ISSN 2039-1676


14 aprile 2015 |

La Cassazione tra reati-associativi e reati-scopo: nessuna scorciatoia né sostanziale, né processuale ove l'imputato sia il capo di una famiglia mafiosa

Cass. pen., Sez. VI, 17 settembre 2014 (dep. 27 febbraio 2015), Pres. Ippolito, Rel. Leo, Ric. Tagliavia

 

1. Il rapporto tra la responsabilità per la partecipazione a un reato associativo e la differente responsabilità a titolo di concorso in un reato-scopo, costituisce «uno dei temi di maggiore interesse nel dibattito sulla sfera di operatività della criminalità organizzata»[1]. Tale delicata tematica[2] diviene ancora più complessa «nell'ipotesi di partecipazione "qualificata", quando cioè il partecipe rivesta un ruolo di rilievo nella struttura organizzativa del sodalizio»[3]. Nei casi di reati-scopo contestati nei confronti dei vertici di un'associazione criminale, infatti, è particolarmente elevato il rischio di un concreto allentamento del canone della personalità della responsabilità penale e di una deriva verso forme - più o meno mascherate - di responsabilità "di posizione", non richiedenti la prova di uno specifico apporto causale del capo organizzazione nella realizzazione dei singoli reati-fine[4].

Peraltro, nella giurisprudenza di legittimità si è tradizionalmente soliti rimediare a tale pericolo sostenendo che, «data l'autonomia del reato di associazione [...] rispetto all'attuazione del programma criminoso, non tutti gli aderenti all'associazione rispondono anche dei delitti commessi in attuazione della pattuizione [...], ma solo quelli che [...] danno un effettivo apporto [...] all'attuazione della singola condotta delittuosa[5]».

Se è vero che tale indirizzo è costante nella giurisprudenza della Suprema Corte[6], rimane comunque in piedi la questione dell'attuazione concreta nel singolo processo di tali insegnamenti, sussistendo comunque il pericolo di un'adesione solo nominalistica e non sostanziale agli stessi.

Com'è evidente, tali questioni si sovrappongono con problematiche processuali assai rilevanti, quali, ad esempio, l'applicazione in tale materia dello standard del ragionevole dubbio; il canone del "libero convincimento" del giudice, nonché il valore probatorio delle chiamate in correità dirette e de relato.

 

2. Con la sentenza qui pubblicata, la sesta Sezione della Suprema Corte si occupa proprio del rapporto tra reati-fine e reati associativi, in un contesto di gravissimi delitti-scopo attribuiti al capo di una famiglia mafiosa.

Si procede per una lunga serie di attentati riconducibili alla cosiddetta «strategia stragista», elaborata dall'organizzazione "cosa nostra" a partire dall'autunno del 1991, tra cui la strage di via dei Georgofili a Firenze e quella di via Palestro a Milano.

Già nel 1997 il pubblico ministero aveva raccolto le dichiarazioni di un collaboratore di giustizia concernenti la partecipazione dell'odierno imputato agli attentati stragisti, che, però, non erano state ritenute idonee a sostenere l'accusa in giudizio, con conseguente archiviazione della sua posizione.

Nel 2008 sopravvenivano le dichiarazioni di un ulteriore collaboratore di giustizia, il quale riferiva, tra l'altro, che l'accusato aveva partecipato a una riunione preparativa dell'attentato di via dei Georgofili.

Riaperto il procedimento, l'imputato veniva condannato in primo grado per tutte le accuse e tale pronuncia, salvo una contestazione per un attentato, veniva confermata dalla Corte d'assise d'appello di Firenze.

In sintesi, la Corte si soffermava sul ruolo dominante nella strategia stragista del mandamento di Brancaccio, cui apparteneva anche l'imputato, di talché ai giudici del merito pareva impensabile che il capo di una delle famiglie del mandamento fosse stato escluso dalle attività di decisione, programmazione e attuazione degli attentati.

Inoltre, per quanto riguarda le imputazioni concernenti fatti diversi a quelli di via dei Georgofili, la Corte territoriale ribadiva, per un verso, il convincimento che l'imputato avesse dato il proprio consenso all'intera strategia stragista e, per un altro verso, che una riunione organizzativa doveva esservi stata anche per gli attentati diversi da quello di Firenze.

