ISSN 2039-1676


17 aprile 2013 |

A proposito del volume di C. Sotis, Le regole dell'incoerenza - Pluralismo normativo e crisi postmoderna del diritto penale, Aracne, 2012, pp. 1 - 164.

Recensione

 

1. "Il dovere di ogni giurista è di offrire ricostruzioni e valutazioni che poggino su base razionale": così introduce il suo lavoro Carlo Sotis. Più che una formula di retorica apertura, l'assunto appare da subito una direzione di senso dell'intero scritto, quasi una chiave di lettura. La questione di fondo è, in effetti, vertiginosa e spaesante: come si può conciliare la (presunta) razionalità del diritto con le sofferenze della pena? Sotis "tradisce", con le sue parole introduttive (pp. 11 - 15), un certo grado di profondo vissuto, come se quanto ci si appresta a leggere fosse un lavoro sofferto, ma a lungo ponderato; scritto per avallare quel "dovere" invisibile per ogni penalista, di dare una risposta al più insondabile e atavico dei quesiti.

Il ragionamento che si intende seguire - così l'Autore nell'Introduzione, che butta una luce vivida su di uno scritto di non immediata accessibilità - è particolarmente interessante, e procede "a cascata": posto che nessuna razionalità può esprimere uno strumento di sofferenza, l'intrinseca giustizia del sistema penale è da ricercarsi nelle sue forme, nel formalismo con cui lo si struttura, e nella coerenza che esso dovrebbe esprimere. Nessuna coerenza può però essere raggiunta da un sistema tanto complesso, eppure ad essa occorre necessariamente tendere: "la coerenza è irraggiungibile, perciò deve essere perseguita" (p. 5). Poste le premesse concettuali, lo studio s'avvia spedito.

2. Il lavoro consta di due parti. Nella prima, si intende indagare come la strutturale - fisiologica, ripete più volte l'Autore - incoerenza riesce ad essere aggirata, interstiziata e stipata nelle profonde pieghe del diritto.

Anzitutto, sul piano dei principi, ciò avviene spostando in posizione centrale e primaria quei criteri di giudizio fondati su canoni di razionalità materiale - quale quelli di ragionevolezza, di proporzione, di effettività, etc. - a scapito dei principi di razionalità formale, i quali hanno capacità dimostrativa solo se inscritti nelle forme dell'ordinamento cui si riferiscono. Ecco perchè soltanto tramite i primi è possibile formulare un giudizio - il meno viziato possibile - su di un ordinamento rispetto ad un altro: essi permettono l'utilizzo di una metrica comparativa perchè risultano radicati su di "una piattaforma argomentativa che non può non essere accettata dagli attori del conflitto normativo" (p. 24). Così, i canoni di razionalità materiale, proprio perchè danno origine ad un giudizio di tipo teleologico incentrato sulla "immane concretezza" (recte: materialità) del binomio mezzo/fine, riescono ad aggirare le incoerenze normative. Come a dire, nella inedita dimensione reticolare del diritto, gli stessi principi divengono instabili e terracquei, e prestano il fianco ad un'inattesa eterogenesi dei fini.

Di alcuni concetti invece, Sotis si serve, da un lato per dimostrare come essi offrano "riparazioni" accettabili dei "buchi" - sopratutto, giudiziali - dei c.d. "sistemi a rete", perchè finalisticamente creati per ridurne le incoerenze; dall'altro, per avallare le proprie tesi di fondo: essi stessi sono paradigmi compiuti di incoerenza. E' il caso, ad esempio, della ben nota dottrina dei controlimiti: "la genialità della dottrina dei controlimiti risiede proprio nella sua incoerenza. E' un abito concettuale aberrante se osservato in modo statico, che diviene pienamente razionale ed efficace se valutato in modo dinamico" (p. 42). E discorso simile può farsi, allo stesso modo e con medesima tara, per i concetti di margine nazionale di apprezzamento e di margine nazionale di bilanciamento (pp. 48 - 54).

   Delle competenze (dei vari giudici, e sul differente piano ordinario, costituzionale, europeo) invece, l'Autore si serve per tracciare il quadro dei sistemi a rete, delle incoerenze in essi stipati - che ne segnano anche le debolezze - e delle problematiche di legittimità riposte (diffusamente, pp. 57 - 65). Un quadro che rivela, a metà dell'opera, la volontà di una circumnavigazione ricognitiva non tanto del sistema nel suo complesso - come ci si aspettava, forse banalmente, prendendo le mosse dal titolo -, ma dell'incoerenza che lo governa, dell'incoerenza in sè considerata; che diviene, appare finalmente chiaro, tòpos da gestire, normalizzare, interiorizzare. Così, l'ossimoro (apparente) del titolo si tramuta rapidamente in efficace paradigma di lettura.

