ISSN 2039-1676


09 novembre 2015 |

Per la Corte costituzionale è anacronistica la disciplina di favore per i reati contro il patrimonio commessi in ambito familiare

Corte cost., 5 novembre 2015, n. 223, Pres. Criscuolo, Rel. Zanon

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1. Come accade non troppo raramente, quando si discute di materie la cui disciplina richiederebbe una regolazione bilanciata che solo il legislatore può attivare, una decisione di inammissibilità "sostanziale" segna l'esordio della giurisprudenza critica della Corte costituzionale in merito ad un determinato istituto.

Si allude in questo caso alla sentenza n. 223 del 2015, che ha dichiarato appunto inammissibile una questione di legittimità mirata ad eliminare la previsione di non punibilità stabilita, al primo comma dell'art. 649 cod. pen., per i reati contro il patrimonio commessi, senza violenza personale, in danno di "stretti" congiunti (coniuge non legalmente separato; ascendente, discendente o affine in linea retta; adottante o adottato; fratello o sorella conviventi).

Una disciplina tradizionale, ancorché da lungo tempo controversa (tracce del dibattito emergono già dalla Relazione ministeriale al codice vigente) e sostanzialmente superata nei recenti progetti di riforma del codice penale. È stata spiegata in prevalenza (e pur non mancando cenni a rationes diverse) con la necessità di proteggere la istituzione familiare: indagini, processi e condanne - nel caso appunto di reati non violenti (e comunque non qualificabili come rapina, estorsione e sequestro di persona) - varrebbero a provocare, per l'unità e l'armonia del nucleo familiare, danni più gravi di quelli connessi alla condotta lesiva del diritto patrimoniale. In altre parole, pur di evitare (ulteriori) sollecitazioni potenzialmente dannose per la tenuta della famiglia - intesa come nucleo essenziale originario dell'agente, o come formazione nata dal suo matrimonio, o come gruppo risultante dalla fusione più o meno intensa dei due nuclei - il legislatore ha abbandonato l'interesse pubblico (ed anche quello patrimoniale della vittima) alla punizione del delitto.

V'è da aggiungere che, com'è noto, la disciplina presentava e presenta una sua logica di bilanciamento. Dell'esclusione dal regime di favore dei reati violenti o particolarmente gravi (terzo comma dell'art. 649 cod. pen.) già sostanzialmente si è detto. Il secondo comma dell'art. 649 - attraverso la previsione della punibilità a querela anche per fatti usualmente perseguibili di ufficio - rimette alla vittima la valutazione di opportunità dell'intervento sanzionatorio, in situazioni di integrazione meno puntuale del modello essenziale di famiglia: quella del coniuge legalmente separato e dei fratelli non conviventi; oppure quella di aggregazioni meno ricorrenti, cioè riguardo allo zio, al nipote, all'affine di secondo grado, che nel caso concreto appartengano, appunto, al medesimo e stretto nucleo familiare dell'agente.

 

2. Il caso sottoposto alla valutazione del giudice rimettente sollecitava in effetti una verifica di tenuta logica della disciplina censurata. Stando all'accusa, l'imputato - avvalendosi anche della propria condizione di funzionario di banca - avrebbe commesso ogni genere di sottrazione e frode in danno dell'ignara moglie convivente, aprendo conti ed accendendo ipoteche mediante sostituzioni di persona e firme apocrife, ed in sostanza derubando la vittima di centinaia di migliaia di euro, per poi abbandonare la casa coniugale e lasciare sul lastrico moglie e figli.

Anche senza indulgere a considerazioni sul piano morale ed umano, la soluzione dell'impunità per i delitti di truffa contestati svela facilmente l'inefficienza del fattore "unità familiare" quale bene di compensazione per la rinuncia pubblica alla punizione del (presunto) reo e per l'abbandono - almeno sul piano della tutela penale - dei diritti della vittima. Come rilevato in termini colloquiali dal giudice rimettente, in casi del genere è il delitto compiuto a minare la stabilità del nucleo, non la successiva attività di indagine e di eventuale punizione. Sul piano generale, è agevole il rilievo che le spinte sociali, culturali e giuridiche a conservare una coesione anche solo formale per la famiglia nata dal matrimonio sono molto meno efficaci che nel 1930, sia come "bene di bilanciamento" per la vittima del reato, sia come fattore di trattenimento del reo nel contesto familiare, sia infine,  e prima ancora, quale elemento di dissuasione dal compimento dei delitti in questione.

