ISSN 2039-1676


27 giugno 2017 |

La Corte d’Appello di Venezia assolve gli ex dirigenti dello stabilimento EVC di Porto Marghera dal reato di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche aggravato dalla verificazione del disastro

Nota a Corte App. Venezia, Sez. III, sent. 6 ottobre 2016 (dep. 1 febbraio 2017), n. 3417/16, Pres. Apostoli, Est. Masini, Imp. Berto ed altri

Contributo pubblicato nel Fascicolo 6/2017

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1. Con la sentenza che qui pubblichiamo, la terza sezione penale della Corte d’Appello di Venezia, in riforma della sentenza di primo grado emessa dal Tribunale di Venezia in composizione monocratica, ha assolto quattro ex dirigenti della società EVC Italia S.p.A. (successivamente divenuta Ineos Vinyls Italia S.p.A.) dal delitto di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, aggravato dalla verificazione del disastro (art. 437, co. 2, c.p.), in relazione al rilascio in atmosfera di circa tre tonnellate di CVM (cloruro di vinile monomero) e alcuni chilogrammi di percloroetilene da uno dei camini dello stabilimento EVC di Porto Marghera.

L’incidente che ha dato origine al procedimento era avvenuto presso il reparto di produzione del CVM l’8 giugno 1999, quando un anomalo aumento di pressione all’interno dell’ultima colonna dell’impianto per la purificazione del CVM dall’acido cloridrico aveva provocato un’immissione di tale sostanza nel collettore sfiati in quantità superiore a quella smaltibile dall’impianto, causando ripetuti sfondamenti della guardia idraulica (P705), con conseguente rilascio di CVM in atmosfera attraverso uno dei camini dello stabilimento[1].

All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Venezia, con sentenza del 24 ottobre 2003, aveva riconosciuto gli imputati responsabili del delitto di cui all’art. 437, co. 2, c.p. condannandoli alla pena di otto mesi di reclusione ciascuno.

Ebbene, in accoglimento dei motivi di gravame formulati dalla difesa degli imputati e del responsabile civile, i giudici della Corte d’Appello di Venezia, da un lato, hanno escluso la sussistenza della circostanza aggravante prevista al secondo comma dell’art. 437 c.p., ritenendo che l’evento non fosse sussumibile nella nozione di disastro delineata dalla Corte Costituzionale e dalla successiva giurisprudenza di legittimità, per difetto sia dell’elemento quantitativo (un evento di proporzioni straordinarie atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi), sia di quello qualitativo (idoneità del fatto a porre in pericolo la vita o l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone); dall’altro lato, hanno assolto gli imputati anche dall’accusa di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche per mancanza del dolo richiesto dal primo comma dell’art. 437 c.p.

Di seguito si ripercorrono sinteticamente i passaggi più significativi della sentenza.

 

2. La Corte d’Appello affronta, in prima battuta, la delicata questione relativa alla sussistenza, o meno, di un evento qualificabile come disastro penalmente rilevante, tema che assume rilievo decisivo ai fini dell’applicazione dell’ipotesi aggravata prevista al capoverso dell’art. 437 c.p.

A tale riguardo, occorre tenere presente che il giudice di prime cure, aderendo a un orientamento interpretativo e giurisprudenziale già all’epoca minoritario, aveva sostenuto che il disastro di cui all’art. 437, co. 2, c.p. potesse consistere anche in un evento produttivo di danni di modesta entità e che non richiedesse l’accertamento, in concreto, della sussistenza di un pericolo per la pubblica incolumità, atteso che la norma in esame contemplerebbe un’ipotesi di reato c.d. di pericolo presunto. Nella prospettiva del Tribunale di Venezia, in particolare, l’applicazione del secondo comma dell’art. 437 c.p. sarebbe stata preclusa solo nel caso in cui l’intervento di fattori eccezionali avesse reso impossibile, ai sensi dell’art. 49, comma 2, c.p., l’insorgenza del pericolo per la pubblica incolumità.

Sulla scorta di tale soluzione interpretativa, il giudice di prima istanza aveva concluso che la fuoriuscita di CVM da uno dei camini dello stabilimento EVC, pur non avendo provocato effetti lesivi all’integrità fisica delle persone, era comunque qualificabile come disastro, avendo prodotto “una contaminazione del comparto aria, con conseguente inquinamento di un bene collettivo di importanza primaria per la tutela dell’ambiente e della salute” (p. 20). Con riguardo, invece, al pericolo per l’incolumità pubblica, il Tribunale si era limitato ad affermare che l’entità e la durata di tale incidente (protrattosi per circa novanta minuti), unitamente alla pericolosità delle sostanze emesse, non consentivano di escludere “con un grado di assoluta certezza” la potenzialità del fatto a porre in pericolo l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone.

