ISSN 2039-1676


21 gennaio 2014 |

Una interessante pronuncia su abnormità  e diniego della richiesta di giudizio abbreviato semplice

Nota a Cass., Sez, I, ud. 18.12.13 (dep. 08.1.14), n. 348, Pres. Giordano, Rel. Magi

 

1. Nella sentenza che si presenta, la Corte di cassazione arricchisce significativamente l'elaborazione giurisprudenziale in tema di atto abnorme, facendo peraltro emergere un irrisolto contrasto interpretativo sul termine ultimo per la presentazione della richiesta di giudizio abbreviato (art. 438, comma 2, c.p.p.).

Nel caso di specie, il giudice dell'udienza preliminare - aderendo a un recente orientamento della Cassazione[i] - aveva ritenuto tardive e, quindi, inammissibili le istanze di ammissione al rito speciale, presentate dopo che il pubblico ministero era già stato invitato a formulare le proprie conclusioni.

L'ordinanza veniva quindi impugnata dalla difesa degli imputati, che, principalmente, ne censuravano l'abnormità.

 

2. Subito dopo l'illustrazione della vicenda processuale sottostante, la parte motiva della sentenza esordisce, elencando i tratti salienti dell'atto abnorme.

Come è noto, tale categoria processuale è stata sviluppata per rimediare ai «comportamenti procedimentali dell'organo giudicante da cui derivino atti non altrimenti impugnabili», «espressivi, in concreto di uno "sviamento" della funzione giurisdizionale, non più rispondente al modello previsto dalla legge»[ii].

L'abnormità viene tradizionalmente classificata in due categorie: da un lato, quella «strutturale», cagionata dall'esercizio, da parte del giudice, di «un potere non attribuitogli dall'ordinamento», oppure, previsto, ma esercitato «in una situazione radicalmente diversa da quella configurata dalla legge»; dall'altro, l'«abnormità funzionale», che si verifica in caso «di stasi del processo e di impossibilità di proseguirlo».

Per capire se un atto è "abnorme", prosegue la Cassazione, è necessario svolgere un duplice accertamento.

In primo luogo, bisogna confrontare il provvedimento del giudice con il modello normativo di riferimento e controllare se l'atto è stato emesso «al di fuori dei casi consentiti», o, comunque, «al di là di ogni ragionevole limite»; la conformità alla fattispecie legale può infatti essere anche meramente «apparente».

In secondo luogo, è necessario analizzare le conseguenze dell'atto e verificare se esso «imponga il compimento» di successive e ulteriori attività viziate.

Non comporterebbe tuttavia abnormità «l'errore nel compimento dell'atto», conseguente all'«erronea interpretazione» dei suoi presupposti; in tal caso, infatti, l'atto è comunque espressivo di un potere conferito al giudice dalla legge, seppur «erroneamente applicato».

 

3. Viene poi presa in considerazione l'ordinanza impugnata.

In linea generale, si afferma, ogni istanza di parte deve essere sottoposta a un duplice vaglio, prima di «ammissibilità» e poi di «fondatezza».

Per quanto riguarda, però, l'istanza di ammissione al rito abbreviato cosiddetto «puro», il sindacato sulla fondatezza sarebbe venuto meno, a seguito delle modificazioni apportate dalla legge n. 479 del 1999 (cosiddetta legge "Carotti")[iii]: il giudice ha infatti conservato soltanto il «potere\dovere» di qualificare la richiesta come ammissibile o meno, statuendone l'inammissibilità, qualora non sia stato rispettato il «modello legale di riferimento».  

Tale modello prevede che la richiesta possa essere presentata soltanto da alcuni soggetti (l'imputato o altro soggetto munito di procura speciale), in una «sede» precisa (in genere, l'udienza preliminare) e all'interno di determinati limiti temporali («fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 421 e 422»).

Per questa ragione, nel caso di specie, il giudice dell'udienza preliminare, rigettando le richieste presentate dagli imputati, dopo averne riscontrato l'inammissibilità, avrebbe esercitato un potere - «in astratto» - a lui certamente spettante, in quanto attribuitogli dall'ordinamento[iv].