Il giudice rimettente ha colto sommariamente la crisi di obsolescenza della ratio sottesa alla disciplina di favore (che come tale deroga ad una norma altrimenti valevole per tutti i consociati), e si è impegnato nella ricerca di tertia comparationis e di parametri costituzionali ostativi. Così, la violazione del primo comma dell'art. 3 Cost. è stata prospettata in rapporto alla diversità di trattamento istituita, in modo asseritamente irragionevole, tra gli autori d'un reato contro il patrimonio, a seconda che siano o non "stretti" congiunti della vittima. Una differenza (ingiustificata) tra vittime, a seconda che l'autore del reato in loro danno sia o non uno "stretto" congiunto, è stata prospettata quale violazione del secondo comma dell'art. 3 Cost. Presumibilmente, per effetto di una qualche influenza esercitata dalle caratteristiche del caso concreto, ha operato una suggestione per la quale le vittime senza tutela, in ragione della norma censurata, sarebbero sempre "soggetti deboli", ostacolati da fattori di ordine sociale e culturale nella proiezione verso l'uguaglianza sostanziale promossa, appunto, dal secondo comma dell'art. 3 Cost. Si tratterebbe per altro d'una generalizzazione arbitraria, prima ancora che sprovvista di adeguata valenza tecnica: in una pletora di casi non privi di plausibilità, l'esenzione della pena potrebbe giovare al "soggetto debole", qualunque sia il senso conferito, nella specie, all'espressione (il coniuge privo di reddito, il coniuge di sesso femminile, il figlio minore, ecc.); se poi la "debolezza" fosse invece caratteristica attribuita in astratto alla vittima del reato in quanto tale, l'assunto, privo di qualunque apprezzabile fondamento, perderebbe anche la capacità di distinguere le situazioni poste a raffronto.

Del tutto inspiegata, infine, l'evocazione del primo comma dell'art. 24 Cost. Il giudice rimettente ha lamentato la violazione del diritto alla tutela giurisdizionale senza neppure spiegare se abbia inteso sostenere l'esistenza di una specifica garanzia all'azione in ambito penalistico o se, piuttosto, abbia ritenuto che la non punibilità del fatto in sede penale renderebbe inattuabile anche l'iniziativa, sul piano civile, per le restituzioni ed il risarcimento del danno. Nel primo caso, sarebbe smentito dalla cospicua giurisprudenza costituzionale che esclude per la vittima di un fatto illecito l'esistenza di una pretesa, costituzionalmente garantita, ad agire quale parte in un giudizio penale[1]. Nel secondo caso, sarebbe smentito dalla dottrina e dalla giurisprudenza, le quali, movendo dalla considerazione della fattispecie quale causa personale di esenzione dalla punibilità, mai hanno ipotizzato una connotazione "lecita" del comportamento conforme alla fattispecie incriminatrice, e dunque l'assenza di un diritto spendibile mediante l'azione civile[2].

 

3. La Corte costituzionale ha rilevato l'insufficienza delle indicazioni prospettate dal rimettente a fini di compiuta illustrazione delle asserite ragioni di contrasto tra la norma censurata e due dei parametri costituzionali evocati, cioè il secondo comma dell'art. 3 ed il primo comma dell'art. 24 Cost. Le ragioni sono state sostanzialmente anticipate nel paragrafo che precede. È noto che la carente prospettazione dei profili di ritenuta incompatibilità tra norma censurata e norma di rango costituzionale comporta la inammissibilità (eventualmente manifesta) della questione sollevata: la Corte non può essere chiamata ad operare una "propria" ricostruzione dei termini del raffronto, ciò che invece avverrebbe se fossero analizzate nel merito questioni proposte, per l'appunto, senza un percorso critico leggibile e ragionevolmente sviluppato in ogni parte essenziale[3].