Contro tale pronuncia proponevano due distinti ricorsi per cassazione i difensori dell'imputato.

In particolare, si sosteneva che i giudici del merito avessero errato nel ritenere che egli avesse partecipato a riunioni preparatorie delle stragi. Si lamentava, infatti, la mancanza di riscontri delle dichiarazioni per l'attentato di Firenze e, per quanto riguarda gli ulteriori fatti, «si tratterebbe di mera illazione dei Giudicanti, non essendosi mai raccolto in proposito alcun elemento di prova».

In sostanza, si sosteneva che la Corte territoriale avesse condannato l'imputato in base a un ragionamento puramente assiomatico, secondo cui, avendo partecipato agli attentati alcuni degli uomini della sua famiglia, egli avrebbe dovuto necessariamente prestare un suo preventivo consenso all'intera strategia stragista.

Con un ulteriore motivo, espresso in rapporto di subordinazione con il primo, si sollecitava l'annullamento della sentenza almeno per i fatti diversi dalla strage di Firenze. Infatti, con riguardo a tali imputazioni, la Corte d'Appello «avrebbe configurato una sorta di responsabilità complessiva [dell'imputato] per la "pianificazione stragista", trascurando che avrebbe dovuto vagliare prove [...] concernenti ciascuno dei fatti in contestazione».

 

3. La Suprema Corte, investita dei ricorsi, precisa subito che gli stessi sono «essenzialmente fondati» e dispone l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata con riferimento ai delitti ricollegati all'attentato di via dei Georgofili, in quanto lo stesso «origina essenzialmente dalle caratteristiche del percorso motivazionale della Corte d'appello».

Per quanto riguarda gli ulteriori reati contestati, invece, la sentenza viene annullata senza rinvio, in quanto «dalla sua stessa motivazione si deduce che l'affermazione di responsabilità è intervenuta in assenza di prove rappresentative delle condotte contestate, ed anzi in assenza della stessa identificazione di condotte, concretamente individuate, che siano riconducibili al paradigma del 110 c.p.».

Nel motivare tale decisione, la Suprema Corte innanzitutto precisa che il difetto principale della pronuncia impugnata è insito nella sua stessa struttura argomentativa.

Infatti, se, per un verso, la Cassazione ritiene assolutamente legittimo che i difensori negli atti d'impugnazione abbiano adottato una strategia di forte atomizzazione dell'analisi, frantumando e reiterando in modo circolare il materiale probatorio, al contrario, la stessa considera assolutamente erroneo che i giudici di Appello non abbiano ordinato le censure difensive per capi e punti della sentenza di primo grado, ma si siano limitati a procedere «ad una confutazione analitica e pedissequa delle prospettazioni difensive, così riproducendone la circolarità e la ridondanza».

Tale modalità argomentativa, continuano i giudici, ha prodotto un risultato paradossale: la tecnica di atomizzazione del materiale probatorio - censurata in modo assolutamente costante dalla giurisprudenza di legittimità, poiché porta allo svilimento del quadro indiziario[7] - se unita a una reiterazione estrema degli atti e argomenti, «può produrre un'impressione di sovrabbondanza degli elementi utili alla formazione della base cognitiva per il giudizio».

Al contrario, precisa la Corte, la contestazione nei confronti dell'imputato di aver partecipato all'intera strategia stragista di "cosa nostra" deriva, essenzialmente, dalla sola sopravvenienza nel 2008 delle dichiarazioni del secondo collaboratore di giustizia, che, in termini concreti, ha riferito di solo poche circostanze fattuali. L'intero quadro probatorio, quindi, sarebbe composto da pochi elementi essenziali. Peraltro, si afferma ancora, se è vero che in un processo penale non si verifica una situazione d'insufficienza probatoria solo perché vi sono pochi elementi di prova, è altrettanto indubitabile che gli stessi non vedono accresciuta la propria concludenza probatoria «per il solo fatto di essere menzionat[i] innumerevoli volte, nello stesso od in diversi contesti d'argomentazione».

 

4. Poste queste premesse, la Corte effettua una lunga digressione generale sui problemi sostanziali e processuali che caratterizzano il caso di specie, iniziando dalla tematica chiave del rapporto tra responsabilità per reati-scopo e responsabilità per reati-associativi.

