ISSN 2039-1676


19 dicembre 2016 |

La tutela penale del segreto ministeriale delle confessioni religiose prive d’intesa

Nota a Trib. Teramo, sent. 16 dicembre 2015 (dep. 7 marzo 2016) n. 2436, Giud. Tetto

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1. Con la sentenza n. 2436 del 2015 (estensore Tetto), il Tribunale di Teramo affronta un tema poco frequentato dalla giurisprudenza penale, relativo ai presupposti e limiti in base ai quali il c.d. segreto ministeriale (art. 200, I comma lett. a) c.p.p.) può essere invocato da un esponente di un culto acattolico, per giunta sprovvisto di un’efficace intesa con lo Stato[1]. E lo fa compiendo un’approfondita riflessione sulla nozione di «ministro di culto», che gli permette di proporre un’interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 200 c.p., valida a garantire la tutela della libertà religiosa delle diverse confessioni anche nel processo penale, a prescindere dalla natura giuridica dei rapporti intercorrenti con il nostro ordinamento[2].

 

2. La pronuncia del Tribunale di Teramo prende le mosse dalla richiesta di condanna per falsa testimonianza, sub specie di reticenza (art. 372 c.p.)[3], avanzata dalla pubblica accusa nei confronti di un c.d. «anziano» della Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova di Castelnuovo, perché nonostante i reiterati ammonimenti rivoltigli dal giudice ai sensi dell’art. 207 c.p.p., consapevolmente ometteva di riferire fatti e circostanze di cui era venuto direttamente a conoscenza, relativi a un violento litigio occorso tra due fedeli della medesima comunità.

 

3. Prima di scendere in medias res con l’analisi dell’art. 200 c.p.p., il Tribunale sceglie correttamente di soffermarsi sulla sua condizione soggettiva di applicabilità, ossia la nozione di ministro di culto[4], al fine di verificarne la riferibilità anche agli «anziani» o «presbiteri», soci effettivi della Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova che svolgono funzioni ministeriali e pastorali secondo quanto previsto dalle norme statutarie[5].

Come noto, questo concetto è di origine statale e non confessionale. Nasce, cioè, da un’esigenza dell’ordinamento giuridico nazionale, il quale attraverso questa categoria «artefatta» mira a garantire a tutti i diversi esponenti della c.d. leadership religiosa «l’eguale libertà […] davanti alla legge»[6].

Ciò appare chiaro anche dal sintetico excursus compiuto dal giudice teramano sugli ordinamenti di alcune delle esperienze religiose monoteiste presenti sul nostro territorio. Dall’analisi dei loro statuti, infatti, appare impossibile rintracciare «un minimo comune denominatore, che consenta una determinazione “astratta” del ministro di culto»[7].

Lo Stato, dunque, non può che rinviare «alle norme delle singole confessioni religiose per individuare chi, nel caso concreto rivesta tale qualifica»[8].

D’altra parte, osserva il Tribunale, una simile conclusione appare coerente con il quadro costituzionale, che valuta i culti acattolici[9] come veri e propri ordini autonomi e indipendenti, distinti da quello statuale, e dotati perciò di piena libertà organizzativa[10].

3.1. Per identificare chi siano effettivamente i ministri di culto della Congregazione Cristiana dei Testimoni di Geova, perciò, ci si dovrà rifare allo Statuto. In particolare, al suo art. 6, il quale inequivocabilmente ricomprende tra questi gli «anziani (o presbiteri)».

A tal proposito, non trovando ancora applicazione l’intesa stipulata nel 2007, si potrebbe sostenere che il membro qualificato come «anziano» dalla Congregazione, e tuttavia sprovvisto dell’«approvazione» del Ministro dell’Interno[11] richiesta dall’art. 3 della legge sui culti ammessi, non possa fruire del privilegio del segreto[12].

Questa posizione ermeneutica è espressamente rigettata dal giudice di prime cure, per vero in modo piuttosto laconico[13].

