte si era spinta più in là, giudicando essa stessa incompatibile con le libertà di stabilimento e di prestazione di servizi riconosciuti dai Trattati la normativa italiana in materia di scommesse, nella misura in cui comportava l'esclusione dai bandi delle società di capitali e prevedeva sanzioni penali nei confronti di chi, illegittimamente escluso per tale motivo dai bandi, esercitasse l'attività di raccolta di scommesse in via telematica con società aventi sede in Stati europei.

Nella recentissima sentenza Costa e Cifone (CGUE, IV Sez., sent. Costa e Cifone, 16 febbraio 2012, cause riunite C-72/10 e C-77/10), la Corte di giustizia ha giudicato che i bandi per il rilascio delle nuove concessioni emanati nel 2006 sulla base del c.d. decreto "Bersani" fossero sostanzialmente finalizzati a favorire i soggetti che già avevano ottenuto in passato le concessioni sulla base di una normativa che illegittimamente aveva escluso le società di capitali straniere, e che pertanto l'applicazione delle sanzioni penali previste dall'art. 4 l. 401/1989 a soggetti illegittimamente esclusi dai primi bandi fosse in contrasto con gli artt. 49 e 56 TFUE, dal momento che i nuovi bandi avevano di fatto perpetuato la precedente violazione del diritto comunitario.

 

3. Nella questione portata recentemente all'attenzione della Cassazione, il ricorrente, titolare di un centro raccolta scommesse collegato con l'allibratore straniero CBM, era stato destinatario di un decreto di sequestro preventivo del locale utilizzato per lo svolgimento della sua attività in relazione alla fattispecie penale di cui all'art. 4 co. 4 bis l. 401/89. L'indagato proponeva ricorso in Cassazione ritenendo che la norma incriminatrice non dovesse applicarsi giacché in contrasto con le libertà di stabilimento e di prestazione di servizi, come interpretate in particolare nella sentenza Placanica.

La Corte rigetta il ricorso, evidenziando che in sede comunitaria non è stata affermata l'illegittimità tout court della normativa italiana in materia di raccolta di scommesse, ma soltanto l'illegittimità di tale normativa nella misura in cui essa produca l'effetto di limitare due libertà fondamentali previste (oggi) dal Trattato sul funzionamento dell'Unione europea, senza che la restrizione sia giustificata da esigenze d'interesse pubblico ragionevoli, proporzionate, coerenti e non discriminatorie.

In particolare, i giudici di legittimità hanno ritenuto che il caso di specie non fosse identico a quelli esaminati in sede comunitaria nelle sentenze Placanica e Costa e Cifone, perché in quelle occasioni la violazione era stata riscontrata in ragione della reiterata ed illegittima esclusione di alcuni soggetti dalla partecipazione ai bandi per l'ottenimento di concessioni, nonché nella consequenziale incriminazione dell'attività telematica di raccolta scommesse effettuata dai soggetti esclusi. Nel caso ora all'esame, invece, il ricorrente non aveva addotto di essere stato illegittimamente escluso dai bandi, di talché la Corte di Cassazione ha ritenuto che non vi fosse qui alcuna incompatibilità tra la norma incriminatrice applicata e le due libertà fondamentali, come interpretate dalla Corte di Giustizia.

 