 

4. È necessario però verificare - prosegue la sentenza - che tale potere non sia stato «in concreto» esercitato, superando il limite della «ragionevolezza», ossia «in modo solo apparente e del tutto al di là dei limiti consentiti».

Secondo la Corte, al giudice non sarebbe imputabile «alcun effettivo travisamento»: egli ha infatti seguito e applicato un orientamento giurisprudenziale accolto da una parte del Supremo Collegio.

Inoltre, si ammette, l'individuazione del termine ultimo entro il quale è possibile presentare istanza di giudizio abbreviato è senz'altro una questione interpretativa complessa, tutt'ora irrisolta e alimentata da un dato normativo «di non facile lettura».

In siffatto contesto, pertanto, l'adesione a un orientamento piuttosto che a un altro non poteva determinare l'abnormità strutturale dell'ordinanza impugnata e il giudice si sarebbe quindi limitato a fare un uso non «eccentrico» di un potere attribuitogli dalla legge.

Viene poi del pari escluso qualsiasi profilo di abnormità funzionale: l'emissione dell'ordinanza non avrebbe dato luogo a successive attività viziate, essendo stato emesso un regolare decreto di rinvio a giudizio, immune da vizi.

 

5. Così negata, in radice, l'abnormità dell'ordinanza, i giudici di legittimità non hanno però rinunciato a esprimere il proprio punto di vista sul significato da attribuire all'art. 438, comma 2, c.p.p.

Benché l'atto impugnato non potesse essere dichiarato abnorme per le ragioni sopra esposte, la Corte ha comunque precisato che la decisione del giudice era frutto di una cattiva interpretazione della legge processuale: l'orientamento, che fissa il termine ultimo per la richiesta di giudizio abbreviato nel momento in cui la parola viene concessa al pubblico ministero, introdurrebbe infatti «un termine preclusivo non del tutto "in linea" con il dettato normativo, volutamente aperto».

Sarebbe allora preferibile affermare - in sintonia con quanto recentemente stabilito dalla Corte costituzionale[v] - che l'istanza del predetto rito speciale possa anche seguire la formulazione delle conclusioni da parte del pubblico ministero; l'espressione utilizzata dal legislatore («la richiesta può essere proposta, oralmente o per iscritto, fino a che non siano formulate le conclusioni a norma degli articoli 412 e 422») sarebbe «idonea a comprendere l'intera fase della discussione», fino al suo esaurimento.

6. Infine, la sentenza, affrontando l'ultimo motivo di ricorso degli imputati, propone un interessante spunto ermeneutico.

Le difese degli imputati lamentavano infatti che il provvedimento del giudice avesse - fra l'altro - violato il principio costituzionale del giudice «naturale precostituito per legge» (art. 25, comma 1, Cost.), attribuendo la competenza per il giudizio all'organo collegiale (la Corte d'Assise), a fronte della volontà degli imputati di essere giudicati da quello monocratico (il giudice dell'udienza preliminare).

Il Supremo collegio ha ritenuto erronea anche questa argomentazione: il nostro sistema normativo non fisserebbe immutabilmente la celebrazione del rito abbreviato di fronte al giudice monocratico, ma, anzi, prevedrebbe che lo stesso possa svolgersi davanti al giudice del dibattimento, se necessario per rimediare a eventuali decisioni errate dell'organo precedentemente adito: a seguito della sentenza n. 169 del 2003 della Corte costituzionale, infatti, l'imputato, prima dell'apertura del dibattimento, può riproporre la richiesta di giudizio abbreviato "condizionato", rigettata in udienza preliminare, e il giudice dibattimentale - qualora ritenga infondato il diniego - può disporre e celebrare il rito speciale[vi].

Secondo la Cassazione, tale disciplina potrebbe essere applicata anche alle ipotesi di giudizio abbreviato "semplice": «lì dove infatti la Corte costituzionale ha attribuito detta competenza funzionale al giudice dibattimentale nel più complesso caso della richiesta "condizionata" [...] corrisponde ad un ragionevole criterio di interpretazione sistematica farne derivare l'estensione alla più semplice ipotesi di rigetto dell'istanza di abbreviato ordinario».

