ISSN 2039-1676


20 dicembre 2016 |

‘Cottimo della chirurgia’, (pretesi) interventi inutili e prova del dolo di lesioni rispetto al contestato omicidio preterintenzionale del paziente (caso Humanitas).

Corte d'Assise d'Appello Milano, ud. 17 maggio 2016 (dep. 23 maggio 2016), Pres. est. Piffer, imp. Gallotti

Per leggere il testo della sentenza annotata, clicca in alto su "visualizza allegato".

 

1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, la Corte d’Assise d’Appello di Milano, quale giudice del (secondo) rinvio[1], ha scritto un altro capitolo del c.d. ‘caso Humanitas’, di cui si è già dato conto in questa rivista (si vedano i documenti correlati nella colonna di sinistra). In quest’ultima occasione, l’esito della complessa vicenda processuale è l’assoluzione dell’imputato, medico-chirurgo, chiamato a rispondere dell’omicidio preterintenzionale di un paziente.

Secondo l’accusa, l’imputato avrebbe realizzato un intervento chirurgico non necessario, dal quale  sarebbe conseguito il decesso del paziente per infarto peri-operatorio. Più precisamente, secondo la prospettazione accusatoria, l’imputato avrebbe acquisito un consenso non adeguatamente informato, in particolare circa l’effettiva utilità dell’intervento, al solo fine di conseguire un vantaggio economico individuabile in una quota accessoria della retribuzione[2].

Punto centrale della decisione è dunque, in linea con quanto statuito dal giudizio rescindente, il tentativo di definire con chiarezza gli indicatori dai quali derivare la prova del movente economico nel caso del c.d. cottimo della chirurgia: vale a dire, quel meccanismo di retribuzione dell’attività chirurgica che cresce proporzionalmente al variare del numero di interventi effettuati nell’unità di tempo considerata, in ragione del correlativo incremento dei rimborsi corrisposti alla struttura ospedaliera da parte del servizio sanitario.

 

2. Avviando dunque l’esame di tale pronuncia, occorre richiamare, come si è già avvertito, i vincoli posti dal giudizio rescindente. In particolare, la Suprema Corte (clicca qui per il testo della relativa sentenza: Sez. I, n. 24918/2014) aveva imposto al giudice del rinvio, tra l’altro, di: “1. rivalutare la sussistenza o meno del movente economico nell’agire professionale dell’imputato […]; 2. riconsiderare la vicenda sanitaria del [paziente deceduto a seguito dell’intervento] alla luce della lezione interpretativa della sentenza delle sezioni unite 2437/2008 [Giulini, ndr] e delle valutazioni alle quali perverrà in ordine al punto precedente”.

La portata delle statuizioni del S.C. si precisa ulteriormente nel corso della motivazione, laddove si afferma che il divieto, per il giudice del rinvio, di discostarsi dai principi affermati dalle Sezioni Unite Giulini non può essere derogato nemmeno sulla scorta della diversità dei profili di fatto tra le due vicende: là una condotta comunque animata da finalità terapeutica e culminata in un esito c.d. fausto, qui, al contrario, un comportamento determinato dal movente economico cui ha fatto seguito il decesso del paziente (cioè un esito infausto).

Ecco che s’impone, pertanto, un esame unitario dei profili oggettivi e soggettivi del fatto, pur nella consapevolezza che un ruolo predominante è rivestito dai secondi: è in relazione all’asserito intento lucrativo dell’imputato, infatti, che è possibile riscontrare gli estremi del dolo di lesioni, necessario per l’integrazione della fattispecie preterintenzionale di cui all’art. 584 c.p.

A questo proposito, avverte il giudice territoriale, occorre valutare l’attività dell’imputato nella sua globalità, comprensiva, pertanto, anche degli ulteriori fatti di lesioni a suo tempo contestati – e successivamente caduti in prescrizione – e della loro significatività nel più ampio quadro dell’opera professionale dell’imputato: il movente economico, infatti, può apprezzarsi soltanto su larga scala, risultando “difficilmente conciliabile se non addirittura incompatibile con l’ipotesi di pochi, limitati, interventi chirurgici comportanti un limitato guadagno”.

Nella prospettiva della Corte, dunque, soltanto la prova di una consistente mole di interventi inutili consentirebbe di ritenere dimostrata la finalità di guadagno propria del c.d. cottimo della chirurgia.