 

3. La Corte d’Appello di Venezia non condivide il percorso motivazionale del Tribunale, anzitutto perché la nozione di disastro fatta propria dal giudice di primo grado si pone in contrasto con le univoche indicazioni ermeneutiche fornite dalla Corte Costituzionale e dalla Corte di Cassazione.

In proposito, la Corte richiama, in primo luogo, la nota sentenza n. 327 del 2008 della Corte Costituzionale, con la quale i giudici della Consulta, chiamati a pronunciarsi sulla legittimità costituzionale del delitto di disastro innominato di cui all’art. 434 c.p., hanno delineato una nozione unitaria di disastro, i cui tratti qualificanti devono apprezzarsi sotto un duplice e concorrente profilo: (i) sul piano dimensionale “si deve essere al cospetto di un evento distruttivo di proporzioni straordinarie, anche se non necessariamente immani, atto a produrre effetti dannosi gravi, complessi ed estesi”; (ii) sul piano della proiezione offensiva, invece, “l'evento deve provocare […] un pericolo per la vita o per l'integrità fisica di un numero indeterminato di persone; senza che peraltro sia richiesta anche l'effettiva verificazione della morte o delle lesioni di uno o più soggetti” (p. 52).

La sentenza osserva, quindi, che i principi espressi nella succitata pronuncia hanno trovato costante applicazione nella successiva giurisprudenza di legittimità, che, con la recente sentenza che ha concluso il processo Eternit[2], ha altresì avuto modo di precisare che l’immissione di sostanze tossiche in atmosfera può sì integrare gli estremi di un disastro, ma a condizione che tale immissione determini, sotto il profilo dimensionale, “imponenti processi di deterioramento, di lunga o lunghissima durata, dell’habitat umano (p. 54).

Pertanto, pur riconoscendo che l’art. 437, co. 2, c.p. non richiede l’effettiva lesione dell’incolumità individuale di una pluralità di persone, essendo sufficiente l’esposizione a pericolo, la sentenza d’appello rileva che “nei casi in cui il disastro è causato dall’immissione nell’aria di sostanze tossiche, tale immissione […] deve essere comunque tale da innescare un imponente processo di deterioramento dell’aria (dato qualitativo) e l’esposizione a pericolo per la salute che ne consegue (dato qualitativo) deve essere accertata in concreto” (p. 55).

Fatte tali precisazioni in punto di diritto, la Corte esclude che nell’incidente occorso l’8 giugno 1999 siano ravvisabili i requisiti del disastro penalmente rilevante

 

3.1. Quanto al requisito dimensionale, i giudici d’appello sottolineano che, in base ai dati emersi nel corso dell’istruttoria dibattimentale, l’evento in questione “non ha avuto né durata né proporzioni straordinarie, non era atto a produrre effetti gravi, complessi ed estesi, è stato estremamente circoscritto nel tempo e nello spazio, con concentrazioni che non hanno compromesso in misura grave, complessa ed estesa l’ambiente circostante (p. 56).

Ad avviso della Corte d’Appello, dunque, la fuoriuscita di tre tonnellate di CVM dal camino dello stabilimento EVC non avrebbe prodotto quell’imponente processo di deterioramento dell’aria richiesto dalla Suprema Corte per la configurabilità del disastro in caso di immissione di sostanze tossiche in atmosfera, bensì solo un degrado transitorio della qualità dell’aria, protrattosi per un intervallo di tempo relativamente breve.

Tali conclusioni, peraltro, sarebbero ulteriormente confermate anche dai dati relativi al tempo di persistenza del CVM nell’ambiente, c.d. emivita, tema su cui, peraltro, si erano confrontati i consulenti tecnici di accusa e difesa nel corso del dibattimento. In particolare, il consulente del pubblico ministero aveva sostenuto che l’emivita del CVM fosse di quattro giorni, mentre l’esperto nominato dalla difesa aveva stimato un’emivita pari a circa venti ore.

Senza prendere posizione sul punto, la Corte si limita a rilevare che in entrambi gli scenari prospettati dagli esperti l’emivita del CVM – e quindi la sua dannosità – in ogni caso non si protrae “per tempi particolarmente lunghi” (p. 56), con la conseguenza che, anche da questo punto di vista, deve escludersi che l’immissione in atmosfera di tale sostanza abbia assunto i connotati di un evento di proporzioni straordinarie.

 

3.2. La Corte d’Appello nega, altresì, che l’evento oggetto di contestazione abbia determinato un effettivo pericolo per la vita e l’integrità fisica di un numero indeterminato di persone.