È interessante anche, sebbene non sorprendente, che  la Corte abbia considerato ammissibile, disattendendo una specifica obiezione della Presidenza del Consiglio dei ministri, un sindacato in malam partem della disciplina penale censurata[4].

Da tempo un sindacato siffatto è considerato compatibile con il principio di legalità formale (art. 25 Cost.), che preclude alla giurisdizione costituzionale la creazione di nuove ipotesi di punibilità o comunque di modificare in peius la disciplina penale sostanziale di un determinato comportamento.

Nel caso dell'ablazione di norme penali di favore, infatti, l'effetto peggiorativo non si connette direttamente all'intervento della Corte, rappresentando piuttosto il frutto della "riespansione" della norma punitiva (o comunque pertinente al trattamento sanzionatorio), in precedenza paralizzata, per una certa categoria di persone o di fatti, proprio dalla norma in ipotesi illegittima: ciò che può dipendere appunto (come nella specie) dalla specifica funzione derogatoria di tale ultima norma rispetto all'ambito di applicazione di una o più disposizioni comuni, o addirittura da un vero e proprio rapporto di specialità, in forza del quale, rimossa la disposizione particolare, si riespande naturalmente la portata applicativa della norma generale[5].

Quanto al problema della rilevanza - com'è noto connesso al divieto di applicazione retroattiva delle disposizioni in malam partem ed ai conseguenti limiti di incidenza della decisione di illegittimità nella concreta definizione del giudizio principale - la Corte si è avvalsa[6] dei rilievi compiutamente già sviluppati nella notissima sentenza n. 148 del 1983 e poi molte volte ripresi in decisioni successive. È ovvio, per farne applicazione diretta al caso di specie, che l'eventuale accoglimento della questione non avrebbe implicato la punibilità per truffa dell'imputato nel giudizio a quo, e che tuttavia la decisione avrebbe potuto influire sul percorso motivazionale e sullo stesso dispositivo dell'emananda sentenza (centrati, in quel caso, sul primo comma dell'art. 2 e non sull'art. 649, primo comma, cod. pen.).

 

4. Ad onta del dispositivo di inammissibilità che segna l'intera decisione in commento, il percorso motivazionale della sentenza è ancora piuttosto complesso.

La Corte, in effetti, ha formulato un giudizio di sufficienza della motivazione sviluppata dal rimettente circa l'asserita violazione del primo comma dell'art. 3 Cost. Subito va aggiunto che il risultato non è dipeso dal profilo di uguaglianza formale sul quale il rimettente aveva concentrato il proprio sforzo (la comparazione cioè tra soggetti legati o non alla vittima da un rapporto di "stretta" relazione familiare). Piuttosto, si è voluto cogliere e sviluppare, muovendo dalla prospettazione dell'ordinanza, l'assunto di una violazione del principio di ragionevolezza, se non di necessaria razionalità delle norme giuridiche: un problema dunque di congruenza tra funzione giustificatrice della norma e concretezza dei suoi effetti nell'ordinamento. Ed è particolarmente interessante il fatto che la questione della ragionevolezza sia stata colta (e, in certo senso, affrontata) in una prospettiva diacronica, cioè valutando se la giustificazione originaria della disciplina derogatoria, necessaria a giustificare la difformità di trattamento tra consociati tutti responsabili di un medesimo fatto obiettivo, abbia conservato la propria efficienza alla luce di un cospicuo mutamento della situazione di fatto e del relativo complesso di norme regolatrici. In altre parole, è stato individuato un problema di anacronismo legislativo.

Il fenomeno in questione è stato più volte considerato nella giurisprudenza costituzionale[7], e studiato dalla dottrina[8].    

