ISSN 2039-1676


17 febbraio 2015 |

La prova del dolo nella condotta di divulgazione o diffusione di materiale pedopornografico mediante programmi di file-sharing

A proposito di Cass. pen., Sez. III, sent. 30 settembre 2014 (dep. 06 novembre 2014), n. 45922, Pres. Squassoni, Rel Andreazza

1. La sentenza in esame si segnala per l'affermazione di alcuni principi di particolare interesse in relazione all'elemento soggettivo della condotta di divulgazione di materiale pornografico minorile ex art. 600 ter, comma terzo, del codice penale[1].

All'imputato era stato contestato di aver diffuso tramite il programma E-Mule Adunanza (una versione del programma di file-sharing E-Mule ideata appositamente per l'utilizzo ottimale della rete Fastweb) un video di natura pedopornografica. Si trattava nel caso di specie di un c.d. "file civetta", ovvero di un video introdotto nel circuito peer to peer dalla Polizia postale allo scopo di individuare i fruitori di materiale pedopornografico. È noto infatti che i programmi come E-Mule non possiedono un archivio di file ma si limitano a mettere in comunicazione gli utenti fra di loro - i peers appunto - e di permettere la ricerca e lo scambio dei file.

In relazione al predetto "video civetta", all'imputato era stata contestata esclusivamente la condotta di divulgazione ex art. 600 ter, comma terzo, c.p., e non quella di detenzione ex art. 600 quater c.p. in quanto il fatto ascrittogli consisteva nell'aver messo in download il video pedopornografico tramite il programma E-Mule così condividendone automaticamente i frammenti che venivano via via scaricati. In sostanza l'imputato stava scaricando un video di natura pedopornografica e ne condivideva le porzioni già scaricate ogni qualvolta avviava il programma E-Mule.

Ciò avveniva a causa del funzionamento del programma E-Mule che automaticamente pone in condivisione e consente l'upload dei frammenti già scaricati dei file in download, senza possibilità che il predetto meccanismo di condivisione automatica possa essere modificato dall'utente. La condotta di divulgazione di un file mediante l'utilizzo del suddetto programma avviene quindi prima di avere interamente scaricato il file, quindi anche senza averlo potuto visionare. Con la conseguenza che, dal punto di vista informatico, è possibile divulgare un file senza detenerlo.

In questo senso si spiega l'affermazione della Corte per cui il mero fatto dell'utilizzo di un programma di file-sharing non può implicare la volontà di divulgazione. La Corte ha quindi affermato il principio per cui il fatto di utilizzare un programma di file-sharing che al momento dell'avvio condivide automaticamente tutti i file che sono posti in download non implica la sussistenza del dolo della condotta di divulgazione di cui all'art. 600 ter, comma terzo, del codice penale

 

2. È bene evidenziare che la Suprema Corte si è già pronunciata in altre occasioni nel senso che l'elemento soggettivo della condotta di divulgazione non si possa dedurre automaticamente dal mero utilizzo di un programma di file-sharing. Si pensi alla recente sentenza n. 25711 del 16 giugno 2014 con cui la terza sezione della Suprema Corte ha ribadito che "affinché sussista il dolo del reato di cui all'art. 603 ter c.p., comma 3, occorre provare che il soggetto abbia avuto, non solo la volontà di procurarsi materiale pedopornografico, ma anche la specifica volontà di distribuirlo, divulgarlo, diffonderlo o pubblicizzarlo, desumibile da elementi specifici e ulteriori rispetto al mero uso di un programma di file-sharing"[2]. 

In tale sede la Corte aveva difatti evidenziato che "una diversa interpretazione, secondo cui la semplice volontà di procurarsi un file illecito utilizzando un programma tipo E-Mule o simili, implicherebbe, di per se stessa e senza altri elementi di riscontro, sempre e necessariamente anche la volontà di diffonderlo (solo in considerazione delle modalità di funzionamento del programma e del fatto che questo permette l'upload anche senza alcun intervento di un soggetto che concretamente metta il file in condivisione), porterebbe a configurare una sorta di presunzione iuris et de iure di volontà di diffusione o una sorta di responsabilità oggettiva, fondate esclusivamente sul fatto che, per procurarsi il file, il soggetto sta usando un determinato programma di condivisione e non un programma o un metodo diversi (Sez. 3, 12 gennaio 2010, n. 11082; Sez. 3, 7 novembre 2008, n. 11169)".