Sul punto, la Corte valorizza, anzitutto, il contenuto della nota del 29 gennaio 1999 trasmessa dall’Istituto Superiore di Sanità al Ministero dell’Ambiente (allegata alla relazione dei consulenti tecnici di parte civile), nella quale si affermava che, sebbene il rischio derivante dall’esposizione a CVM potesse considerarsi “apprezzabile”, le conoscenze scientifiche all’epoca disponibili non consentivano di fornire una risposta certa al quesito relativo alla capacità delle sostanze cancerogene (tra le quali rientra pacificamente anche il cloruro di vinile monomero) di indurre tumori a seguito dell’esposizione ad alte dosi di breve durata.

Secondo i giudici veneziani, quindi, “sembra fondata la tesi difensiva secondo cui, in sostanza, manca una legge di copertura scientifica che sia in grado di stabilire una relazione astratta tra esposizione intensa e di breve durata al CVM e insorgenza di malattie, segnatamente oncologiche”. “Se manca una legge di copertura in grado di stabilire una relazione scientifica tra i due fenomeni” – dichiara la sentenza – “si può giungere alla conclusione secondo cui manca la prova che, nel caso concreto, la fuoriuscita di CVM abbia esposto ad un qualche rischio l’incolumità di un numero indifferenziato di persone” (p. 57).

La sentenza rileva, peraltro, che nella stessa scheda dell’Inventario Nazionale delle sostanze chimiche per il CVM si legge che “sebbene non sia possibile stabilire definitivamente livelli di esposizione sicura per i cancerogeni genotossici, l’evidenza presentata nel rapporto dell’ECETOC[3] non indica che l’esposizione professionale ai livelli attuali, in conformità con il limite di 3 ppm stabilito dalla CEE, presenti alcun rischio significativo per la salute” (p. 58).

La Corte passa quindi ad analizzare i livelli di concentrazione media di CVM presenti a 1,70 metri di altezza (ossia ad altezza uomo) nelle fasi immediatamente successive all’incidente, calcolati dal consulente del pubblico ministero attraverso l’applicazione di due distinti modelli matematici: secondo un primo modello, c.d. modello Breeze, a fronte di una massa di circa 3.000 kg di CVM rilasciati in atmosfera nell’arco di novanta minuti, la concentrazione di sostanza presente ad altezza uomo non avrebbe mai superato i 0,25 ppm (parti per milione, n.d.r.); applicando un secondo modello matematico, c.d. modello Phast, il consulente dell’accusa aveva invece calcolato, nei quindici minuti peggiori dell’evento, una concentrazione massima di CVM pari a 7,5 ppm, e una concentrazione massima di 5,7 ppm per tutta la durata dell’evento (protrattosi per circa un’ora e mezza).

Una volta confrontate tali concentrazioni con i limiti previsti dall’allora vigente D.P.R. 962/1982 – il quale, per il rilascio di CVM in ambiente, prevedeva sia un valore limite tecnico di lunga durata (VLTLD) pari a 3 ppm, che non doveva mai essere superato dalla concentrazione media di CVM presente nell’ambiente di lavoro nell’arco di un anno, sia un valore limite tecnico di breve durata (VLTBD) che, per un periodo di riferimento di venti minuti, era stabilito in 7,9 ppm –, la sentenza osserva che, anche a volere prendere come riferimento i risultati peggiori (vale a dire i risultati ottenuti attraverso il modello Phast), “resta il fatto che i valori di concentrazione di PPM in atmosfera successivi al rilascio di CVM hanno determinato livelli di esposizione inferiori ai VLTBD […] ammessi dalla normativa all’epoca vigente e, del tutto verosimilmente, di pochissimo superiori a quelli di cui al D.Lgs. 66/2000[4] successivamente entrato in vigore” (p. 59-60).

Alla luce di tali considerazioni, la Corte territoriale conclude quindi che la fattispecie prevista al capoverso dell’art. 437 c.p. non può ritenersi integrata, atteso che “non solo la fuoriuscita di CVM non ha cagionato malori o effetti tossici acuti, ma non v’è neppure certezza alcuna che abbia determinato un concreto pericolo per la pubblica incolumità e la salute pubblica, pericolo concreto che, viceversa, costituisce l’oggettività dell’evento disastro di cui al II comma dell’art. 437 c.p.” (p. 60).

 

4. Esclusa l’operatività della circostanza aggravante, la sentenza si concentra sull’ipotesi base del reato di omissione dolosa di cautele antinfortunistiche, soffermandosi, in particolare, sulla sussistenza in capo agli imputati dell’elemento psicologico richiesto dal primo comma dell’art. 437 c.p.

A tal proposito, il giudice di prime cure aveva individuato quattro carenze strutturali e di conduzione dell’impianto per la produzione del CVM – indicate nell’imputazione tra le cause generali e contingenti dell’evento – che, a suo dire, rappresentavano altrettante omissioni di cautele antinfortunistiche rimproverabili agli imputati: (i) mancato funzionamento della valvola di sicurezza RV525; (ii) inaffidabilità e omessa manutenzione del sistema di controllo del livello di CVM all’interno della colonna C504; (iii) omesso approntamento di un sufficiente sistema di convogliamento degli sfiati; (iv) omesso approntamento di automatismi nel funzionamento dell’impianto.