Nel caso di specie la Corte l'ha evocato allo scopo di evidenziare la ritenuta obsolescenza del quadro di riferimento sotteso alla disciplina censurata, ma l'ha approfondito solo nella misura necessaria e sufficiente a constatare che il riequilibrio degli interessi in conflitto richiede un profondo e prettamente "politico" esercizio di discrezionalità, che la giurisdizione costituzionale non può esprimere.

 

5. Non molto spazio è servito alla Corte per indicare la necessità della riforma.

È appena il caso di ricordare che la norma censurata sottrae alla punizione alcune categorie di persone anche a fronte di fatti gravi, e, soprattutto, anche quando sarebbe volontà della vittima che il fatto fosse perseguito anche penalmente.

Il tipo di economia familiare nel quale potevano intervenire i reati de quibus all'epoca del codice Zanardelli (e, ancora, all'epoca di approvazione del codice vigente) era ben diverso da quello odierno. Le donne erano spesso prive di reddito, gli uomini disponevano della dote della moglie e, più in generale, esercitavano una potestà ampia ed indivisa sui figli, oltre che sulla coniuge. V'era insomma - in generale - un centro unitario di interesse e di "comando", al cui cospetto i diritti altrui sembravano meritevoli di affievolimento, nella concomitante aspettativa culturale e giuridica di un matrimonio indissolubile, e di una famiglia coesa (quasi) a qualunque costo, con ampi margini di soccombenza per i diritti individuali della persona. Quella stessa posizione dominante del marito e del padre, d'altra parte, pareva probabilmente "compensativa" (cioè capace di provvedere la tutela in alternativa a quella propria dell'ordinamento) per l'ipotesi di reati commessi da familiari diversi.

Non è necessario, in questa sede, porre in specifica evidenza i processi evolutivi che hanno sovvertito il quadro normativo, e prima ancora quello sociale e culturale. La Corte ha notato tra l'altro, con un breve inciso, che il regime patrimoniale "ordinario" della famiglia, cioè la comunione dei beni, varrebbe da solo a perimetrare diversamente i casi e le occasioni per l'applicazione delle norme che presuppongono l'altruità della cosa. Nel contempo, certe forme di convivenza tipiche dell'economia passata (genitori di adulti con figli, zii, nipoti, ecc.) sono divenute molto meno frequenti, e con loro quella "comunanza di interessi" che dovrebbe legittimare, per qualche verso, il regime speciale della punibilità. Soprattutto, l'eguaglianza tra i coniugi, e la pari responsabilità di costoro verso i figli (responsabilità, appunto, più che potestà) non può che imporre un riequilibrio degli automatismi espressi dalla disciplina censurata, ed in particolare dal primo comma dell'art. 649 cod. pen.: che  la rinuncia alla punizione valga a preservare l'unità del nucleo familiare, e che comunque una tale ipotetica unità prevalga ad ogni costo sulla libera determinazione degli individui nei rapporti patrimoniali e familiari con altri individui, è giustificazione oggi non più razionale, almeno e proprio nella sua dimensione astratta ed oggettiva, per la disciplina penale di favore.

Questo ha detto la Consulta, in sintesi ma senza possibilità di equivoci, e da questo punto dovrebbe ripartire il legislatore della riforma, espressamente sollecitata.  

 

6. Con analoga evidenza, per altro, si coglie nello svolgimento della sentenza l'opinione che - anche considerata la speciale attenzione per la famiglia che l'ordinamento costituzionale continua ad esprimere (con l'art. 29 Cost., ma non solo) - non potrebbe considerarsi illegittimo qualunque regime speciale della responsabilità per delitti contro il patrimonio commessi in ambito familiare. Proprio per questo, al fondo, la questione è stata dichiarata inammissibile anche riguardo alla censura proposta ex art. 3, primo comma, Cost. Altrimenti - e salvo il tema della razionalità della disciplina di risulta sul quale si tornerà tra breve - sarebbe bastata  l'ablazione secca della norma censurata, e cioè l'eliminazione radicale della causa personale di esenzione dalla punibilità. Il campo, invece, è stato lasciato aperto sotto vari profili.

