9 maggio 2016 |
Esigenze di effettività e funzione preventiva condizionano (sempre in positivo?) l'applicazione del d.lgs.231/2001: a proposito del profitto di rilevante entità e delle condotte riparatorie nelle dinamiche applicative delle misure interdittive
Cass., Sez. II, 9 febbraio 2016 (dep. 17 marzo 2016), n. 11209, Pres. Diotallevi, Rel. Ariolli, ric. P.M. Pistoia
1. Con la sentenza che si annota, la Suprema Corte si è pronunciata per la quinta volta consecutiva sulla legittimità delle decisioni assunte nei confronti della società ricorrente, raggiunta dall'applicazione, in via cautelare, della misura interdittiva del divieto di contrattare con la pubblica amministrazione. Dopo l'adozione della cautela, infatti, si sono innescati due distinti "filoni" processuali, riguardanti, rispettivamente, l'ordinanza "genetica" della stessa (nei cui confronti la società aveva lamentato, prima in sede d'appello e poi innanzi alla Corte di Cassazione, il difetto dei presupposti che ne consentivano l'applicazione e, comunque, la mancanza di idonea motivazione al riguardo da parte del g.i.p.) ed il provvedimento di ripristino della misura a fronte della scadenza (che il g.i.p. aveva ritenuto) infruttuosa del termine assegnato, ex art. 49 d.lgs.231/2001, per la realizzazione delle condotte "riparatorie" di cui all'art. 17 d.lgs. 231/2001.
Al culmine (quantomeno provvisorio) di questo tortuoso iter processuale, la Corte di cassazione è stata chiamata a pronunciarsi sul ricorso proposto dal pubblico ministero contro l'ordinanza con cui, da ultimo, il Tribunale di Pistoia, pronunciandosi (per la terza volta) quale giudice del rinvio, aveva: (a) revocato l'ordinanza applicativa della misura, ritenendo insussistente il requisito del profitto rilevante entità, a tal fine richiesto dall'art. 13, lett. a), d.lgs. 231/2001; (b) annullato l'ordinanza con cui era stata ripristinata la misura a fronte del ritenuto inadempimento delle condotte previste dall'art. 17 d.lgs. 231/2001; (c) dichiarato il venir meno delle esigenze cautelari di cui all'art. 45 d.lgs. 231/2001, non considerando più attuale il pericolo di reiterazione dell'illecito contestato.
Nel "tirare le fila" delle varie decisioni che l'hanno preceduta, la sentenza affronta alcuni aspetti "nevralgici" della disciplina del d.lgs. 231/2001 in tema di misure cautelari, offrendo soluzioni che certamente saranno assunte a punto di riferimento per i futuri interventi applicativi, ma che appaiono sin d'ora idonee a richiamare l'attenzione sui nodi ancora irrisolti della materia in esame.
In particolare, limitando l'attenzione agli argomenti di diritto "sostanziale", destano interesse le conclusioni raggiunte a proposito dei presupposti di applicabilità delle misure cautelari interdittive e, nello specifico, circa l'interpretazione della nozione di "profitto di rilevante entità", richiamato dall'art. 13, lett. a), d.lgs. 231/2001; nonché quelle relative ai criteri di valutazione del corretto adempimento delle condotte riparatorie descritte dall'art. 17 d.lgs. 231/2001.
2. Anzitutto, la Suprema Corte affronta il tema, tutt'altro che agevole, relativo alla definizione della nozione di profitto rilevante, cui è subordinata (in alternativa alla reiterazione di illeciti) l'applicazione delle sanzioni interdittive (art. 13, cit.).