Sotto il profilo soggettivo, la sentenza di primo grado aveva escluso la sussistenza dell’elemento psicologico in relazione alle omissioni di cui ai punti (i) e (ii), ritenendo che nel corso del dibattimento non fosse emersa “alcuna prova precisa e concreta che le anomalie e i malfunzionamenti riscontrati […] fossero state segnalate o comunicate al direttore dello stabilimento […] né tantomeno al business manager […]; né, del resto, che gli stessi ne fossero venuti comunque a conoscenza” (p. 61).

Viceversa, con riguardo alle omissioni relative al sistema di convogliamento e distruzione degli sfiati e ai dispositivi automatici di controllo della colonna (di cui ai punti iii e iv), il Tribunale aveva ritenuto sussistente il dolo degli imputati, in quanto, a suo dire, tali omissioni riguardavano “elementi strutturali e parti fondamentali dell’impianto, la cui configurazione tecnica non poteva certo essere ignorata dal direttore dello stabilimento o dai responsabili tecnico-amministrativi della produzione del CVM-PVC” (p. 62). Ulteriori indizi del dolo erano poi stati desunti: da un complessivo comportamento di inerzia tenuto dall’azienda nei riguardi di varie prescrizioni imposte dalle autorità amministrative, anche in epoche antecedenti l’evento; dalla circostanza che alcuni interventi volti ad evitare il rischio di insorgenza di simili eventi erano già stati programmati prima dell’evento; dal fatto che, subito dopo l’evento, la società EVC aveva presentato un piano di interventi dettagliato e corredato di studi tecnici per il miglioramento dell’impianto.

 

4.1. Dopo avere osservato, seppur in via incidentale, che le considerazioni espresse dal Tribunale in ordine alla concreta realizzabilità di un sistema di convogliamento degli sfiati in grado di captare tutte le emissioni sovrabbondanti provenienti dall’impianto “non paiono sorrette da sufficiente pregnanza scientifica” (p. 62-63), e che “non è del tutto convincente il ragionamento controfattuale che il versamento in atmosfera non si sarebbe verificato se si fossero approntati sistemi automatici di funzionamento” (p. 63), la Corte d’Appello ribadisce che il problema cruciale resta comunque quello di capire se il mancato adeguamento dell’impianto sia imputabile a una condotta omissiva dolosa degli imputati.

A tale riguardo, per i giudici veneziani risulta decisivo il contenuto del verbale del 25 marzo 1997 con cui il Comitato Tecnico Regionale (CTR) aveva espresso parere favorevole al progetto di potenziamento dell’impianto di produzione del CVM, presentato dalla società EVC anni prima che si verificasse l’incidente dell’8 giugno 1999. In particolare, la Corte rileva che, sebbene il parere positivo fosse subordinato all’osservanza di alcune prescrizioni, nel suddetto verbale si legge che “in considerazione della particolare tecnologia non sono disponibili linee guida applicabili” (p. 63).

Data l’assenza di evidenza scientifica in ordine alla fattibilità e decisività degli adeguamenti impiantistici prospettati dal Tribunale, nonché di qualsiasi concreta prescrizione impartita all’azienda prima del verificarsi dell’incidente, la sentenza ritiene “che si versi in un ambito al più colposo, ma certamente non doloso, difettando i requisiti della rappresentazione della possibilità di agire, cioè di compiere l’azione doverosa, e della volontà dell’omissione, cioè di non compiere l’azione doverosa (p. 64). Per la Corte, deve quindi escludersi che possa ritenersi integrata la fattispecie di reato di cui al primo comma dell’art. 437 c.p.

Alla luce di tutte le considerazioni sopra richiamate, la Corte d’Appello di Venezia, nonostante l’intervenuta prescrizione del reato, assolve gli imputati dal delitto loro ascritto con la formula “perché il fatto non sussiste, revocando, di conseguenza, le statuizioni civili pronunciate dal Tribunale di Venezia in favore delle parti civili costituite nel processo.

 


[1] Per una ricostruzione analitica delle modalità con cui si è verificato l’incidente si rinvia alla lettura del documento in allegato (pp. 5 – 7).

[2] Cass. Pen., Sez. I, 19 novembre 2014, n. 7941.

[3] European Centre for Ecotoxicology and Toxicology of Chemicals;

[4] Il d. lgs. 66/2000 ha introdotto un unico valore limite massimo, calcolato in relazione a un periodo di riferimento di otto ore, pari a 3 ppm.