28 febbraio 2017 |
Omicida condannato a morte, anziché all’ergastolo, perché nero e quindi 'pericoloso'. La Corte Suprema U.S.A. mette un freno all'ingresso di stereotipi razziali nel sentencing
Corte Suprema degli Stati Uniti, Buck v. Davis, 22 febbraio 2017 ("Our law punishes people for what they do, not who they are")
Per il testo della sentenza annotata clicca qui.
1. Che il sistema della giustizia penale statunitense faccia da tempo i conti con il problema del pregiudizio razziale è arcinoto; come anche lo è l’incidenza del fattore-razza nella prassi della pena di morte. Lo testimoniano una copiosa letteratura (segnalo in proposito, da ultimo, un bel libro di Bryan Stevenson: “Just Mercy, a Story of Justice and Redemption”, Spiegel & Grau, 2015) e alcuni dati statistici: dal 1977 ad oggi oltre il 42% delle esecuzioni capitali ha interessato afro-americani (34,5%: 498 persone) e latinos (8,3%: 119 persone); oltre il 54% dei detenuti nel ‘braccio della morte’ (death row) è rappresentato, ancora una volta, da afro-americani (41,79%: 1214 persone) e latinos (13,08%: 380 persone) – dati, questi ultimi, aggiornati al luglio del 2016 (fonte: deathpenaltyinfo.org).
Non è però altrettanto noto – quantomeno fuori dai confini degli Stati Uniti – come talora lo stereotipo razziale, lungi dal rimanere sotto traccia, entri nel processo penale dalla porta principale, nella veste formale di elemento di valutazione da parte della giuria, chiamata a pronunciarsi sulla condanna alla pena capitale. Il caso di Duane Buck, sul quale si è nei giorni scorsi pronunciata la Corte Suprema con la sentenza qui segnalata, è in tal senso davvero emblematico.
2. Duane Buck è un afroamericano di 53 anni, detenuto ancora oggi nel braccio della morte perché nel 1995, in Texas, uccise con un’arma da fuoco l’ex fidanzata e un amico di lei. Il processo al quale fu sottoposto si concluse con la condanna a morte. Fu in tal senso decisiva la valutazione, da parte della giuria, della ‘futura pericolosità’ (future dangerousness) del condannato. All’epoca in cui Buck fu sottoposto a giudizio, infatti, il codice di procedura penale del Texas – art. 37.071, §2(b)(1) – attribuiva alla giuria il potere di infliggere la pena di morte (per reati che prevedessero quella pena, si intende) solo se, all’unanimità e al di là di ogni ragionevole dubbio, avesse ravvisato “la probabilità che il condannato commetta reati violenti e che continui a rappresentare una minaccia per la società”. Diversamente, in luogo della pena di morte la giuria avrebbe dovuto infliggere l’ergastolo.
Il difensore di Buck presentò davanti alla giuria un esperto, il Dr. Walter Quijano, psicologo accreditato, almeno all’apparenza, per i propri titoli di studio e per aver condotto analoghe valutazioni in altri settanta casi di omicidi puniti con la pena capitale. Valutata una serie articolata di elementi, l’esperto concluse nel senso di poter escludere la futura pericolosità del condannato, che aveva commesso il fatto nell’ambito di una relazione sentimentale irripetibile e che durante la detenzione aveva mostrato una buona condotta. Senonché il report del Dr. Quijano – acquisito da parte della giuria – conteneva dell’altro: indicava alcuni fattori statistici di cui tener conto nel giudizio di pericolosità e, tra questi, quello – ritenuto soccombente nell’ambito di una valutazione complessiva – relativo alla razza: “Black: Increased probability. There is an over-rapresentation of Blacks among the violent offender”. Durante la cross examination, il rappresentante della pubblica accusa sottolineò proprio quel fattore: “you have determinated that…the race factor, black, increases the future dangerousness for various complicated reasons; is that correct?” – “Yes”, rispose il Dr. Quijano, testimone chiamato dalla difesa, davanti a una giuria del Texas che pronunciò poi una condanna a morte.
3. Dopo una serie di ricorsi, esperiti a livello statale e federale, il caso di Buck arriva davanti alla Corte Suprema degli Stati Uniti. Diciassette anni prima, nel 2000, un caso analogo, relativo a un ispanico (Saldano v. Texas), era arrivato ad un passo dal giudizio della Corte Suprema. Anche in quel caso il ricorrente lamentava che la propria condanna a morte era stata pronunciata dopo che lo stesso esperto – il Dr. Quijano – davanti alla giuria aveva qualificato il patrimonio culturale del condannato come “a factor weighing in the favor of future dangerousness”. La Corte Suprema tuttavia, in quell’occasione, non si pronunciò perché, prima del giudizio, il Texas ammise l’errore e riaprì il procedimento, riformando la condanna a morte; e analoga sorte ebbero altri sei casi, nei quali il Dr. Quijano pure era intervenuto in veste di esperto, contemplando nella sua relazione il fattore razziale tra quelli statisticamente significativi ai fini della valutazione relativa alla future dangerousness del condannato. Alla vicenda fece seguito una modifica del codice di procedura penale texano (art. 37.072), nel quale oggi si legge espressamente che “evidence may not be offered by the state to establish that the race or ethnicity of the defendant makes it likely that the defendant will engage in future criminal conduct”.