Innanzitutto, i giudici richiamano la costante giurisprudenza di legittimità secondo cui «il ruolo di partecipe rivestito da taluno nell'ambito della struttura organizzativa criminale non è di per sé solo sufficiente a far presumere la sua automatica responsabilità per ogni delitto compiuto da altri appartenenti al sodalizio, [...], giacché dei reati-fine rispondono soltanto coloro che materialmente o moralmente hanno dato un effettivo contributo, causalmente rilevante, [...] all'attuazione della singola condotta criminosa[8]».

Subito dopo, la Corte precisa tali considerazioni, spiegando che il legislatore, con l'art. 110 c.p., ha rinunciato a descrivere ogni condotta concorsuale tipica e ha fatto piuttosto riferimento al criterio dell'orientamento causale, secondo cui va sottoposto a punizione «ogni atteggiamento, commissivo od omissivo, che risulti aver concorso alla produzione dell'evento antigiuridico».

Di conseguenza, continuano i giudici, nel nostro ordinamento una dichiarazione di responsabilità dell'agente a titolo concorsuale non può che basarsi su una precisa condotta, dotata di efficienza eziologica con l'evento antigiuridico e non su una generica forma di coinvolgimento nella vicenda che ha portato alla violazione della norma incriminatrice.

Le conseguenze processuali di tali affermazioni sono chiare: la pubblica accusa e il giudice devono necessariamente indicare e dimostrare con quale modalità si sia concretizzata la partecipazione dei vari agenti.

Detto ciò, i giudici affermano che se le prove raccolte nella fattispecie concreta non riescono a indicare la specifica condotta concorsuale e lo sviluppo causale dei suoi effetti «allora si tratterà di prove insufficienti per una dichiarazione di responsabilità, per quanto plausibile possa apparire, magari a partire dalla sua accertata consapevolezza degli avvenimenti, che un determinato soggetto sia stato coinvolto nella vicenda criminale».

Poco dopo, la Cassazione precisa ancora che la prova del coinvolgimento di un soggetto in un reato-fine dell'associazione va parametrata allo standard dell'"al di là di ogni ragionevole dubbio" e sarà raggiunta «solo quando si risolva nell'inferenza necessaria del coinvolgimento di un determinato soggetto; nella sostanziale inconcepibilità, cioè, che l'accadimento considerato si verificasse in assenza dell'indicato coinvolgimento, e sempreché [...] l'inferenza si spinga fino alla determinazione dello specifico contributo causale attribuito al partecipe».

 

5. In seguito, la Cassazione chiarisce che la prova della partecipazione di un soggetto può anche derivare da dichiarazioni di correo e/o de relato, pur essendo tali strumenti cognitivi particolarmente delicati, in quanto non sottoposti ai soli rischi propri di ogni prova dichiarativa (quali l'errore di percezione o il cattivo ricordo), ma a dei rischi specifici, quali la non imparzialità del dichiarante rispetto al dichiarato (nei casi di chiamate di correo) o la percezione solo indiretta di quanto affermato (nel caso di dichiarazioni de relato).

Dalla consapevolezza di tali difficoltà «sono nati i modelli giurisprudenziali di approccio alla "chiamata di correo", oggetto di progressiva evoluzione, e le stesse norme regolatrici della materia», ovvero gli artt. 192, commi 3 e 4 c.p.p.

Ciò premesso, i giudici si diffondono lungamente sugli insegnamenti ricavabili dalla sentenza delle Sezioni Unite Aquilina, che hanno recentemente chiarito i criteri e presupposti che devono orientare la valutazione delle prove dichiarative e, in particolare, quelli riguardanti le dichiarazioni dei collaboratori di giustizia[9].

In particolare, la Cassazione ricorda che il nostro sistema è basato sul principio del "libero convincimento[10]" e che il legislatore non ha costituito «una gerarchia formale delle fonti, che ne scandisca in termini progressivamente più riduttivi [...] l'efficacia dimostrativa».

Poco dopo, i giudici precisano che il disposto dell'art. 192, commi 3 e 4 c.p.p. non deroga al citato canone del libero convincimento, ma costituisce una regola di esperienza, «che riprende in termini sintetici il patrimonio oramai colossale delle indicazioni che sono state raccolte grazie alla sperimentazione giudiziaria della prova dichiarativa, ed in particolare quella promanante da soggetti personalmente coinvolti in vicende criminali».