A favore della tesi negativa gioca anzitutto un argomento sistematico: il II comma dell’art. 3 precisa infatti che «nessun effetto civile può essere riconosciuto agli atti del proprio ministero compiuti da tali ministri di culto, se la loro nomina non abbia ottenuto l'approvazione governativa». Lo statuto penale del ministro di culto, quindi, pare fuori dall’orizzonte dell’art. 3 (ubi lex voluit ibi dixit). Inoltre, si potrebbe richiamare a sostegno anche la c.d. concezione funzionale della qualifica normativa, largamente adoperata dalla giurisprudenza in materia di reati propri[14], e volta a esaltare il momento oggettivo dell’esplicazione delle attribuzioni connesse alla carica, più che quello formale relativo agli atti e alle procedure di investitura nella medesima[15] .

 

4. Risolta la problematica connessa alla parametrazione in astratto, e all’individuazione in concreto, della figura del Ministro di culto, il Tribunale si concentra sull’analisi strutturale dell’art. 200 c.p.p., recante la disciplina del segreto professionale[16]: «Non possono essere obbligati a deporre su quanto hanno conosciuto per ragione del proprio ministero […]: a) i ministri di confessioni religiose, i cui statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano; […] Il giudice, se ha motivo di dubitare che la dichiarazione resa da tali persone per esimersi dal deporre sia infondata, provvede agli accertamenti necessari. Se risulta infondata, ordina che il testimone deponga».

4.1. In chiave introduttiva, è necessario premettere che la norma, nel riconoscere ai c.d. professionisti qualificati la facoltà di non deporre su fatti riservati, elide per questi la «giusta causa» processuale valida a rendere non punibile la condotta di rivelazione di segreti in giudizio (art. 622 c.p.). Dal combinato disposto dalle due norme, perciò, si desume che i ministri hanno un vero e proprio «potere-dovere di rifiutarsi di rispondere alla singola domanda che li induca a narrare un fatto segreto»[17].

4.2. Il giudice teramano evidenzia immediatamente la funzione ancipite dell’art. 200 c.p.p., il quale si presta a salvaguardare tanto l’attività del Ministro, quanto il fedele (il quale può rivolgersi con maggiore serenità all’ecclesiastico, potendo ragionevolmente confidare nella sua riservatezza). In questo senso, è patente la strumentalità della norma verso la tutela dell’«esercizio del diritto di libertà religiosa, qualificato dall’espletamento del ministero religioso»[18].

4.3. La disposizione processualpenalistica fonda infatti la sua ratio essendi proprio sul nesso strumentale tra attività ministeriale e fatto appreso. Non basta, invero, che il testimone chiamato a deporre possegga una delle qualifiche richiamate dall’art. 200 c.p.p. Piuttosto, è necessario verificare che l’accadimento, la notizia, sia stata appresa «in diretta e immediata connessione»[19] allo svolgimento dell’attività professionale.

È per tale ragione che il secondo comma dell’articolo in commento prevede che il giudice possa «provvedere agli accertamenti necessari» qualora ritenga infondata la richiesta di esenzione dalla deposizione: costoro infatti, pur formalmente dotati di una delle posizioni elencate dalla norma, potrebbero aver appreso privatamente dei fatti sui quali invocano il riserbo. Senza questa disposizione, perciò, il decidente si troverebbe sprovvisto di strumenti per assicurarsi che le «esigenze della giustizia penale»[20] non siano indebitamente compresse da utilizzi abusivi del privilegio del segreto.

4.4. Il legislatore, inoltre, introduce un secondo limite all’esercizio della facoltà di cui all’art. 200 c.p.p. In particolare, nel caso del ministro di culto, si prevede che egli possa esercitare il potere-dovere di non testimoniare soltanto ove appartenga ad una delle «confessioni» i cui «statuti non contrastino con l'ordinamento giuridico italiano».

