ISSN 2039-1676


28 febbraio 2011 |

Cass. pen., S.U., 16.12.2010 (dep. 25.2.2011), Pres. Lupo, Rel. Fiale, ric. Pizzuto

La presentazione di false attestazioni sul reddito a fini di esenzione dal ticket sanitario, ove risulti sufficiente a conseguire la prestazione senza versamento del contributo, integra il delitto di cui all'art. 316-ter c.p.

Con la sentenza depositata il 25 febbraio scorso, le Sezioni unite sono intervenute a dirimere un contrasto che si era determinato, di recente, riguardo alla qualificazione giuridica delle ipotesi in cui un soggetto, attraverso la falsa attestazione delle condizioni di reddito necessarie allo scopo, consegue indebitamente l’esenzione dal contributo per le spese sanitarie (cd. «ticket»).
 
La legislazione di settore prevede vari casi di «esenzione dalla compartecipazione alla spesa sanitaria», che si fondano generalmente sulle condizioni di reddito dell’interessato, con possibili variazioni dei livelli di compatibilità (ad esempio, in rapporto a soggetti portatori di malattie croniche o di patologie rare). L’esenzione è disposta dalla competente autorità, almeno in via provvisoria, in base a dichiarazioni sostitutive dell’atto di notorietà, rilasciate a norma dell’art. 47 del d.P.R. 28 dicembre 2000, n. 445.
 
Com’è ovvio, colui che certifica contro il vero la disponibilità di un reddito compatibile con l’esenzione consegue indebitamente un profitto, provocando per l’Amministrazione il danno consistente alla mancata esazione del contributo al momento della prestazione sanitaria, anche se può trattarsi di una situazione provvisoria, poiché restano fermi i poteri di verifica e di eventuale riscossione successiva in capo all’ente pubblico.
 
Secondo la giurisprudenza fino ad oggi prevalente, le condotte in questione andavano qualificate nel senso della truffa aggravata in danno dello Stato (art. 640, secondo comma, numero 1, c.p.), dovendosi escludere, di contro, l’integrazione della figura aggravata speciale della truffa per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.) o del delitto previsto dall’art. 316-ter c.p., cioè la indebita percezione di erogazioni a danno dello Stato.
 
Argomento essenziale, la ritenuta inconciliabilità tra la nozione di erogazione, costruita sul trasferimento a qualunque titolo di un bene dall’ente pubblico al cittadino, ed una rinuncia alla riscossione, che certamente rappresenta un atto di disposizione patrimoniale, ma non può essere considerata, appunto, una elargizione di denaro (Cass., Sez. II, 26 giugno 2007, n. 32849, Mannarà, in Riv. pen. 2007, 1234; Cass., Sez. II, 25 febbraio 2009, n. 24817, Molonia, in C.E.D. Cass., n. 244736; Cass., Sez. II, 27 aprile 2010, n. 32578, Di Costanzo, ivi, n. 247974; per una convalida indiretta del principio si veda anche Cass., Sez. V, 9 luglio 2008, n. 38748, Nicotera, ivi, n. 242324).
 
Il quadro descritto, essenzialmente unitario, era stato incrinato da una decisione di segno opposto (Cass., Sez, V, 17 settembre 2008, n. 41383, P.m. in c. Capalbo, ivi,n. 242594). Qualche tempo prima le Sezioni unite erano intervenute sui rapporti tra l’art. 316-ter c.p. e le figure di truffa sanzionate dagli artt. 640, secondo comma, n. 1 e 640-bis c.p., stabilendo che le erogazioni cui si riferisce la prima norma non sono solo le prestazioni attuate per il sostegno ad attività economiche e produttive, ma anche quelle a carattere meramente assistenziale, giustificate da situazioni di disagio sociale e non destinate al diretto inserimento in un ciclo finanziario (Cass., Sez. un., 19 aprile 2007, n. 16568, Carchivi, in Dir. pen. processo 2007, 897).
 
Occupandosi della indebita esenzione dal ticket (mentre le Sezioni unite si erano occupate del reddito minimo di inserimento, cioè del versamento di integrazioni salariali), la Cassazione l’ha qualificata appunto come prestazione assistenziale,ed ha aggiunto: «nel concetto di erogazione rientra non solo l'ottenimento di una somma di danaro a titolo di contributo, ma anche l'esenzione dal pagamento di una somma dovuta ad enti pubblici, perché anche in tal caso il richiedente ottiene un vantaggio e beneficio economico che viene posto a carico della comunità».
 
Le Sezioni unite, con la decisione in commento, hanno avallato la soluzione minoritaria, ribadendo che la nozione di «contributo» va intesa «quale conferimento di un apporto per il raggiungimento di una finalità pubblicamente rilevante» e che, anche in base a considerazioni di carattere sistematico, «tale apporto, in una prospettiva di interpretazione coerente con la ratio della norma, non può essere limitato alle sole elargizioni di danaro».
 
Quanto poi alla qualificazione giuridica delle condotte in esame, la Corte ha ribadito e sviluppato le osservazioni già svolte (anche con la citata sentenza Carchivi) sul ruolo assorbente dell’inganno nell’economia della truffa. In tale prospettiva, gli spazi di rilevanza per la fattispecie dell’art. 316-ter c.p., nel caso della percezione indebita di erogazioni, restano confinati alle fattispecie di «mero silenzio antidoveroso» o, per altro verso, agli atteggiamenti che non inducano «effettivamente in errore l’autore della disposizione patrimoniale». In particolare, la norma «punisce condotte decettive non incluse nella fattispecie di truffa, caratterizzate (oltre che dal silenzio antidoveroso) da false dichiarazioni o dall’uso di atti o documenti falsi, ma nelle quali l’erogazione non discende da una falsa rappresentazione dei suoi presupposti da parte dell’ente pubblico erogatore, che non viene indotto in errore perché in realtà si rappresenta correttamente solo l’esistenza della formale attestazione del richiedente».
 
Insomma, per qualificare la falsa attestazione nel senso della truffa o della indebita percezione,il giudice dovrà stabilire, in via di fatto, se l’esenzione (come usualmente avviene) sia stata accordata in base alla mera constatazione dell’esistenza della autocertificazione, o piuttosto in ragione della ritenuta ricorrenza dei presupposti per l’esonero dal contributo alla spesa sanitaria. Quando ricorra il primo caso (come nella specie), l’agente risponde della fattispecie sussidiaria di cui all’art. 316-ter c.p., e non del delitto di truffa.
 
Da ultimo, le Sezioni unite hanno ribadito che «il reato di cui all’art. 316-ter assorbe quello di falso previsto dall’art. 483, in quanto l’uso o la presentazione di dichiarazioni o documenti falsi costituisce un elemento essenziale per la sua configurazione, nel senso che la falsa dichiarazione rilevante ex art. 483, ovvero l’uso di un atto falso, ne costituiscono modalità tipiche di consumazione».
 
Tale assorbimento – viene aggiunto – si verifica anche quando «la somma indebitamente percepita o non pagata dal privato, non superando la soglia minima dell’erogazione (euro 3.999,96), integri la mera violazione amministrativa di cui al secondo comma dello stesso art. 316-ter».