ISSN 2039-1676


18 settembre 2014 |

La Cassazione su tumulti di piazza e responsabilità  penale

Cass. pen., sez. VI, ud. 6 maggio 2014 (dep. 9 settembre 2014), Pres. Ippolito, Rel. Leo, ric. Seppia

 

1. I tumulti verificatisi a Roma il 15 ottobre 2011, durante la manifestazione nota alle cronache come "corteo degli indignati", hanno dato origine a diversi procedimenti penali a carico dei dimostranti coinvolti negli scontri con le forze dell'ordine. Uno di questi procedimenti, riguardante un giovane accusato di aver preso parte all'episodio-simbolo di quella giornata, ossia l'incendio di una camionetta dei carabinieri in piazza San Giovanni, è recentemente approdato dinanzi alla Corte di Cassazione, offrendo così ai giudici di legittimità l'occasione per ritornare su due tematiche centrali nel settore della tutela penale dell'ordine pubblico: vale a dire i confini applicativi, oggettivi e soggettivi, della fattispecie delittuosa di devastazione e saccheggio (art. 419 c.p.); nonché l'individuazione dei presupposti applicativi dell'attenuante dell'avere agito per suggestione di una folla in tumulto (art. 62 n. 3 c.p.). Nel prosieguo si procederà illustrando dapprima i principi generali enucleati dalla Suprema Corte, quindi soffermando brevemente l'attenzione sulla loro applicazione al caso di specie. Nella parte conclusiva verrà formulata qualche breve considerazione relativa alla compatibilità delle pene previste dall'art. 419 c.p., allorché applicate ai casi di tumulti e disordini, con il canone costituzionale di proporzione.

 

2. La Cassazione traccia anzitutto i contorni della fattispecie obiettiva di cui all'art. 419 c.p. muovendo da un'esegesi della norma incriminatrice costituzionalmente orientata ai principi di tassatività ed offensività, tesa a colmare sul piano ermeneutico il difetto di una definizione legislativa della condotta tipica, e più precisamente volta ad evidenziare in che cosa consista quel quid pluris che sposta la qualificazione dell'evento tipico dal mero "danneggiamento" alla vera e propria "devastazione", facendo così decisamente impennare la risposta sanzionatoria. Il valore semantico del termine "devastazione" - evidenzia in primo luogo la sentenza - evoca un «fenomeno di primaria grandezza, di diffusa e grave distruzione». Inoltre - prosegue il collegio richiamando la propria consolidata giurisprudenza - «la funzione di orientamento dell'offensività vale a delimitare la fattispecie con riguardo a quei fatti che, per il contesto e la portata, recano turbamento non a persone o gruppi, ma alle condizioni stesse di sicurezza della vita associata, e dunque in modo indiscriminato e sul scala estesa». In altre parole, un danneggiamento rimane tale quandanche «riguardi cose di rilevanti dimensioni o rilevanti per numero», finché non trascenda il mero «pregiudizio del patrimonio di uno o più soggetti e con esso il danno sociale conseguente alla lesione della proprietà privata», arrecando così offesa all'«ordine pubblico inteso in senso specifico come buon assetto o regolare andamento del vivere civile, cui corrispondono, nella collettività, l'opinione e il senso della tranquillità e della sicurezza».

 

3. Tanto premesso in linea generale, la sentenza passa ad occuparsi delle questioni interpretative più spinose, riguardanti, in particolare, l'identificazione della condotta penalmente rilevante, nonché il relativo elemento soggettivo, in quei contesti - quale, come si vedrà infra, quello di specie - in cui l'evento di devastazione scaturisce dal sommarsi di comportamenti tenuti da una molteplicità di persone diverse. Si tratta, invero, dei casi statisticamente più frequenti: pur non essendo astrattamente inconcepibile - sottolinea infatti la pronuncia - che il reato venga realizzato in forma monosoggettiva, è del tutto evidente come, nella prassi, gli eventi dotati della carica offensiva propria della "devastazione" siano più frequentemente il frutto dell'interazione di numerose condotte umane, anziché dell'iniziativa di individui isolati.