La proposizione non è tra le più perspicue, anche «perché non è facile determinare quali siano le confessioni religiose in parola»[21]. Nondimeno, sulla scorta di un’interpretazione consapevolmente armonica con l’afflato espansivo ed egualitario delle norme costituzionali in materia di libertà religiosa, il giudice teramano afferma con ragione che l’inciso non possa essere interpretato nel senso di limitare l’applicazione dell’art. 200 c.p.p. alle sole confessioni che abbiano stipulato un’intesa con lo Stato. Invero, si potrebbe sostenere l’esatto contrario: le confessioni che hanno visto recepire con legge il proprio accordo, infatti, dispongono sovente di forme di tutela ad hoc e rafforzate[22], costituenti lex specialis  rispetto alla disposizione processualpenalistica[23].

 

5. La puntuale ricostruzione del quadro normativo operata dal Tribunale, ricca peraltro di riferimenti dottrinali, consente al decidente di aderire alle richieste della difesa, assolvendo l’imputato dal delitto di falsa testimonianza. Il teste, difatti, in quanto «anziano», deve certamente ritenersi «ministro di culto» ai sensi della legge penale, ed avendo appreso dei fatti oggetto di deposizione nello corso della sua attività di cura delle anime, è indubbiamente legittimato ad avvalersi della facoltà di cui all’art. 200, I comma lett. a) c.p.p.

 

6. Con questo precedente, il Tribunale di Teramo segna perciò una pagina importante per la tutela della libertà religiosa, fornendo agli interpreti un’importante massima di decisione[24] dalla quale ripartire per affrontare casi analoghi.

 

 

[1] Il caso di specie riguarda infatti i c.d. Testimoni di Geova, movimento fondato da Charles Taze Russell nel 1870 in Pennsylvania, i quali non hanno ancora visto recepita dalla legge l’intesa siglata con il Governo dalla loro Congregazione italiana il 20 marzo del 2000, e rinnovata con un nuovo testo il 4 aprile del 2007 (consultabile qui).

[2] Come noto, infatti, le relazioni tra Stato e singolo ordine religioso possono essere regolate da accordi aventi valore peculiare (c.d. «concordato», previsto dalla Costituzione per la disciplina dei rapporti intercorrenti con la sola Chiesa Cattolica), da «intese» che devono essere recepite con legge formale dal Parlamento, oppure dalla l. n. 1159 del 1929 sui c.d. culti ammessi nello Stato, per le confessioni con cui non è ancora stata avviata, o comunque perfezionata, la procedura di stipula e ratifica dell’intesa.

[3] Per una puntuale analisi del delitto in commento v. tra tutti A. Balsamo, Falsa testimonianza, in Codice penale: rassegna di giurisprudenza e di dottrina (a cura di G. Lattanzi ed E. Lupo), Milano 2005, p. 164 ss.; G. Fiandaca ed E. Musco, Diritto penale (parte speciale), vol. I, tomo II, Bologna 2012, p. 381 ss. Per un’ampia ricognizione critica del ruolo del falso e dell’inganno nel sistema penale italiano, v. T. Padovani, Giustizia criminale, vol. 4., Menzogna e diritto penale, Pisa 2014.

[4] Per approfondimenti v., ex multis, A. Licastro, I ministri di culto nell’ordinamento giuridico italiano, Milano 2005.

[5] Lo statuto, approvato con DPR. n. 783 del 31.10.1986, può essere consultato qui.

[6] Cfr. C. cost., sent. n. 327 del 2002. Sul punto si veda A. C. Jemolo, Lezioni di diritto ecclesiastico, Milano 1975, p. 227.

[7] Cfr. Trib. Teramo, sent. n. 2436 del 2015.

[8] P. Consorti, Diritto e religione, Bari 2010, p. 146.

[9] Come noto, la Chiesa Cattolica gode di garanzie particolarmente rafforzate (art. 7 Cost.), anche in ragione dell’esistenza di un’enclave sottoposta alla sua diretta sovranità temporale (lo Stato della Città del Vaticano). Per approfondimenti v. A. C. Jemolo, Chiesa e Stato in Italia. Dall’unificazione ai giorni nostri, Torino 1978.