3. L'Autore giunge poi, nella seconda parte dello scritto, alla dimostrazione dell'esercizio teorico. Il terreno di confronto è scivoloso, il principio - di marcata ispirazione "europea" - della retroattività in mitius della legge penale, vero e proprio banco di prova dell'indagine (come, del resto, dovrebbe esserlo per ogni giurista che sia consapevole della dimensione comunitaria oramai assunta dalla sistematica penale). Egli parte dal dato: la retroattività in mitius, nonostante sia metafora della complessità e - sopratutto - dell'incoerenza ("l'idea dell'applicazione retroattiva è di per sè un'incoerenza" - p. 19), è oggetto di un dialogo costante tra Corte Costituzionale, Corte Edu e Corte di Giustizia, tanto che è possibile scorgere una serie di denominatori comuni del dibattito, che elevano il principio a vero trait  - d'union tra Carte e Corti; del resto, "solo a queste condizioni può avvenire quel dialogo che permetta agli autori giudiziali coinvolti nel sistema a rete di potere mettere in discussione, sulla base dei nuovi argomenti in circolazione, le decisioni prese" (p. 81).

Forse inutile addentrarsi negli intricati - ma coerenti, questi sì- ragionamenti che permettono all'Autore di poter affermare la natura oramai acclarata di principio della retroattività in mitius (pp. 83 - 86); la sua collocazione autonoma rispetto all'ombrello protettivo del principio di legalità (87 - 91); e la colleganza, in un modo o nell'altro condivisa, tra proporzione e retroattività (pp. 91 - 108). Utile, invece, far comprendere come Sotis consideri il ruolo (meglio, il limite) del giudicato alla stregua di poliedrico canone di intrinseca accettabilità della ricostruzione teorica proposta; colpisce, a dire il vero, come in questo panorama reticolare di international constitutionalism Egli ponga al centro - nella tematica de quo - del dialogo tra Corti la Corte di Giustizia, spesso invece posta ai margini del dibattito. E non si può che convenire. La ratio è lineare: essa non ha ancora assunto una posizione netta sul ruolo del giudicato nella retroattività in mitius, contrariamente alla confusione concettuale originata dalle tecniche ermeneutiche adottate dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Strasburgo (pp. 123 - 124); inoltre, la Carta di Nizza può essere luogo privilegiato di un'attesa epìtesi, finalmente dirimente: "il testo dell'art. 49 della Carta come detto, nel prevedere la retroattività in mitius non presenta nessuna limitazione o accenno al giudicato; dal punto di vista letterale non vi è quindi nulla che sembrerebbe giustificare una distinzione di disciplina tra processi in corso e res judicata" (p. 124). Per inciso: è evidente come l'incastro logico-argomentativo operato da Sotis in quest'ultima parte appaia tutto teso alla normalizzazione (a tutti i costi, potremmo dire) dell'incoerenza normativo - reticolare; perchè, come Egli dice, "coerenza e giustizia non si trovano sempre dalla stessa parte" (p. 19), ed è questa - ad avviso di chi scrive - la cifratura di questa spasmodica tensione verso una reductio ad unum, perlomeno concettuale.

4. Azzardando un allargamento di vedute e riflettendo sulla tecnica d'analisi, l'Autore adotta uno stile quasi kafkiano di ragionamento narrativo. Come noto, il grande romanziere era solito - si ponga mente alla suprema esperienza de "Il processo" - creare realtà parallele, percorsi estranei ed esterni alla realtà stessa; che finiva poi per riflettere nel sistema, rendendoli sistema medesimo. Rendendo l'estraneo, intraneo. Così, il reale non si simula, ma si spiega. Allo stesso modo, Sotis, che non simula - avrebbe potuto farlo, nascondendosi dietro la complessità di un ragionamento squisitamente teorico -, ma spiega, e non fugge certo dall'esistente, tutt'altro: il confronto (conforto) con gli Autori più importanti è costante. Ed anzi, questo volumetto sembra fare il paio, completandosi, con un altro di recentissima pubblicazione ("Il giudice nel labirinto", di Vittorio Manes), che indaga la stessa incoerenza normativa di cui tratta Sotis, sebbene da un'angolatura diversa (nell'opera di Manes essa è presupposto, non oggetto) e sotto un profilo più pragmaticamente in action. Insomma, teoria e prassi del pluralismo normativo di matrice reticolare, verrebbe da dire.

5. In conclusione, a voler interpretare il pensiero di Carlo Sotis, l'impatto del pluralismo normativo sul diritto penale non sarebbe - come invece potrebbe apparire prima facie - la causa prima dell'incoerenza, bensì momento rivelativo (di questa, che si riversa poi nella crisi post - moderna che flagella lo stesso diritto penale); pettine in cui i nodi vi si impigliano inesorabilmente tra i denti sottili e fitti della speculazione teorica e dell'applicazione pratica. Dimostrazione prima, più che causa prima. Ecco perchè "Le regole dell'incoerenza", pur partendo da riflessioni personalissime rispondenti (come visto nell'incipit) al dovere che ogni penalista ha - quello di offrire (anzitutto) a se stessi ed al proprio pensiero spiegazioni razionali della scienza che approfondisce -, non pretende di fornire risposte onnicomprensive, ma spunti inesplorati di riflessione. Che è poi - in definitiva - ciò che più importa, nel continuo penetrare una materia così visceralmente umorale e oggi soggetta ad istanze d'ogni tipo e d'ogni latitudine, e per questo venata da indirimibili problematiche.