3. Diversamente dagli altri casi, quello di Buck non imboccò la via del resentencing: il Texas non ammise l’errore risultando fatale per il condannato, proceduralmente, la circostanza di non avere sollevato la questione del fattore-razziale nel primo della lunga serie di ricorsi successivi alla condanna a morte. La questione fu invece sollevata successivamente – anche e infine, in ultima istanza, davanti alla Corte Suprema – e fu inquadrata quale violazione del diritto a una difesa effettiva (“right to the effective assistance of counsel”); un diritto ancorato al VI Emendamento della Costituzione americana. Perché quel diritto sia violato, secondo la giurisprudenza della Corte Suprema (cfr. Strickland v. Washington), deve fondamentalmente essere compiuto un duplice accertamento relativo alla particolare gravità dell’errore tecnico del difensore, da una parte, e all’efficacia causale di quell’errore rispetto al risultato sfavorevole per l’assistito, dall’altra parte.
Orbene, secondo la sentenza annotata – pronunciata con la maggioranza di sei giudici (estensore Roberts) contro due, dissenzienti (Thomas e Alito) – nel caso di Duane Buck ricorrono entrambe le condizioni per ravvisare una violazione del VI Emendamento. Da un lato, la Corte Suprema sottolinea il vero e proprio autogoal commesso dal difensore di Buck facendo entrare tra gli elementi di prova, su propria iniziativa, la relazione e la testimonianza del Dr. Quijano: “no competent defense attorney would introduce such evidence about his own client”. Dall’altro lato, la stessa Corte ritiene che è ragionevolmente probabile che senza l’introduzione di quell’elemento di prova – del relativo stereotipo razziale, travestito da dato scientifico – la giuria non si sarebbe pronunciata all’unanimità (come richiesto dalla legge) in senso favorevole alla pena di morte, in luogo dell’ergastolo.
Quello stereotipo, infatti – osserva la Corte –, è risultato “the central question at sentencing”. Nel sottolinearlo, la Corte Suprema spende dure parole contro l’argomento, invocato in senso contrario dalla corte distrettuale, che fa leva sul dato quantitativo del ridotto numero di riferimenti al fattore razziale, tanto nella relazione scritta quanto nella testimonianza del Dr. Quijano: “when a jury hears expert testimony that expressly makes a defendant’s race directly pertinent on the question of life or death, the impact of that evidence cannot be measured simply by how much air time it received at trial or how many pages it occupies in the record. Some toxins can be deadly in small doses”.
4. La conclusione della Corte Suprema (p. 21) – al di là del dato formale e sostanziale della violazione del diritto di difesa, funzionale a riaprire la fase del sentencing – va dritta al cuore del problema sollevato da Buck v. Davis: “Buck may have been sentenced to death in part because of his race”. Ed è questa una deviazione da una fondamentale premessa del sistema della giustizia penale statunitense (“a basic premise of our criminal justice system”): si puniscono le persone per quel che fanno, non per quel che sono (“our law punishes people for what they do, not who they are”). Irrogare la pena sulla base di una caratteristica immutabile (il colore della pelle) viola immancabilmente questo principio-guida; fare riferimento alla razza per imporre una sanzione penale avvelena la fiducia pubblica nel sistema processuale (“poisons public confidence in the judicial process”) – cfr. Davis v. Ayala (2015).
Una notazione finale: l’autorevole richiamo al diritto penale del fatto e al modello oggettivistico è ancor più significativa se rapportata all’attuale clima socio-politico che si respira negli Stati Uniti. Al tramonto dell’era Obama l’idea che “black is dangerous” è stata sullo sfondo dei molti, tragici, scontri a colpi di arma da fuoco tra agenti di polizia e afroamericani. Idee analoghe fanno da sfondo, nell’era Trump, alle tante barriere che il nuovo corso delle politiche migratorie promettono di elevare nei confronti dell’immigrazione e delle minoranze. La fedeltà ai principi – esigenza ribadita dalla sentenza annotata – è un irrinunciabile valore dello stato di diritto ancor più in periodi storici, come quello attuale, in cui alcune certezze vacillano, anche oltre Oceano.