Sul piano della condotta concorsuale tipica la sentenza si premura di declinare il particolare atteggiarsi, rispetto alla norma de qua, del principio di equivalenza causale dei contributi umani (artt. 110, 41 c.p.). Se da un lato - osserva la Cassazione - «sarebbe...erronea la tesi che limitasse l'integrazione del delitto, sul piano materiale, con esclusivo riguardo al comportamento di coloro che partecipino direttamente e personalmente all'intera attività distruttiva che fonda, nel caso concreto, la devastazione»; dall'altro lato, per converso, «difetterebbe di tipicità la condotta che, pure in qualche modo confluente nei disordini che conducono alla devastazione...risultasse priva di significativa influenza sulla natura devastante delle conseguenze del comportamento collettivo». La chiave del problema sta allora nella verifica, da parte del giudice di merito, circa la «congruenza tra la portata del comportamento individuale e l'evento di lesione dell'ordine pubblico»: a tal fine, «sarà necessario anzitutto che si focalizzi con la necessaria chiarezza un contributo di ordine morale o materiale all'azione distruttiva, anche ed eventualmente per quella sola parte che, per la sua relazione con il fenomeno complessivo, può comunque considerarsi causa efficiente dell'evento giuridico. In secondo luogo, ed appunto, andrà provata la rilevanza del fatto materiale quale concausa dell'evento di devastazione».

Passando all'elemento soggettivo, la pronuncia osserva come gli elementi strutturarli appena descritti debbano riflettersi nella rappresentazione e volizione dell'agente, andando così a costituire l'oggetto del dolo di partecipazione: l'agente, pertanto, «non deve solo volere la condotta distruttiva da lui stesso messa in atto, ma percepire, ciononostante agendo, che tale condotta si inserisce in un contesto che la rende concausa di un evento devastante, nel senso tecnico già chiarito del termine». Compito del giudice di merito, pertanto, è verificare quali degli avvenimenti antecedenti o concomitanti alla condotta dell'agente abbiano fatto sì che egli comprendesse e volesse la portata devastante - anche solo in termini concausali - del proprio comportamento.

 

4. Quanto alla circostanza attenuante di cui all'art. 62 co. 3 c.p., ossia "l'avere agito per suggestione di una folla in tumulto", la Corte richiama adesivamente la propria giurisprudenza secondo cui la preordinata volontà di partecipare ad una manifestazione di piazza non costituisce causa ostativa alla sua applicazione, non coincidendo affatto con la preordinata deliberazione a commettere reati (ipotesi, quest'ultima, che invece consentirebbe di escludere il nesso di causalità tra la commissione del reato in occasione della manifestazione e la minorata resistenza psichica in cui versa l'agente sotto suggestione della massa).

 

5. Con riferimento al caso di specie, la Cassazione annulla con rinvio la sentenza di condanna pronunciata nei confronti dell'imputato. I giudici di legittimità censurano, in particolare: a) la mancata individuazione, da parte dei giudici di merito, delle specifiche condotte dotate di efficienza causale rispetto alla produzione dell'evento lesivo (il concorso in devastazione era stato ravvisato dai giudici d'appello nel fatto che l'imputato aveva rivolto gesti di esortazione ad altri manifestanti, aveva versato del liquido di imprecisata natura sulla camionetta dei carabinieri già in fiamme ed aveva lanciato oggetti verso il veicolo quando questo era ormai distrutto, il tutto per un lasso temporale di durata non univocamente accertata); b) l'insufficienza della motivazione relativamente al dolo di partecipazione (i giudici d'appello si erano limitati ad affermare che sarebbe bastato all'imputato osservare ciò che gli accadeva intorno per comprendere la portata della propria condotta); c) la mancata concessione dell'attenuante di cui all'art. 62 n. 3, motivata sulla scorta della considerazione che l'imputato non poteva essere stato suggestionato in quanto da un lato si era spinto ad aizzare altri manifestanti, e dall'altro lato aveva riportato in passato una condanna per un fatto "analogo" (entrambi argomenti giudicati privi di forza logica dalla Cassazione: il primo in quanto, così come formulato nella sentenza d'appello, potrebbe semmai «comprovare il clima di esaltazione collettiva che regnava sul luogo e nel momento dei fatti»; il secondo giacché «non si comprende perché il precedente avrebbe dovuto escludere di per sé la suggestionabilità»).