Questa soluzione, conclude la sentenza, «con gli opportuni adattamenti alla dinamica processuale in atto», potrebbe essere utilizzata anche nel caso di specie, permettendo agli imputati di riformulare la richiesta di rito speciale davanti al giudice del dibattimento (nel caso in cui non ne sia stata ancora dichiarata l'apertura), oppure, eventualmente, di ottenere la riduzione di pena prevista dalla legge, al termine della medesima fase.

 

7. Il decisum appena illustrato presenta diversi profili d'interesse.

Innanzitutto, è stato chiaramente precisato che l'erronea interpretazione della legge processuale non può, in linea generale, determinare l'abnormità di un atto. Tuttavia, sembra anche di capire, che tale assunto non sia costantemente valido, in quanto l'errata esegesi non deve comunque superare il limite della "ragionevolezza".

Come si è visto, nel caso sopra illustrato, tale confine non è stato oltrepassato: la Cassazione ha infatti ritenuto in qualche maniera "giustificabile" l'errore esegetico commesso dal giudice, cagionato dall'ambiguità del testo legislativo (l'art. 438, comma 2, c.p.p.) e dal perdurante contrasto fra le varie sezioni del Supremo collegio.

Si provi, però, a immaginare una situazione diversa, in cui la decisione del giudicante riposi su un orientamento giurisprudenziale isolato, risalente, e smentito dalle Sezioni unite, oppure sia frutto del travisamento di una lettera legis piuttosto chiara: forse, in un caso del genere, verrebbe riscontrata un'abnormità.

In sostanza, fra i parametri che consentono di riconoscere un atto abnorme, sembra si possa inserire anche quello della "irragionevole" interpretazione delle disposizioni che ne regolano il compimento; qualora un'esegesi, benché considerata - nel caso specifico - errata, abbia avuto un certo seguito giurisprudenziale, oppure riguardi una disposizione poco chiara, tale canone non potrà però dirsi violato.

8. Condivisibile pare poi la presa di posizione in merito al significato dell'art. 438, comma 2, c.p.p.

In effetti, il dato testuale della precitata disposizione - «fino a che non siano formulate le conclusioni» - sembra ricomprendere l'intera "sotto-fase" della discussione prevista dall'art. 421, comma 2, c.p.p.

Convince, inoltre, il richiamo, effettuato in sentenza, al «principio generale per cui in presenza di un dettato normativo che introduce una preclusione, l'interpretazione [...] non può determinare l'anticipazione della scadenza del termine rispetto all'ordinario significato dei termini utilizzati dal legislatore»: in altre parole, a fronte di un testo di legge ambiguo, è opportuno applicare l'interpretazione più favorevole all'imputato.

 

9. Infine, bisogna soffermarsi brevemente sulla proposta esegetica contenuta nella parte finale della sentenza.

Come si è detto, la Cassazione, «pur senza sollecitare una nuova pronuncia espressa del giudice delle leggi [...] e pur senza attendere un (in verità opportuno) intervento del legislatore», ha ritenuto di poter estendere alla disciplina del giudizio abbreviato "ordinario", gli effetti di una declaratoria d'incostituzionalità che riguardava l'ipotesi della richiesta "condizionata".

Su un piano squisitamente logico, tale operazione pare accettabile: se è stato attribuito al giudice del dibattimento il potere di valutare ammissibilità e fondatezza dell'istanza "condizionata", può sembrare - a maggior ragione - del tutto coerente concedergli la possibilità di vagliare la (sola) ammissibilità della richiesta "semplice".

Non si può però dimenticare che - seppur in riferimento a una questione del tutto diversa[vii] - la Corte costituzionale ha recentemente stigmatizzato operazioni ermeneutiche, volte a conseguire, in via interpretativa, «l'effetto che solo una pronuncia di illegittimità costituzionale può produrre»[viii]: qualora il giudice non riesca a interpretare la legge conformemente a Costituzione, senza stravolgerne completamente la lettera, sarebbe infatti obbligatorio il ricorso all'incidente di costituzionalità.