Una tale impostazione è senza dubbio da condividersi in quanto, essendo più attenta alla verifica della presenza dell'elemento soggettivo nella condotta di divulgazione, risulta più rispettosa del principio di personalità della responsabilità penale ex art. 27 Cost.

 

3. Un secondo punto di particolare rilievo sul quale si è pronunciata la Corte nella sentenza n. 45922 del 2014 che in questa sede si commenta attiene alla possibilità che la condotta di divulgazione possa essere integrata dalla condivisione di frammenti di un file non ancora interamente scaricato. Nel caso di specie, difatti, il "video civetta" del quale era stata contestata la divulgazione era ancora in fase di download, quindi incompleto e non visionabile, sicché, a ben vedere, non poteva nemmeno essere considerato "materiale pedopornografico".

Afferma sul punto la Corte che "la condotta di divulgazione presuppone che i file di cui si compone il materiale siano interamente scaricati e completi, ossia concretamente leggibili e visionabili, nonché lasciati nella cartella dei file destinati alla condivisione". Ne consegue che quell'insieme di frammenti che costituiscono parte - ancora incompleta - del file in download, non possono considerarsi "materiale" pornografico minorile, oggetto materiale del reato di cui all'art. 600 ter c.p.

Si consideri che a una diversa soluzione si potrebbe invece pervenire nel caso in cui i file, seppur ancora in fase di scaricamento, siano in download con la modalità "anteprima" la quale, come spiegheremo più avanti, consente la visione - seppure parziale - di file incompleti in quanto non del tutto scaricati.

 

4. In ordine alla sussistenza del reato di divulgazione di file incompleti che siano, tuttavia, già in parte visionabili mediante la funzione "anteprima" si è pronunciata più diffusamente la Suprema Corte con la sentenza n. 11169 del 2008.

In tale occasione i giudici di legittimità, soffermandosi dapprima sull'elemento oggettivo del reato di divulgazione, hanno affermato che la divulgazione presuppone la detenzione sicché un file può essere oggetto di tale condotta solo se completo e leggibile. È quindi necessario che ne sia stato completato lo scaricamento e che questo venga poi volontariamente inserito o lasciato nella cartella dei file condivisi, risultando così disponibile alla cerchia dei potenziali fruitori.

Secondo i supremi giudici, opinare diversamente porterebbe anche ad una serie di problemi "di ordine logico e probatorio". In primo luogo, perché possa parlarsi di "materiale pornografico minorile", seppure incompleto, è necessario che il file venga scaricato con la modalità "anteprima", ovvero utilizzando quella particolare opzione che permette a chi scarica di "comandare" al programma di file-sharing di non scaricare frammenti del file in ordine casuale, bensì in un determinato ordine sequenziale che consenta all'utente di visionare il file quando ancora non è stato completato. Si consideri infatti che se un video - in ipotesi - è completo al 90%, ma non viene scaricato utilizzando questa particolare opzione, non potrà essere visualizzato con gli strumenti a disposizione di un utilizzatore, anche esperto. Diversamente, qualora sia stata selezionata l'opzione "anteprima", il file diviene visionabile non appena il programma è riuscito a reperire fra gli utenti della piattaforma di file-sharing un numero sufficiente di dati ordinati in sequenza; e ciò può accadere anche quando il file è ancora in gran parte incompleto.

Tuttavia, dopo aver ammesso che con la modalità "anteprima" possa costituire "materiale pornografico minorile" un file in download seppure incompleto, la Corte afferma che "per poter attribuire ad un singolo soggetto un comportamento diffusivo, deve essere quel singolo soggetto a detenere e divulgare il materiale pedopornografico. Altrimenti, si dovrebbe fornire la prova di un (per la verità di solito difficilmente ipotizzabile) volontario concorso doloso con incerti ed indefiniti soggetti eventualmente detentori di altri indistinti pezzetti del file in questione per la divulgazione dell'intero file, di cui del resto il singolo soggetto, nella gran parte dei casi, nemmeno sa se si trova e si continuerà a trovare in rete al completo fino a quando sarà terminato lo scaricamento dell'intero file".

La Corte afferma quindi che una diffusione del file non è possibile se questo non è detenuto nella sua forma completa in quanto, diversamente opinando, la condotta potrebbe integrare la "diffusione del file" solo in concorso con gli altri soggetti che detengono le parti mancanti. Un accertamento di questo tipo sarebbe, evidentemente, quasi del tutto inattuabile.