La Corte ha ricordato che vi sono varie figure "parentali" coinvolte nella disciplina derogatoria (anche nella prospettiva del secondo comma dell'art. 649), e che un profilo di riforma, quale portato di una rimeditazione "fine" del quadro di riferimento, potrebbe riguardare proprio la selezione delle relazioni familiari interessate. Un ragionamento analogo potrebbe essere condotto, in termini concomitanti e non alternativi, per la identificazione delle figure di reato cui riservare un trattamento particolare.

Sembra comunque che, sia pure in termini non formali, un rilievo preminente abbia assunto, nel ragionamento della Corte, l'eventuale rimodulazione (non alternativa, ancora una volta, a modifiche sui profili ulteriori) della disciplina della procedibilità per i reati endofamiliari a sfondo patrimoniale.

La ragione pare ovvia. Restringendosi la dimensione pubblicistica dell'interesse a non punire, la valorizzazione della volontà della vittima potrebbe costituire uno strumento utile per il bilanciamento tra interessi nei singoli casi concreti, e gioverebbe in particolare su di un piano ove la giustificazione tradizionale della norma censurata è stata espressamente contestata dal rimettente, con qualche successo: l'obiettivo di persistente coesione del nucleo familiare, qualunque possa esserne il fondamento e la portata legittimante in astratto, perde consistenza quando, nei casi concreti, ogni possibilità di coesione sia venuta meno, magari proprio in conseguenza della condotta antigiuridica. 

 

7. Della pluralità  degli sbocchi costituzionalmente compatibili, che residuano pur dopo un generale giudizio di obsolescenza della ragione giustificatrice della norma, si era reso conto lo stesso Tribunale, notando in un breve ma inequivoco passaggio della sua ordinanza che i denunciati profili di illegittimità della disciplina censurata avrebbero potuto essere superati anche con l'introduzione della perseguibilità a querela dei fatti in contestazione.

Quel passaggio, per inciso, avrebbe potuto apprezzarsi quale ragione autonoma di inammissibilità della questione, se nello stesso si fosse intravista una domanda alternativa a quella della caducazione "secca" della norma di favore, perché, com'è noto, il carattere ancipite del quesito di costituzionalità lo rende appunto inammissibile. La Corte, tuttavia, si è limitata a notare incidentalmente come il rilievo non giovasse alla coerenza  ed alla persuasività di una motivazione che avrebbe dovuto convincere, in un quadro conforme alla logica del giudizio di legittimità, che la Costituzione indicasse la rimozione della causa di non punibilità quale unica possibilità di riconduzione del sistema alla legalità costituzionale. Si è preferito piuttosto cogliere, nel riferimento del Tribunale, la "conferma" della estrema complessità della ponderazione utile e necessaria per una riforma costituzionalmente compatibile della materia.

Che poi la richiesta ablazione fosse tutt'altro che ineluttabile resta dimostrato anche dalla evidente irrazionalità della disciplina di risulta cui la Corte avrebbe dato vita accogliendo la domanda così come era stata proposta: i reati commessi dai congiunti "stretti" sarebbero stati assoggettati alla disciplina ordinaria, mentre - restando in vita il secondo comma dell'art. 649 cod. pen. - le persone in relazione familiare meno stretta con la vittima del reato avrebbero continuato a godere della pur parziale protezione rappresentata dalla perseguibilità a querela dei reati usualmente suscettibili di procedura officiosa.

 


[1] Tra le molte, si vedano le sentenze n. 23  del 2015, n. 168 del 2006, n. 75 del 2001.

[2] In termini specificamente contrari, Cass. civ., Sez.  3, Sentenza n.  532 del 27/01/1986, in C.E.D. Cass., n. 444128, ed in Giust. civ. 1987, p. 1248. Analogamente, in dottrina, si veda ad esempio Petrignani Gelosi, A., Sub art. 649 c.p., in Cadoppi, A. - Canestrari, S. - Manna, A. -  Papa, A., Trattato di diritto penale, Torino, 2011, v. Delitti contro il patrimonio, p. 905.