[10] Questo diritto, tuttavia, è garantito nelle sole ipotesi in cui non si riscontri una violazione dell’«ordinamento giuridico italiano» (art. 8, II c. Cost.). Onde evitare un’incongrua interpretazione statolatria, tesa a negare surrettiziamente quell’autonomia organizzativa riconosciuta nella disposizione immediatamente antecedente, la Consulta ha chiarito che il lasco inciso de quo deve intendersi riferito «solo ai principi fondamentali dell’ordinamento e non anche a specifiche limitazioni poste da particolari disposizioni normative» (cfr. C. cost., sent. n. 43 del 1988).

[11] Istituto inizialmente previsto per scopi politici di «polizia ecclesiastica» (v. Relazione del Guardasigilli alla Camera, 1929), e che nondimeno «appare ancor oggi pienamente ammissibile non già naturalmente al fine di fornire all’autorità governativa il mezzo per ostacolare o comunque controllare, in notevole misura, l’attività dei ministri di culto acattolico, bensì soltanto per stabilire il requisito cui è subordinato il godimento da parte dei medesimi ministri di determinate prerogative» (cfr. T. Mauro, Considerazioni sulla posizione dei ministri dei culti acattolici nel diritto vigente, in Studi in onore di Vincenzo Del Giudice, Milano 1953, II, p. 176).

[12] In senso conforme v. F. Del Giudice, Manuale di diritto ecclesiastico, Napoli 2015, p. 197.

[13] Ci si limita infatti ad affermare che la «approvazione governativa della nomina dei ministri di culto, [è] attualmente ancora prevista […] ai limitati fini del riconoscimento degli effetti civili agli atti compiuti dai soggetti in questione» (Trib. Teramo, sent. n. 2436 del 2015).

[14] V., tra le tante, Cass. n. 12175 del 2005 in materia di reati dei pubblici ufficiali contro la P.a.; Cass. n. 1154 del 1991 e Cass. n. 7044 del 2009 in materia di bancarotta fraudolenta; Cass. n. 2445 del 1985 in materia di reati previsti per l’omessa collocazione di misure anti-infortunistiche.

[15] Una tendenza peraltro sposata pure dal legislatore negli interventi di riforma più recenti: si veda ad esempio l’art. 299 del d.lgs. n. 81 del 2008, il nuovo testo dell’art. 2639 c.c., oppure l’art. 5, I comma, lett. a) del d.lgs. n. 231 del 2001.

[16] Per un’analisi più approfondita, v. tra i tanti A. Licastro, Indagini giudiziarie e ministero pastorale, in Diritto ecclesiastico, 1989, p. 517 ss.

[17] Cfr. P. Tonini, Manuale di procedura penale, Milano 2012, p. 288.

[18] Cfr. Trib. Teramo, sent. n. 2436 del 2015.

[19] Cfr. Trib. Teramo, sent. n. 2436 del 2015.

[20] Considerate «principio supremo» dalla Consulta, poiché rappresentano un «valore primario sul quale si fonda ogni ordinamento ispirato al principio di legalità» (cfr. C. cost., n. 238 del 1996).

[21] P. Consorti, op. cit., p. 147.

[22] A titolo esemplificativo si veda, tra gli altri, l’art. 3, II comma l. n. 128 del 2012 (Norme per la regolazione dei rapporti tra lo Stato e la Chiesa apostolica in Italia) e l’art. 8, II comma l. n. 245 del 2012 (Norme per la  regolazione  dei  rapporti  tra  lo  Stato  e  l'Unione Buddhista Italiana).

[23] Ciò però non rende del tutto priva di significato la disposizione: per poter fruire del beneficio, infatti, il ministro deve appartenere a una confessione religiosa dotata di statuto, che non sia peraltro in contrasto con l’ordinamento giuridico italiano.

[24] Sul concetto di massima di decisione si rinvia a R. Guastini, L’interpretazione dei documenti normativi, Milano 2004.