In sostanza, la sentenza condivide l'opinione delle citate Sezioni Unite, secondo cui nei commi 2 e seguenti dell'art. 192 c.p.p. «si codifica, forse superfluamente, [...], un "segnale didattico" per la valutazione di dati probatori, che isolatamente considerati, si rivelano di minore efficacia dimostrativa[11]».

Da tali considerazioni la Suprema Corte ricava, in primo luogo, che la chiamata di correo non è una prova sotto ordinata rispetto alle altre e, inoltre, che gli «altri elementi» utili a confermarne l'attendibilità sono del pari estranei a una inesistente gerarchia probatoria e possono, quindi, «consistere in qualunque forma di conoscenza».

Di conseguenza, non può stupire che delle chiamate di correo dirette o de relato possano essere riscontrate da fonti normative dello stesso genere. Del pari, non necessariamente l'elemento di riscontro deve essere una prova diretta, potendo consistere anche in una prova logica[12].

Secondo i giudici, infine, «la cosiddetta convergenza del molteplice non esige che gli elementi concorrenti riguardino la medesima circostanza di fatto che assume rilievo nell'economia della contestazione (ad esempio, che una determinata persona abbia partecipato ad una determinata riunione preparatoria)». Ma, al contrario, affinché vi sia convergenza, è sufficiente che le prove siano concernenti circostanze fattuali tutte pertinenti alla partecipazione criminosa in questione.

 

6. Detto ciò, la Cassazione rileva che, se da un piano di enunciazione formale la sentenza impugnata non si scosta dai principi che regolano la materia, tuttavia, da un punto di vista concreto, «all'esito di uno sfoltimento delle iterazioni, si constata il rilevante connotato di circolarità del ragionamento probatorio, e per altro verso una forte componente congetturale nella concatenazione degli assunti».

Secondo i giudici, infatti, nella pronuncia d'appello non compaiono elementi di prova del concorso del ricorrente idonei a dimostrare con sufficiente precisione una sua partecipazione agli eventi contestati.

Difatti, afferma ancora la Cassazione, per quanto concerne i reati diversi dalla strage dei Georgofili, «il vero nucleo argomentativo della sentenza impugnata [...] si incentra sul riferimento alla "posizione"» dell'imputato quale capo famiglia. Cioè, proprio quell'argomento probatorio la cui idoneità esclusiva a fondare una responsabilità penale era stato negato dalla stessa Corte territoriale.

La situazione, invece, viene ritenuta diversa per i fatti di via dei Georgofili, in quanto in ordine a tale contestazione erano stati acquisiti specifici elementi di prova a carico ed è anche indicata una specifica sede ove l'imputato avrebbe potuto prestare il proprio consenso alla consumazione dei delitti. Viene, quindi, affidato al giudice del rinvio il compito di valutare se le informazioni riguardanti tali fattispecie siano o meno attendibili e se le stesse si riscontrino reciprocamente.

 

7. Le argomentazioni offerte dalla Suprema Corte appaiono in larga parte equilibrate e condivisibili.

In particolare, pare assolutamente apprezzabile, nonostante l'assoluta gravità delle imputazioni, il fatto che non si sia assolutamente avallata alcuna scorciatoia né sostanziale, né processuale, per ritenere accertati i reati contestati, facendosi, invece, applicazione concreta - e non solo nominalistica - degli insegnamenti giurisprudenziali maturati in merito allo standard garantista del ragionevole dubbio[13].

Tale soluzione, doverosa in base ai valori espressi dal sistema penale e costituzionale italiano, non era per nulla scontata alla luce di alcune recenti esperienze processuali contemporanee, che hanno creato delle discipline eccezionali particolarmente preoccupanti nei confronti di sospettati di delitti terribili, quali fatti di terrorismo[14]. Si pensi, ad esempio, alle inquietanti discipline processuali introdotte negli Stati Uniti a seguito dei tragici attentati dell'11 settembre 2001, nei confronti dei sospettati di terrorismo, quali l'U.S.A. Patriot Act o il Detention, Treatment and Trial of Certain No-Citizens in the War against Terrorism[15]. Oppure, più recentemente, alla proposta del sindaco di Londra (Boris Johnson) di prevedere una presunzione di colpevolezza per reati di terrorismo nei confronti dei cittadini britannici che si rechino in Iraq e Siria senza avvisare le autorità[16].