Da tali premesse muove il giudice milanese per escludere tanto la finalità lucrativa quanto, in misura qui maggiormente rilevante, il dolo di lesioni, sulla base di tre argomenti: (i) la scarsa rilevanza degli episodi contestati – otto interventi, dei quali uno soltanto effettuato nei confronti di un paziente poi deceduto – nel panorama temporale preso in considerazione dall’accusa – cinque anni –; (ii) la scarsa significatività di tali otto interventi in relazione al movente economico, giacché, in forza degli accordi intercorsi tra l’imputato e la struttura sanitaria, essi avrebbero fruttato al primo un guadagno complessivo di soli 4.000 euro; (iii) ancora, e a monte, il mancato raggiungimento di una prova piena dell’inutilità degli interventi contestati, con la conseguenza che il dubbio circa la necessità chirurgica degli stessi non può non giovare all’imputato. A quest’ultimo proposito, del resto, già la Corte di Cassazione aveva puntualizzato, annullando la seconda sentenza di condanna, che non è possibile trasformare “in prova contro l’imputato la difficoltà processuale negli accertamenti non portati a termine ovvero la prassi, accreditata dai testi,” di procedere con una certa larghezza all’intervento chirurgico.

 

3. Applicando le considerazioni qui esposte all’episodio del paziente deceduto per infarto peri-operatorio, l’intima connessione, posta in premessa dal principio di diritto formulato dal S.C., tra detta vicenda e le considerazioni già spese dalla Corte del rinvio conduce a escludere, in ragione dell’insussistenza della fattispecie dolosa base, la configurabilità del delitto di omicidio preterintenzionale.

Né sarebbe possibile qualificare il fatto come omicidio colposo, non soltanto perché il reato risulterebbe estinto per intervenuta prescrizione, ma anche – rileva obiter la Corte milanese – per una considerazione sostanziale. Vero è, si osserva, che la contestazione del delitto preterintenzionale conteneva già un addebito di colpa: del tutto coerentemente, se si ritiene la responsabilità in parola null’altro che un’ipotesi di responsabilità oggettiva da interpretare alla luce del principio costituzionale di colpevolezza. Segnatamente, si rimproverava all’imputato l’omessa diagnosi dell’infarto già in atto al momento delle dimissioni.

Altrettanto vero, però, è che detto addebito, che pure non è stato ritenuto compiutamente provato, nulla a che vedere avrebbe con l’effettuazione dell’intervento chirurgico, rientrando in una “prospettiva del tutto eccentrica” rispetto alla fattispecie preterintenzionale di cui all’imputazione.

In sostanza, cioè, i profili di colpa eventualmente riscontrabili – ma non riscontrati – a carico dell’imputato non sono stati ritualmente contestati allo stesso e non possono essere posti a fondamento di una pronuncia di condanna a titolo di omicidio colposo.

 

4. In chiusura, solo per completezza di informazione, è appena il caso di ricapitolare il complesso iter procedimentale che ha condotto alla pronuncia di cui qui si dà conto, pur nella prospettiva, più limitata rispetto all’intero oggetto del procedimento, della sola imputazione per omicidio preterintenzionale, vale a dire in relazione all’intervento seguito dal decesso del paziente per infarto peri-operatorio.

Con riguardo a tale episodio, nel febbraio 2009 l’imputato riportava una prima condanna da parte del g.u.p. di Milano, che accoglieva l’impostazione accusatoria; tale condanna era successivamente confermata in appello, ma la Corte d’Assise d’appello riqualificava il fatto come omicidio colposo.

Avverso tale sentenza proponevano ricorso tanto il Procuratore generale quanto l’imputato e la Corte di Cassazione, in accoglimento del primo, pronunciava una prima sentenza di annullamento con rinvio. La Corte territoriale, in diversa composizione, pronunciava dunque una seconda sentenza di condanna, che questa volta condivideva l’impostazione della decisione di primo grado, che era così confermata. Un nuovo annullamento con rinvio, però, determinava la necessità di un terzo pronunciamento della Corte territoriale, che, con la sentenza che qui si presenta, ha assolto l’imputato dal reato a lui contestato con formula piena, su conclusioni conformi del Procuratore Generale.

 

[1] La vicenda processuale è piuttosto complessa: si snoda lungo più di sette anni e conta due pronunce di annullamento con rinvio emesse dalla Suprema Corte e aventi per oggetto altrettante sentenze di condanna, sia pure per titoli di reato differenti, emesse dai giudici dell’appello (la sentenza di appello bis, con nota di A. Valsecchi, nonché la prima decisione della Cassazione, possono essere lette tra i documenti correlati, nella colonna di destra, in questa stessa pagina). In chiusura della presente scheda, sia pure per sommi capi, saranno ripercorsi i passaggi essenziali della vicenda al fine di inquadrare la decisione in commento, nonché per completezza d’informazione.

[2] Restano a margine di tale vicenda, che invece occupa l’intero ambito del giudizio rescissorio, le ulteriori imputazioni relative a fatti di lesioni dolose gravi e gravissime, in ordine a casi di interventi parimenti inutili ma culminati in esiti fausti, nonché ai reati di falso contestati in relazione all’alterazione della lettera di dimissioni di un paziente: fatti, questi, già colpiti dalla falcidia della prescrizione in sede di appello bis.