 

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6. La sentenza qui pubblicata aggiunge un autorevole tassello all'opera di esegesi che da anni la giurisprudenza della Cassazione svolge con riferimento alla fattispecie di devastazione e saccheggio. Si tratta di un'opera condivisibilissima, in quanto tesa a rileggere in maniera costituzionalmente orientata la figura delittuosa che, in ragione del suo draconiano arsenale sanzionatorio (da otto a quindici anni di reclusione), forse più di ogni altra ci ricorda le origini illiberali del nostro codice penale.

Nell'ottica, dunque, di restituire un volto costituzionale al nostro sistema penale, non si può che salutare con favore la progressiva restrizione dell'ambito di applicazione della norma incriminatrice racchiusa nell'art. 419 c.p., limata da una giurisprudenza di legittimità che - ancora una volta - mostra di fare sul serio quando si avvale degli strumenti offerti dai principi costituzionali di tassatività e offensività.

Peraltro, proprio sullo sfondo delle cristalline argomentazioni spese dalla Sesta Sezione nella pronuncia qui in esame, pare intravedersi l'applicazione anche di un altro fondamentale principio di rango costituzionale, quello di proporzione della pena rispetto al fatto commesso. Si tratta, come è noto, di un principio che negli ultimi anni è andato via via guadagnando crescente importanza, ed è ormai giunto ad acquisire il ruolo di canone autonomo di legittimità ed interpretazione delle norme incriminatrici (sul punto, cfr. F. Viganò, Inaugurazione dell'anno giudiziario 2014: la relazione del Primo Presidente della Cassazione Santacroce, in questa Rivista, in particolare al punto n. 4).

Anche la sentenza che oggi pubblichiamo, seppure implicitamente, sembra inserirsi in questo recente ed innovativo filone interpretativo. Ed infatti, proprio laddove si rimarca la necessità che il concetto di "devastazione" venga riservato a fenomeni «di primaria grandezza, di diffusa e grave distruzione», la cui portata offensiva si concretizzi in una minaccia «alle condizioni stesse di sicurezza della vita associata, e dunque in modo indiscriminato e sul scala estesa», si sta nella sostanza ritagliando l'ambito di applicazione della fattispecie a quei soli fatti il cui disvalore appare meritevole di una sanzione di calibro così pesante.

Si tratta di un risultato ermeneutico al quale, a ben vedere, il solo principio di offensività forse non sarebbe in grado di condurre l'interprete, non foss'altro perché una qualche forma di offesa all'ordine pubblico è di per sé insita in quasi tutti i casi di tumulti e disordini associati alle manifestazioni. Del resto, la portata garantistica di tale risultato si lascia apprezzare proprio, e soprattutto, sul piano della proporzione sanzionatoria. E infatti, se si utilizzasse l'art. 419 c.p. quale strumento principe per la repressione di qualsivoglia tumulto o disordine, si finirebbe per punire gli autori di meri "scontri di piazza" con una pena più severa di quella che è applicabile - ad esempio - ai partecipi di un'associazione di tipo mafioso (reclusione da sette a dodici anni) o agli autori di una violenza sessuale, magari a danno di un minore di dieci anni (reclusione da sette a quattordici anni). Il palese diverso disvalore che contrassegna questi fatti renderebbe manifestamente irragionevole la previsione (e l'irrogazione) di pene dello stesso calibro.

Del tutto fuorviante - giova precisarlo per inciso - sarebbe evocare, a giustificazione delle elevatissime pene previste per la devastazione, il dato che molto spesso i manifestanti più violenti - come i cd. "black bloc" - si rendono responsabili di fatti pericolosi per l'incolumità pubblica (come gli incendi) o addirittura offensivi di beni personali (come nel caso in cui le forze dell'ordine riportino lesioni personali), giacché si tratta all'evidenza di comportamenti sanzionabili - e in maniera assai severa - attraverso l'applicazione di norme incriminatrici ad hoc.

In conclusione pare potersi affermare che, alla luce dell'odierno insegnamento della Cassazione, la fattispecie di devastazione sia oramai destinata ad abbracciare quelle sole condotte che per la loro estensione e diffusività travalicano in maniera abnorme l'offesa all'ordine pubblico normalmente arrecata dalla mera sommatoria di atti di vandalismo e resistenza a pubblico ufficiale.