Sul punto, è interessante osservare come il Tribunale del riesame, disattendendo l'indicazione già fornita con le precedenti sentenze di annullamento con rinvio, aveva ricostruito (e, nello specifico, negato) tale requisito focalizzando l'attenzione essenzialmente sul profitto netto conseguito dalla società per effetto della commissione degli illeciti in fase di accertamento. Il contrasto in tal modo generatosi tra giudice del rinvio e la Suprema Corte (che si era già pronunciata sul caso specifico con la sentenza n. 51151, del 3/12/2013) parrebbe riflettere quello che notoriamente contrappone le soluzioni formatesi in merito all'individuazione del profitto confiscabile, ex art. 19 d.lgs. 231/2001. È noto, infatti, che al riguardo si registrano due differenti correnti di pensiero: l'una attribuisce rilevanza alla nozione "aziendalistica" di profitto, inteso come utile netto, e l'altra tesa ad evidenziare la necessità di far riferimento al diverso e ben più comprensivo concetto di profitto lordo. Su tale contrasto è intervenuta Cass. pen. Sez. Un. n. 266454/2008, che aderendo, in linea di principio, a quest'ultima impostazione, ha tuttavia evidenziato l'opportunità di far riferimento alla prima (solo) nei casi riconducibili al paradigma del "reato nel contratto", rispetto al quale l'illecito caratterizza solo un "momento" del fatto storico, normalmente quello genetico, mentre, per il resto, l'esecuzione del contratto è, di per sé, suscettibile di produrre un risultato meritevole di positivo apprezzamento da parte dell'ordinamento.
Per vero, l'approdo interpretativo cui perviene la Suprema Corte non pare, di per sé, automaticamente trasponibile sul terreno della confisca (art. 19, cit.), giacché le conclusioni raggiunte con la sentenza in esame (e, giocoforza, anche quelle già "abbozzate" con la sentenza n. 51151/2013, espressamente additata quale punto di partenza per le argomentazioni illustrate in questa occasione) paiono funzionali (non solo e non tanto a fornire una nozione di profitto generalmente valida nell'ambito del decreto, bensì) esclusivamente a chiarire quando il profitto possa dirsi rilevante ai fini dell'art. 13.
In questo senso, la Corte, richiamando i suoi precedenti insegnamenti (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 23/06/2006,n. 32627), e, soprattutto, un obiter dictum contenuto nella già citata Cass. Sez. Un. 26654/2008 (testualmente ripreso dalla sentenza in esame), afferma che tale ultima disposizione «evoca un concetto di profitto "dinamico" che è rapportato alla natura ed al volume dell'attività d'impresa e comprende vantaggi economici anche non immediati, ma per così dire, di prospettiva, in relazione alla posizione di privilegio che l'ente collettivo può acquistare sul mercato in conseguenza delle condotte illecite poste in essere dai suoi organi apicali o da persone sottoposte alla direzione o vigilanza di questi».
Nell'ottica della Corte, il profitto, così inteso, consentirebbe di «valutare in tutta la sua portata il disvalore del reato e dell'illecito amministrativo», in grado di giustificare l'applicazione della più severa delle sanzioni previste dal d.lgs. 231/2001.
L'evidente indeterminatezza di un simile modo d'intendere una nozione tanto cruciale nella dinamica punitiva dell'ente, troverebbe adeguata compensazione nella necessità di ancorarne l'interpretazione «ad un giudizio di tipo quantitativo e a contenuto "economico-patrimoniale"», sulla falsariga delle acquisizioni maturate a proposito dell'art. 61, n. 7, c.p.
Nell'esemplificare i criteri di giudizio cui sarebbe possibile riferirsi per conferire concretezza a questa indicazione esegetica, la Corte ricorda: «a) gli ulteriori lavori direttamente acquisiti dall'impresa in occasione della pregressa aggiudicazione illecita»; «b) l'assunzione dei requisiti per la qualificazione dell'impresa ai fini della partecipazione a gare di affidamento di lavori pubblici (c.d. attestazione SOA)»; «c) l'incremento del merito di credito dell'impresa presso gli istituti bancari e/o finanziari»; «d) l'aumento del potere contrattuale nei confronti dei fornitori e subappaltatori»; «e) l'ottimizzazione dell'utilizzo delle risorse aziendali»; «f) un maggiore accesso ad appalti, concorrendo in proprio, o acquisendo, in virtù delle aggiudicazioni illecite, una specializzazione di settore o attestazioni di lavori eseguiti anche ai fini di ipotesi consorziali».