4. La decisione della Cassazione appare, sotto questo profilo, condivisibile. Dall'insieme delle pronunce della Corte di giustizia citate si evince, in effetti, che al legislatore nazionale non è precluso porre limiti alle libertà fondamentali in gioco, anche attraverso la previsioni di sanzioni penali, per motivi imperativi di interesse generale, e in particolare per finalità di tutela dell'ordine pubblico, che già le Sezioni Unite della Cassazione nel 2004 avevano individuato nell'esigenza di contrasto delle "possibili degenerazioni criminali del settore, quali frodi, riciclaggio del denaro sporco, usura e simili" (Cass. pen., SS. UU., 26 aprile 2004, Gesualdi, n. 23271). Essenziale è soltanto che tali limitazioni appaiano coerenti e proporzionate con l'obiettivo perseguito, oltreché non discriminatorie. In proposito, la Corte di giustizia ha ritenuto - in particolare nella sentenza Placanica ­- la sproporzione, e assieme la natura discriminatoria, delle sole misure che precludevano, di fatto, la partecipazione ai bandi per l'ottenimento delle concessioni alle società di capitali di straniere; e conseguentemente, aveva tratto la conclusione che la normativa penale che sanziona l'esercizio dell'attività di raccolta di scommesse in assenza di concessione e di autorizzazione di polizia dovesse essere disapplicata nei confronti di quei soli soggetti che si siano trovati nell'impossibilità di partecipare ai bandi in ragione del mancato possesso dei requisiti fissati all'epoca dalla disciplina interna, contraria al diritto comunitario, e che abbiano cionondimeno esercitato l'attività in assenza di concessione e di autorizzazione di polizia.

Da ciò si evince che la normativa penale italiana potrà legittimamente trovare applicazione nei confronti di chi possedesse i requisiti per partecipare ai bandi, e ciononostante - per propria libera scelta - non vi abbia partecipato, esercitando poi l'attività di raccolta di scommesse in assenza dei requisiti di legge: così come parrebbe essere avvenuto nel caso di specie, nel quale - secondo quando afferma la Cassazione - l'imputato non ha neppure allegato di non essere stato in condizione di partecipare ai bandi, né che la società straniera per conto della quale egli operava non abbia avuto la possibilità di farlo. Sul punto, appare soltanto opportuno precisare che decisivo in queste ipotesi non è se l'imputato sia stato in concreto escluso dalle gare, ma se abbia avuto o meno la possibilità di partecipare alle gare ai sensi della normativa vigente all'epoca del loro svolgimento. Se tale possibilità ha avuto, ma in concreto non ha partecipato ai bandi, allora evidentemente non potrà più dolersi del mancato rilascio della concessione e della conseguente autorizzazione di polizia, che costituiscono normalmente condizioni per l'esercizio lecito dell'attività di raccolta di scommesse; in caso contrario, l'imputato dovrà essere assolto previa disapplicazione delle norme penali qui in discussione. 

 

5. A prescindere comunque dalla soluzione del caso concreto, merita qui segnalare un lungo inciso della motivazione sui rapporti tra diritto comunitario (oggi diritto dell'Unione) e diritto interno. Un inciso che è in effetti un obiter nell'economia della decisione, ma che potrebbe ingenerare gravi fraintendimenti se dovesse avere  seguito nella giurisprudenza futura.

A tale inciso - la cui rilevanza trascende di gran lunga la questione in materia di raccolta di scommesse in concreto affrontata dalla Corte - conviene pertanto dedicare qualche riflessione.

Al paragrafo 5 della sentenza qui in commento la Corte afferma che "la non applicazione di una norma nazionale da parte del giudice è possibile soltanto allorché si sia in presenza di un diretto contrasto tra una puntuale norma interna con un altrettanto puntuale precetto comunitario, che dovrebbe essere applicato al posto della norma interna incompatibile con esso. Situazione questa che può verificarsi, ad esempio, quando un principio generale posto dal Trattato CE sia stato specificato e concretizzato da una decisione della Corte di giustizia, assumendo così la norma comunitaria carattere immediatamente precettivo, e dandosi pertanto luogo non ad un rapporto di conformità-non conformità ma di applicabilità-non applicabilità, in quanto l'applicazione di una norma esclude l'applicabilità dell'altra".