In sostanza, seppur di fronte a crimini terribili, che hanno segnato profondamente e tragicamente la recente storia italiana, la Suprema Corte ha comunque dato il segnale forte di dare concreta attuazione, per profonde ragioni etico-politiche, alla veneranda massima per cui è meglio assolvere un colpevole, rispetto a condannare un innocente[17], non lasciandosi irretire da scorciatoie motivate da ragioni di difesa sociale.

 

8. Desta, invece, alcune perplessità l'affermazione - già contenuta nella sentenza delle Sezioni Unite Aquilina - secondo cui i criteri legali di valutazione di cui all'art. 192, commi 2 e 3 sarebbero dei meri «segnali didattici[18]».

Infatti, se è pur vero che anche la dottrina è divisa sul fatto che tali criteri limitino o meno effettivamente il libero convincimento del giudice[19], preme solo rilevare che un conto è sostenere che un decisore modello avrebbe applicato gli stessi criteri prudenziali contenuti nei commi 2 e 3 dell'art. 192 anche in assenza di alcuna indicazione normativa a riguardo, un altro è trovarsi di fronte ad una norma generale e astratta che necessariamente va applicata in ogni decisione. Né, del resto, il fatto che l'art. 192, c.p.p. non preveda alcuna sanzione processuale espressa comporta che una sua violazione sia priva di conseguenze giuridiche[20].

Invero, un'esegesi giurisprudenziale eccessivamente svalutativa nei confronti delle regole di valutazione (e di esclusione), corre sempre il rischio di esaltare in modo estremizzato proprio la «formula magica[21]» del libero convincimento. Del resto, il pericolo che tale canone si trasformi, in modo surrettizio, in una «vorace potenza superlogica, che trae il proprio alimento da tutto ciò che anche per un solo istante sia comparso sulla scena del processo[22]», può portare a rivalutare l'importanza della presenza nel nostro codice di norme certamente prudenziali, pedagogiche e di buon senso, ma assolutamente razionali, quali quelle contenute nell'art. 192 c.p.p.

 


[1] Cfr. A. Centonze, Le fattispecie associative e i reati fine: riunione e separazione processuale di fronte alla regola di giudizio dell'oltre ogni ragionevole dubbio, in Aa. Vv., Fenomenologia del maxiprocesso: venti anni di esperienze, a cura di G. Tinebra, R. Alfonso, A. Centonze, Milano, 2011, p. 117.

[2] Per un inquadramento teorico del tema: F. Argirò, La responsabilità dei capi-clan per i reati-fine commessi dagli associati: tra regole di esperienza e criteri di imputazione oggettiva, in Cass. pen., 2008, pp. 1189 ss.; G. Canzio, Responsabilità dei partecipi nei singoli reati-fine: l'evoluzione giurisprudenziale negli anni 1970-1995, ivi, 1996, pp. 3163 ss.; C. De Maglie, Teoria e prassi dei rapporti tra reati associativi e concorso di persone nei reati-fine, in Riv. it. dir. proc. pen., 1987, pp. 924 ss.; G. Fiandaca, Sulla responsabilità concorsuale dei componenti della cupola di Cosa Nostra, in Foro it., 1993, II, c. 15 ss.; T. Padovani, Il concorso dell'associato nei delitti-scopo, in Riv. it. dir. proc. pen., 1998, pp. 761 ss.

[3] Così, G. Canzio, Responsabilità dei partecipi nei singoli reati-fine, cit., p. 3163.

[4] Si pensi, ad esempio, all'indirizzo giurisprudenziale di merito delle sentenze relative al terrorismo dei cosiddetti anni di piombo, secondo cui la struttura delle Brigate Rosse avrebbe consentito di condannare i vertici a titolo di concorso morale, per i reati commessi dai militanti, senza che occorresse la prova di una specifica condotta di partecipazione. Sul punto, F. Argirò, La responsabilità dei capi-clan, cit., pp. 1191 s.

[5] Cfr., Cass., Sez. I, 14 gennaio 1987, Fiandaca, in Cass. pen., 1988, p. 1163. In tema cfr. G. Canzio, Responsabilità dei partecipi nei singoli reati-fine, cit., pp. 3163 ss.; G. Melillo, Sulla responsabilità dei singoli componenti delle «cupola» di «Cosa nostra» per i delitti decisi dall'organismo di vertice, in Cass. pen. 2002, pp. 989 ss.