Il dato comune di tali indici sintomatici sarebbe costituito dal loro essere «elementi espressivi di utilità economiche che causalmente ed ordinariamente sono ricollegabili all'aggiudicazione illecita, idonei a configurare il profitto di rilevante entità che l'impresa ha tratto dal reato». In particolare, gli stessi, allontanandosi da una nozione meramente contabile del profitto (che la Corte giudica "riduttiva" e contrastante con gli obbiettivi di tutela affidati all'art. 13 d.lgs. 231/2001), sarebbero in grado di cogliere la ratio sottesa al riferimento al requisito della rilevanza, considerata funzionale non solo a tutelare l'ente da «aggressioni eccessive», ma anche ad «impedire che movimentazioni di denaro o spostamenti di ricchezza siano tali da ledere la par condicio che deve esistere nel mercato, alterata in modo significativo da condotte riprovevoli ascrivibili a specifiche figure di reato, quale, in primis quella corruttiva» [§§ 2.1 e 2.2 della motivazione della sentenza].
Si tratta di un'impostazione indubbiamente innovativa ed interessante, non solo per quanto concerne l'individuazione della ratio sottesa all'art. 13 d.lgs. 231/2001, ma, soprattutto, perché fornisce un'indicazione di metodo (astrattamente verificabile anche sul terreno della determinatezza) per darvi attuazione.
A destare perplessità, peraltro, è la possibilità di affidare all'aggettivo «rilevante» il compito di superare (fino a stravolgerlo) il concetto di profitto, altrimenti ricostruito su basi schiettamente economiche nel (pur diverso) contesto dell'art. 19 d.lgs. 231/2001, pur se nelle differenti accezioni sopra ricordate. Al riguardo, sebbene valorizzando il nesso causale che deve essere ravvisato tra gli indici selezionati dalla Corte e la realizzazione dell'illecito, pare evidente come taluni di essi (ed in particolare quelli elencati dalla lettera "c" alla lettera "f") introducano nell'oggetto del giudizio realtà di per sé non immediatamente traducibili (o, comunque, non su basi ponderali, né, ancor meno, secondo schemi causali affidabili) in termini economici.
Del resto, il fatto che, in tal modo, si abbandoni la visione schiettamente "economica" ed oggettivamente valutabile, di profitto per approdare sul terreno (differente) delle "conseguenze vantaggiose", in termini di "opportunità" a vario titolo acquisite in conseguenza dell'illecito, è testimoniato proprio dal richiamo effettuato dalla sentenza all'insegnamento delle Sezioni Unite, secondo cui, si è visto, in tale nozione debbono essere ricompresi anche i vantaggi non immediati, «di prospettiva», acquisibili dall'ente.
Rispetto a questa conclusione, tralasciando ogni giudizio assiologico o politico-criminale, ciò che merita attenta riflessione è la presa d'atto che la stessa introduce nel medesimo corpus normativo due differenti nozioni di profitto (una strumentale all'operatività della confisca, necessariamente incentrata su dati economicamente valutabili in via immediata, e l'altra funzionale all'applicazione delle sanzioni interdittive, ma forse, più in generale, riferibile a tutte quelle situazioni in cui il decreto attribuisce al profitto il compito di fungere da metro di misura della risposta sanzionatoria), in assenza di qualsivoglia indicazione legislativa che ne autorizzi la praticabilità.
Né, invero, pare possibile ritenere che a tale conclusione si possa pervenire valorizzando (esclusivamente) la circostanza che, in questo caso, il profitto sia affiancato dall'aggettivo rilevante, giacché quest'ultimo (così come il suo contrario, irrilevante) pare unicamente funzionale a porre in risalto il dato ponderale dell'entità oggetto d'indagine, di per sé inidoneo a mutarne la sostanza.
Né, del resto, appare sufficientemente tranquillante, in quest'ottica, la (pur indispensabile) richiesta - evidenziata dalla sentenza in commento - che anche tali ulteriori effetti, da accertarsi "in prospettiva", si pongano in rapporto causale con l'illecito contestato all'ente: trattandosi di un accertamento che pretende di individuare il collegamento eziologico tra due termini tra loro non (o, meglio, non ancora) collegati (l'illecito e gli effetti che ne deriveranno a vantaggio dell'ente), lo stesso non potrà che essere fondato su basi ipotetiche ed affidato a massime di esperienza prive di validazione empirica. Con buona pace del canone di determinatezza che, in tal modo, si vorrebbe assicurare per bilanciare l'indeterminatezza intrinseca del requisito in esame a cui - non lo si dimentichi - è affidato il compito di selezionare le ipotesi meritevoli della più severa risposta sanzionatoria prevista per l'ente.