[3] Tra le molte, si vedano le sentenze n. 326 del 2008, n. 168 del 2008, n. 38 del 2007, nonché le ordinanze n. 16 del 2014 e n. 175 del 2009.

[4] Da notare che il Tribunale rimettente non ha neppure compiuto un cenno alla (pur vistosa) questione. La Corte sembra avere escluso, quindi, che i doveri motivazionali del giudice rimettente, i quali pure si estendono a profili rilevanti sul piano dell'ammissibilità (ad esempio, in punto di rilevanza, di non praticabilità dell'interpretazione costituzionalmente orientata, ecc.), investano il tema della compatibilità tra l'intervento richiesto alla medesima Corte ed il complesso delle norme che ne regolano i poteri.

[5] Si legge in una delle principali decisioni sull'argomento, la sentenza n. 394 del 2006 in materia di cd. "falsi elettorali", che : "il principio di legalità non preclude lo scrutinio di costituzionalità, anche in malam partem, delle c.d. norme penali di favore: ossia delle norme che stabiliscano, per determinati soggetti o ipotesi, un trattamento penalistico più favorevole di quello che risulterebbe dall'applicazione di norme generali o comuni". Sulla ammissibilità del sindacato di merito riguardo alle norme penali di favore la giurisprudenza è in realtà più cospicua e risalente di quanto talvolta non si ponga in evidenza. In questa sede, per altro, è possibile solo una citazione dei provvedimenti che, a vario titolo, hanno investito il tema: le sentenze n. 5 del 2014, n. 273 del 2010, n. 28 del 2010, n. 57 del 2009, n. 324 del 2008, n. 394 del 2006 (già citata), n. 161 del 2004, n. 89 del 1996, n. 25 del 1994, n. 194 del 1993, n. 167 del 1993, n. 124 del 1990, n. 826 del 1988, n. 321 del 1983, n. 148 del 1983, n. 22 del 1975, n. 155  del 1973. Si vedano anche le ordinanze n. 103 del 2009, n. 3 del 2009, n. 413 del 2008, n. 164 del 2007. Rileva anche la produzione giurisprudenziale concernente il controllo sulla legittimità della procedura di produzione della norma di favore: sentenze n. 46 del 2014, n. 5 del 2014, n. 51 del 1985.

[6] Nel perdurante silenzio del Tribunale rimettente.

[7] In questa sede può solo compiersi un rinvio esemplificativo alle sentenze n. 231  del 2013, n. 354 del 2002, n. 508 del 2000, n. 41 del 1999, n. 254 del 1994.

[8] Cerri, A., Eterogenesi dei fini, anacronismo legislativo, limiti del giudicato costituzionale. Riflessioni a proposito della caduta del vincolo alberghiero, in Le Regioni 1981, p. 733 ss.; D'ambrosio, M., L'anacronismo legislativo nella giurisprudenza della Corte costituzionale, in Femia, P. (a cura di), Interpretazione a fini applicativi e legittimità costituzionale, in Napoli, 2006, p. 309 ss.; Lisena, F., Gesti anticostituzionali e anacronismi legislativi: il divieto del c.d. saluto romano, in www.osservatorioaic.it, 2014; Longo, A., I simboli (del Fascismo) e il tempo (della Costituzione): pochi spunti suggeriti dalla sentenza della Corte di Cassazione n. 37577 del 2014, in www.osservatorioaic.it, 2014; Modugno, F., La ragionevolezza nella giustizia costituzionale, Napoli, 2007, p. 30; Morrone, A., Il custode della ragionevolezza, Milano, 2001, p. 251; Scaccia, G., Gli "strumenti" della ragionevolezza nel giudizio costituzionale, Milano, 2000, p. 249 ss.; Spagna Musso, E., Norma anacronistica e norma costituzionalmente illegittima, in Foro it. 1973, I, c. 2713 ss.; Turturro, A., Su di un anacronismo legislativo accertato ma non dichiarato (e superato tramite una interpretazione conforme contra litteram legis, in Giur. cost. 2014, p. 1215 ss.