La Corte aggiunge che "il solo fatto che un soggetto abbia scaricato una o più parti di un file non implica che l'intero file esista nella rete e che sia quindi scaricabile e, in futuro, visionabile e divulgabile". È noto infatti che sono diversi i casi in cui un file non è più presente in forma completa in un circuito peer to peer sicché di questo non sarà più possibile lo scaricamento completo salvo che colui o coloro che detengono quello stesso file completo al 100% decidano di rimetterlo in condivisione. Afferma a riguardo la Corte che "se infatti non esiste o non continua ad essere presente in rete per tutto il tempo necessario almeno un utente che condivida il file completo, sarà impossibile il completamento e la divulgazione del file stesso. Al contrario, il reato di diffusione di materiale illecito sarà configurabile quando un soggetto che detenga il file completo lo metta volontariamente in condivisione, perché tale comportamento è di per sé idoneo a divulgare il materiale, anche se questo non venga poi in concreto scaricato da altri".

Ciò considerato in ordine all'elemento oggettivo, la Corte afferma sull'elemento soggettivo che "qualora invece il soggetto detenga (per di più nella cartella dei file temporanei) solo singoli pezzetti del file che si trova ancora in fase di scaricamento da terzi (e ancora non si sa se potrà o meno essere completato) potrà, almeno di solito presumersi soltanto una volontà corrispondente al comportamento che il soggetto in concreto sta tenendo, ossia appunto una volontà del soggetto di scaricare, ossia di procurarsi il file (art. 600 quater cod. pen.) e non anche una volontà di diffonderlo".

La volontà di procurarsi e detenere un file non può quindi far presumere una volontà di diffondere. Il dolo di diffusione dovrà, secondo la Corte, "risultare in modo certo, e fondarsi su elementi certi ed inequivoci, che non possono consistere nel solo fatto che il soggetto si stava procurando il file con un certo tipo di programma".

In ordine alla prova del dolo la Corte - sempre nella predetta sentenza del 2008 - fornisce anche alcune indicazioni. Non potrà ad esempio addursi l'esperienza e la competenza dell'imputato che "si occupava di riparazioni di computer e conosceva il funzionamento del programma". Si dovrà invece valutare "il concreto comportamento tenuto dal soggetto" ricavando la volontà di diffondere, ad esempio, dalla "circostanza che il soggetto, dopo averli completati, sia solito inserire i file nella cartella di condivisione" e, al contrario, la volontà di non diffondere nel caso di "chi sia solito non mettere in condivisione i file completati". Altrimenti opinando si perverrebbe, anche in questo caso, ad "una sorta di presunzione iuris et de iure di volontà di diffusione o una sorta di responsabilità oggettiva, fondate esclusivamente sul fatto che, per procurarsi il file, il soggetto sta usando un determinato programma di condivisione e non un programma o un metodo diversi (che magari permettono una diffusione anche più rapida, estesa ed efficace, ma solo di file completi)".

I supremi giudici concludono infine che anche qualora "si ritenesse possibile una diffusione prima che il file sia stato completato ed inserito nella cartella dei file condivisi, e cioè quando esso, pur essendo già parzialmente leggibile, sia ancora in fase di scaricamento, l'esistenza del dolo esigerebbe comunque la prova rigorosa che il soggetto era consapevole che il programma avrebbe iniziato automaticamente la condivisione al raggiungimento di una certa dimensione del file. Non sarebbe quindi sufficiente [...] che il soggetto abbia dimestichezza con i computer o conosca genericamente il programma in questione, ma occorrono elementi tali da poter presumere che lo stesso sia a conoscenza anche di questa specifica funzione di condivisione automatica".

Possiamo quindi concludere, sulla base dei principi affermati nella richiamata sentenza n. 11169 del 2008, che anche in relazione alla condotta di diffusione dei file incompleti, sempre che questa venga ritenuta possibile sul piano oggettivo e non definitivamente ostacolata da quelle obiezioni di ordine logico e probatorio di cui si è detto, il dolo deve essere rigorosamente provato e mai presunto, onde evitare il rischio di scivolare verso forme di responsabilità oggettiva senz'altro in contrasto con il principio di personalità della responsabilità penale ex art. 27 Cost.

 


[1] Nello stesso senso cfr. Cass. Sez. III, 29 ottobre 2013, n. 47820; Cass. Sez. III, 10 novembre 2011, n. 44065; Cass. Sez. III, 12 gennaio 2010, n. 11082; Cass. Sez. III, 7 novembre 2008, n. 11169.

[2] Analogamente vedi Cass. Sez. III, 2 dicembre 2013 (ud. 29 ottobre 2013), n. 47820.