[6] Cfr., tra le tante, Cass., Sez. I, 18 settembre 2008, n. 42990, in Ced. Cass., n. 241820; Cass., Sez. VI, 15 novembre 2007, n. 3195, ivi, n. 238402; Cass., Sez. V, 31 gennaio 2007, n. 7660, ivi, n. 236523; Cass., Sez. un., 24 novembre 2003, Andreotti, in Cass. pen., 2004, pp. 811 ss.

[7] Cfr., ad esempio, Cass., Sez. I, 18 aprile 2013, n. 44324, in Ced. Cass., n. 258321.

[8] Cass., Sez. VI, 15 novembre 2007, n. 3195, cit.

[9] Cass., Sez. un., 29 novembre 2012, Aquilina, in Dir. pen. proc., 2013, pp. 1437 ss., con nota di G. Barrocu, Chiamata in correità de relato: il libero convincimento del giudice come "cavallo di Troia" per il recupero del sapere investigativo. Cfr. anche A. Cabiale, La "chiamata de relato" può avere come unico riscontro altre chiamate di analogo tenore: le Sezioni unite e l'esaltazione del libero convincimento, una excusatio (in parte) non petita, in questa Rivista, 23 maggio 2013.

[10] In merito a tale canone non possono che richiamarsi P. Ferrua, La prova nel processo penale. Volume I. Struttura e procedimento, Torino, 2015, pp. 155 ss.; M. Nobili, Il principio del libero convincimento del giudice, Milano, 1974; Id., Storie d'una illustre formula: il "libero convincimento" negli ultimi trent'anni, in Riv. it. dir. proc. pen., 2003, pp. 71 ss.

[11] Cass., Sez. un., 29 novembre 2012, Aquilina, cit., p. 1438.

[12] Cass., Sez. III, 18 luglio 2014, n. 44882, in Ced. Cass. n. 260607.

[13] Cfr., ad esempio, Cass., Sez. IV, 12 novembre 2009, Durante, in Ced. Cass., n. 245879; Cass., Sez. I, 8 maggio 2009, Manickam, ivi, n. 243801; Cass., Sez. I, 21 maggio 2008, Franzoni, ivi, n. 240763; Cass., Sez. un., 10 luglio 2002, Franzese, in Riv. it. dir. proc. pen., 2002, pp. 1133 ss.

[14] Si ricordi che anche il legislatore italiano è recentemente intervenuto sulla materia con il d.l., 18 febbraio 2015, n. 7. Sul punto cfr. F. Viganò, Pubblicato sulla Gazzetta Ufficiale il nuovo decreto legge in materia di contrasto al terrorismo, in questa Rivista, 23 febbraio 2015.

[15] V. sul punto, per tutti, A. Dershowitz, Why Terrorism works (2002), trad. it., Terrorismo, Roma, 2003; P. Paulesu, La presunzione di non colpevolezza dell'imputato, Torino, 2009, p. 96; S. Thaman, L'impatto dell'11 settembre sulla procedura penale americana, in Cass. pen., 2006, pp. 251 ss.

[16] Tale proposta, rifiutata dal primo ministro David Cameron, si può ritrovare in B. Johnson, Do nothing, and we invite the tide of terror to our front door, in www.telegraph.co.uk, 24 agosto 2014.

[17] Per varie declinazioni di tale massima cfr., L. Laudan, Truth, Error, and Criminal Law. An Essay in Legal Epistemology, Cambridge, 2006, p. 63.

[18] Cass., Sez. un., 29 novembre 2012, Aquilina, cit., p. 1438.

[19] Le diverse posizioni si ritrovano in M. Daniele, Regole di esclusione e regole di valutazione della prova, Torino, 2009, pp. 126-127.

[20] Cfr. sul punto, ad esempio, G. Barrocu, Chiamata in correità de relato, cit., p. 1452.

[21] Cfr. M. Nobili, Storie d'una illustre formula, cit., p. 72.

[22] Cfr. F. Cordero, Diatribe sul processo accusatorio, in Id., Ideologie del processo penale, Milano, 1966, p. 229-230.