Nel caso invece di una situazione di non conformità di una norma nazionale con un principio generale del diritto comunitario, continua la Corte, il giudice nazionale avrebbe anzitutto il dovere di tentare un'interpretazione conforme; laddove questa strada si riveli impraticabile, egli sarebbe tenuto a sollevare questione pregiudiziale dinanzi alla Corte di Giustizia, ovvero una questione di legittimità costituzionale della norma interna per violazione dell'art. 117 co. 1 Cost: "non si tratterebbe, infatti, di 'non applicare' la norma italiana per applicare al suo posto la puntuale norma comunitaria incompatibile, bensì in sostanza di, per così dire, 'disapplicare' o 'eliminare' la norma interna per la non conformità con un principio generale dell'ordinamento comunitario, compito questo che però spetta esclusivamente alla Corte costituzionale, la cui sfera di attribuzioni verrebbe in pratica aggirata se si ammettesse una sorta di controllo diffuso di compatibilità comunitaria".

 

6. La distinzione così enunciata dalla Corte, in verità, non è fondata dal punto di vista del diritto dell'Unione europea, né trova alcun appoggio nella nostra giurisprudenza costituzionale.

La sua adozione da parte della giurisprudenza italiana sovvertirebbe infatti l'intero sistema dei rapporti tra diritto interno e diritto dell'Unione, esponendo il nostro paese a una flagrante violazione del diritto dell'Unione, così come interpretato dalla Corte di giustizia nella storica sentenza Simmenthal (9 marzo 1978, C-106/77).

Vale la pena di rammentare qui, testualmente, il principio espresso in Simmenthal: "il giudice nazionale, incaricato di applicare, nell'ambito della propria competenza, le disposizioni di diritto comunitario,  ha l'obbligo di garantire la piena efficacia di tali norme, disapplicando all'occorrenza, di propria iniziativa, qualsiasi disposizione contrastante della legislazione nazionale, anche posteriore, senza doverne chiedere o attendere la previa rimozione in via legislativa o mediante qualsiasi altro procedimento costituzionale" (§ 24 della sentenza).

Come è noto, la nostra Corte costituzionale ha, con la sentenza 170/1984, tratto le necessarie conseguenze da tale principio, stabilendo che una eventuale questione di legittimità costituzionale che facesse leva sul contrasto tra la norma interna impugnata e una norma di diritto comunitario dotata di effetto diretto sarebbe inammissibile, spettando piuttosto al giudice ordinario risolvere il contrasto mediante la disapplicazione della norma interna.

Tali principi valgono, beninteso, soltanto per l'ipotesi in cui la norma comunitaria contrastante con quella interna sia dotata di effetto diretto. In caso contrario, il giudice ordinario in effetti non potrà risolvere direttamente il contrasto, non potendo egli stesso dare applicazione alla norma comunitaria; il contrasto dovrà in questo caso essere rimesso alla Corte costituzionale, la quale - così come è per la prima volta accaduto con la sent. 28/2010 - dovrà a questo punto dichiarare illegittima la norma interna per violazione degli gli artt. 11 e 117 co. 1 Cost.

La distinzione tra norme comunitarie dotate e non dotate di effetto diretto, tuttavia, non dipende affatto - come invece sembra ritenere la Cassazione nella sentenza qui all'esame - dalla natura di norma-precetto (puntuale) o di norma-principio della disposizione comunitaria. E' pacifico, infatti, che l'effetto diretto debba essere riconosciuto - concorrendo tutte le condizioni enunciate per la prima volta dalla Corte nella sentenza Van Gend en Loos del 1963 - anche alle molte norme dei trattati che stabiliscono libertà (di circolazione, di stabilimento, etc.) o principi (come il principio di non discriminazione) in termini assolutamente generali, certamente non riducibili allo schema di una (puntuale) norma-precetto.

Si pensi all'altro storico caso Costa c. Enel, del 1964, in cui per la prima volta fu affermato il principio del primato del diritto comunitario, e in cui la Corte riconobbe l'effetto diretto delle disposizioni del Trattato di Roma in materia di libertà di stabilimento e di non discriminazione tra operatori europei nel mercato interno, precisando che spettava al giudice di merito (al giudice ordinario!) valutare se la normativa interna in concreto limitasse illegittimamente tali principi e dovesse pertanto essere disapplicata nel caso di specie.