Vero è che le due fattispecie di giudizio abbreviato non sono poi così disomogenee e che, una volta concesso il più, pare altrettanto concedibile il meno; tuttavia, il dubbio che sia comunque necessaria una pronuncia della Corte costituzionale potrebbe essere fondato: la Cassazione ha infatti suggerito la creazione di un'ipotesi di giudizio abbreviato "semplice", da celebrare davanti al giudice dibattimentale, di cui - finora - non v'è traccia alcuna nella legge processuale.

 

10. In definitiva, al di là delle perplessità sollevate dalla soluzione proposta, si può affermare che la Corte di cassazione abbia accolto una soluzione di compromesso: da un lato, l'ordinanza che aveva dichiarato inammissibile la richiesta di giudizio abbreviato - benché fondata su un orientamento poco persuasivo - è stata salvata dall'abnormità; dall'altro, è stata offerta agli imputati l'opportunità di riappropriarsi del percorso processuale precedentemente scelto, concedendo loro la facoltà di riproporre la richiesta di giudizio abbreviato «puro» al giudice del dibattimento.

 


[i] Si veda Cass., sez. III, 31 marzo 2011, n. 18820, in C.E.D. Cass., n. 250009.

[ii] Sul concetto di abnormità e per ulteriori indicazioni bibliografiche, si vedano A. Bellocchi, L'abnormità, in Trattato di procedura penale, vol. I, Soggetti e atti, t. II, Gli atti, a cura di G. Dean, pp. 470-483 e 499-506; M. Catalano, Il concetto di abnormità fra problemi definitori ed applicazione giurisprudenziale, in Dir. pen. proc., 2000, p. 1240; G. Santalucia, L'abnormità dell'atto processuale penale, Padova, 2003, pp. 113-162.

[iii] Per approfondire l'evoluzione storica del giudizio abbreviato e i suoi lineamenti essenziali, si veda, fra i più recenti, A. Bassi-F. D'arcangelo, Il giudizio abbreviato, in I procedimenti speciali, a cura di A. Bassi-C. Parodi, Milano, 2013, pp. 23-33.

[iv] Per ulteriori chiarimenti, si veda O. Bruno, L'ammissibilità del giudizio abbreviato, Padova, 2007, pp. 191-193 e 250-256, la quale ha specificamente esaminato il tema del diniego della richiesta di giudizio abbreviato "semplice".

[v] Si veda C. cost., 7 aprile 2011, n. 117, in Giur. cost., 2011, p. 1629.

[vi] Si veda C. cost., 23 maggio 2009, n. 169, in Giur. cost., 2003, p. 1336. Dopo questo decisum della Corte costituzionale, sono poi intervenute le Sezioni unite della Corte di Cassazione, stabilendo il seguente principio di diritto: «nel caso di rigetto della richiesta condizionata di rito abbreviato, già respinta dal giudice dell'udienza preliminare e rinnovata dall'imputato prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, ovvero formulata per la prima volta in quella fase nelle ipotesi di giudizio direttissimo e di citazione diretta a giudizio, il giudice del dibattimento, all'esito dello stesso, se accerta l'erroneità del provvedimento reiettivo in punto di necessità ai fini della decisione dell'integrazione probatoria richiesta, applica in caso di condanna la riduzione di pena prevista per il rito abbreviato» (si veda Cass., sez. un., 27 ottobre 2004, n. 44711, in Guida dir., 2004, n. 49, p. 78, con nota di G. Leo, Con l'intervento delle sezioni unite evitati nuovi incidenti di costituzionalità).

[vii] Ci si riferisce a C. cost., 3 maggio 2012, n. 110, in Giur. cost., 2012, p. 1619, in merito alla delicata questione delle presunzioni assolute di adeguatezza della custodia cautelare in carcere, contenute nell'art. 275, comma 3, c.p.p. Per un commento a questa sentenza, si veda M. Ingenito, Presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere: obbligatorio l'incidente di costituzionalità, in Dir. pen. proc., 2012, p. 985.

[viii] Si veda ancora C. cost, 3 maggio 2012, n. 110, cit., p. 1625.