3. Particolarmente interessante, anche per il valore euristico che lo caratterizza, è il punto della decisione con cui si è esclusa l'idoneità delle condotte poste in essere dall'ente per beneficiare della revoca della misura cautelare (artt. 17 e 49 d.lgs.231/2001). In estrema sintesi, la Suprema Corte ha considerato a tal fine insufficienti sia la costituzione di un trust finalizzato a risarcire gli enti pubblici danneggiati dai reati di corruzione contestati; sia la costituzione di un fondo destinato a coprire il profitto destinato alla confisca; sia, infine, l'adozione del modello organizzativo in assenza di un effettivo "sganciamento" del nuovo organo amministrativo dagli autori dei reati "a monte".
Rispetto a tali requisiti, invero, la Corte ricorda come il sistema punitivo della responsabilità da reato degli enti assuma, «pena l'inefficacia, un carattere prettamente preventivo, volto a configurare sanzioni e misure cautelari per prevenire la commissione dei reati attraverso la strutturazione regolativa dell'organizzazione capace di controllare, da sé, se stessa». Sicché le disposizioni in esame debbono essere interpretate «con il massimo rigore per poter perseguire la massima efficacia» [§ 5.1].
Ebbene, su questi presupposti, da un lato, si è sottolineata la necessità che il risarcimento sia effettivamente consegnato alla persona offesa, o, quantomeno, sia stato avviato un reale confronto con quest'ultima, evidenziando come tale modus operandi sia del tutto incompatibile tanto con la costituzione di un trust funzionale a gestire i risarcimenti di cui trattasi (tanto più se lo stesso sia destinato ad operare solo in seguito alla sentenza di condanna), quanto con le offerte di risarcimento unilateralmente rivolte dalla società alla persona offesa; dall'altro, si è richiamata l'attenzione alla necessità che la valutazione dell'idoneità e dell'efficacia del modello organizzativo adottato in adempimento alle indicazioni dell'art. 17 d.lgs. 231/2001 sia effettuata (ai fini della revoca della misura, ex art. 49 d.lgs. 231/2001) tenendo conto anche delle «contromisure idonee a "depotenziare" la serie intricata di cointeressenze» tra la vecchia e la nuova gestione e a prevenirne l'eventuale continuazione degli stili gestionali tipici della prima.
In tal modo, invero, si tocca il cuore dell'intero impianto normativo del d.lgs. 231/2001: siccome la sua cogenza si attualizza di fronte ad un ente che si è concretamente rivelato incapace di impedire le spinte criminose che lo hanno percorso, la possibilità di paralizzare la più severa delle sanzioni dallo stesso stabilita (quella interdittiva, appunto) presuppone la realizzazione di una condotta riparatoria di valore quantomeno pari all'offesa che s'intende punire. L'ente, dunque, per meritare un beneficio così rilevante, deve dimostrare, in concreto e non solo in potenza, di essere finalmente in grado di contrastare l'illecito, mediante una riorganizzazione interna efficace ed effettiva, e di aver concretamente preso le distanze dalla gestione precedente (per mezzo delle condotte riparative in senso stretto).
A tal riguardo, dunque, appare del tutto sottoscrivibile la necessità che, sul punto, il giudizio sia intransigente, giacché, altrimenti, il sistema introdotto dal d.lgs. 231/2001 viene messo seriamente in crisi proprio sul terreno che maggiormente lo caratterizza: quello della prevenzione.
In quest'ottica, del resto, risulta evidente - pur se non apertamente dichiarato - il collegamento sottile che lega l'art. 49 e l'art. 45 del d.lgs. 231/2001: l'attuazione delle condotte riparatorie (se rettamente intese) rappresenta un serio indizio (se non una prova) del venir meno del pericolo di recidiva da cui l'art. 45 fa derivare la possibile applicazione, in via cautelare, delle misure interdittive.
L'adesione alle istanze definite dall'art. 17, infatti, consente di concludere in senso favorevole all'ente il giudizio prognostico sotteso all'art. 45, giacché testimonia la rescissione del collegamento tra l'assetto attuale dell'ente e la politica d'impresa dal medesimo attuata negli anni e gli eventuali illeciti commessi in precedenza, in cui si sostanzia la sua (pregressa) "personalità", che la Corte condivisibilmente pone a fondamento delle valutazioni imposte dall'art. 45 cit.