Ma si pensi anche, tanto per fare un esempio più recente, alla sentenza Kücükdeveci, pronunciata dalla Grande Sezione il 19 gennaio 2010 (C-555/07), concernente l'incompatibilità di una legge tedesca con il principio di non discriminazione in base all'età, concretamente espresso da una direttiva in tema di parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro. La Corte affronta qui la questione alla luce del diritto primario dell'Unione, e verifica dunque la compatibilità delle disposizioni di legge interne non già con le singole disposizioni della direttiva, ma direttamente con il principio generale di non discriminazione così come riconosciuto dall'art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, alla quale - sottolinea la Corte - è ora attribuito lo stesso valore giuridico dei trattati (§§ 19-22). La Corte sottolinea quindi come la controversia al suo esame ricada all'interno dell'ambito di applicazione del diritto dell'Unione (§§ 23-25), il che evidentemente consente all'art. 21 citato di spiegare effetto diretto nell'ordinamento dello Stato membro, ai sensi dell'art. 51 della Carta.

Acclarata poi l'incompatibilità tra la normativa tedesca e il principio in questione, la Corte prosegue affermando recisamente che "è compito del giudice nazionale, investito di una controversia in cui è messo in discussione il principio di non discriminazione in ragione dell'età, quale espresso concretamente nella direttiva 2000/78, assicurare, nell'ambito delle sue competenze, la tutela giuridica che il diritto dell'Unione attribuisce ai soggetti dell'ordinamento, garantendone la piena efficacia e disapplicando, ove necessario, ogni contraria disposizione di legge nazionale" (§ 51).

Ribadisce quindi la Corte che il giudice interno non può sottrarsi a tale obbligo di disapplicazione adducendo che l'ordinamento interno non gli consente in generale di disapplicare una disposizione di legge nazionale a meno che tale norma non sia stata previamente dichiarata illegittima dalla Corte costituzionale, dal momento che un tale meccanismo di intervento necessario della Corte costituzionale sarebbe esso stesso contrario al principio del primato del diritto dell'Unione sul diritto interno (§ 54), che impone invece che sia lo stesso giudice ordinario investito della controversia a dover disapplicare la disposizione interna contrastante con il diritto comunitario.

Nella medesima sentenza Kücükdeveci, la Corte di giustizia ha infine sottolineato che il giudice ordinario ha, nel caso in cui ritenga che una disposizione di legge interna contrasti con un principio del diritto dell'Unione, la facoltà di sottoporre alla Corte una domanda pregiudiziale di interpretazione, per avere lumi sulla esatta estensione del principio in questione, ribadendo però che il dovere del giudice di disapplicare la disposizione di legge interna contrastante non è in alcun modo condizionato alla preventiva proposizione di una domanda pregiudiziale (§ 55), che non è necessaria qualora il giudice abbia sufficienti elementi per ritenere sussistente il contrasto tra il principio comunitario in questione e la disposizione di legge interna.

 

7. A fronte di questo quadro, perdono ogni pratica consistenza le sottili distinzioni terminologiche operate dalla Corte di cassazione, nella sentenza qui in commento, tra "disapplicazione" della legge interna (che dovrebbe essere preceduta da una dichiarazione di illegittimità costituzionale della medesima) e sua mera "non applicazione", così come tra "conformità-non conformità" e "applicabilità-non applicabilità".

Il punto di vista della Corte di giustizia - che è decisivo per il giudice italiano, stante il principio del primato del diritto dell'Unione europea sul diritto interno - è molto più semplice e lineare: la legge interna contrastante con il diritto dell'Unione dotato di effetto diretto - non importa se con un principio generale o con un puntuale precetto espresso da un singolo atto normativo europeo - non può trovare applicazione nelle controversie pendenti avanti i giudici ordinari, e deve pertanto essere disapplicata da parte di costoro, senza necessità di alcun intervento da parte della Corte costituzionale, e a prescindere altresì dal (possibile, ma non necessario) esperimento di un ricorso pregiudiziale di interpretazione avanti la Corte di giustizia.