6 marzo 2017 |
Il processo a carico degli ex amministratori della Fibronit di Broni: la Corte d’Appello di Milano torna a occuparsi del tema amianto e si confronta con le imputazioni per disastro innominato colposo e omicidio colposo plurimo
Commento a Corte App. Milano, Sez. V, Sent. 20 ottobre 2016 (dep. 15 novembre 2016), Pres. Bernini, Est. Vitale
Contributo pubblicato nel Fascicolo 3/2017
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1. Con la pronuncia in esame, la Corte d’Appello di Milano, in riforma della sentenza di primo grado pronunciata dal GUP di Pavia, ha assolto due ex amministratori della Fibronit S.p.A. (poi s.r.l.) dai delitti di disastro innominato colposo aggravato dalla previsione dell’evento (artt. 61 n. 3, 434 e 449 c.p.) e di omicidio colposo plurimo aggravato dalla violazione delle norme per la prevenzione degli infortuni sul lavoro e dalla previsione dell’evento (artt. 61 n. 3, 589 co. 1, 2 e 4 c.p.), in relazione agli eventi lesivi per l’ambiente e per la vita e integrità fisica di una pluralità di soggetti, cagionati – in ipotesi d’accusa – dall’immissione su vasta scala, in ambienti di lavoro e in ambienti di vita, delle polveri dell’amianto impiegato nel ciclo produttivo di uno degli stabilimenti della società, con sede a Broni.
In particolare, ai due imputati veniva contestata l’omessa predisposizione delle misure preventive e di sicurezza necessarie per contenere l’esposizione ad amianto degli operai impiegati nello stabilimento di Broni, dei familiari loro conviventi e degli stessi residenti del comune pavese; omissione che, dando luogo a un’esposizione continuativa all’amianto di una pluralità di soggetti, avrebbe non solo cagionato un disastro ambientale e messo in pericolo la pubblica incolumità, ma anche causato il verificarsi di plurimi decessi e l’insorgenza di patologie asbesto-correlate tra i soggetti esposti all’agente cancerogeno.
Ebbene, con la sentenza dello scorso ottobre, i giudici della Corte d’Appello di Milano, da un lato, hanno dichiarato l’estinzione del reato di disastro colposo per intervenuta prescrizione e, dall’altro lato, hanno assolto gli imputati dai restanti reati loro ascritti con la formula “perché il fatto non costituisce reato”, con conseguente revoca delle statuizioni civili pronunciate dal giudice di prime cure in favore delle oltre 200 parti civili costituite nel processo.
Prima di ripercorrere gli snodi fondamentali della sentenza in parola, è peraltro utile sottolineare come, già in esito al giudizio di primo grado, il GUP avesse solo parzialmente accolto l’impianto accusatorio costruito dalla pubblica accusa, riqualificando l’originaria imputazione per il delitto di disastro innominato doloso aggravato (art. 434 co. 1 e 2 c.p.) nella corrispondente ipotesi colposa, e assolvendo, invece, gli imputati dall’ulteriore addebito per omissione dolosa aggravata di cautele contro gli infortuni sul lavoro (art. 437 co. 1 e 2 c.p.), sul presupposto che, in relazione a entrambe tali contestazioni, non potesse ritenersi raggiunta la prova in ordine alla sussistenza dell’elemento soggettivo del dolo in capo ai due imputati.
2. La Corte d’Appello intraprende il proprio percorso motivazionale soffermandosi, in primo luogo, sull’imputazione per disastro innominato colposo.
A tal proposito, i giudici di Milano anzitutto affermano, in linea con quanto già sostenuto dal giudice di primo grado, che la contaminazione ambientale addebitata agli imputati – sostanziatasi nella dispersione in atmosfera, in ingenti quantitativi, delle polveri dell’amianto impiegato nel ciclo produttivo dello stabilimento – integrerebbe gli estremi del delitto di cui all’art. 434 c.p.: nella nozione di “disastro innominato” andrebbe, infatti, ricompresa anche l’ipotesi di semplice diffusione nell’ambiente di fibre di amianto, dovendo, viceversa, considerarsi senza fondamento la tesi più restrittiva che esclude “la rilevanza di tutti i fenomeni distruttivi prodotti da immissioni tossiche che (…) incidono sull’ecosistema e addirittura sulla composizione e quindi sulla qualità dell’aria respirabile” (v. p. 33).
I giudici milanesi, tuttavia, non condividono la posizione assunta dal giudice di prime cure in relazione all’individuazione del momento consumativo del reato di disastro e alla decorrenza del relativo termine di prescrizione.
In proposito, il GUP aveva ritenuto che il momento consumativo del delitto dovesse identificarsi con il raggiungimento del c.d. “picco di mortalità” tra i soggetti esposti all’agente cancerogeno, con ciò, evidentemente, riconducendo nella nozione di “evento disastroso” di cui all’art. 434 c.p. non solo l’immissione nell’ambiente delle polveri di amianto, ma anche le morti e le lesioni verificatesi in conseguenza dell’esposizione a tale agente cancerogeno.
Sulla scorta di tale assunto e in considerazione del fatto che, nel caso di specie, il suddetto picco di mortalità non poteva ritenersi ancora raggiunto – attesa la durata media decennale dei periodi di latenza delle patologie asbesto-correlate –, il giudice aveva ritenuto che l’evento disastroso fosse ancora in pieno divenire e che, pertanto, il delitto contestato ai due imputati non potesse considerarsi giunto a consumazione.
La Corte di Appello, al contrario, ritiene che il raggiungimento del “picco di mortalità” non possa assumere alcun rilievo ai fini dell’individuazione del momento consumativo del delitto di disastro, posto che gli eventi lesivi per l’incolumità individuale – le morti e le lesioni – non rientrano nel concetto di “evento disastroso” necessario a integrare la fattispecie delittuosa in esame, ma rappresentano esclusivamente un indice della pericolosità concreta di tale evento, da intendersi come obiettiva idoneità dello stesso a dare luogo a conseguenze ulteriori (v. p. 37).
A detta dei giudici di Milano, in particolare, la consumazione del reato di disastro non potrebbe protrarsi “oltre il momento in cui ebbero fine le immissioni delle polveri e dei residui della lavorazione dell'amianto” impiegato nello stabilimento, ovverosia, oltre il momento del realizzarsi dell’unico evento riconducibile alla nozione di “evento disastroso” descritto dalla norma incriminatrice di cui all’art. 434 c.p.
In forza della suddetta ricostruzione, e in considerazione del fatto che la produzione dell’amianto nello stabilimento di Broni era cessata, al più tardi, nel 1993, i giudici di appello dichiarano estinto il reato di disastro innominato colposo contestato ai due imputati, per intervenuta prescrizione già a far data dal 2001[1] (v. p. 39).
3. Chiuso il capitolo relativo al delitto di disastro innominato, la Corte d’Appello si concentra, nella seconda parte della sentenza, sull’imputazione per omicidio colposo plurimo aggravato.
3.1. In proposito, i giudici milanesi analizzano, innanzitutto, il tema relativo alla sussistenza del nesso di causa tra le condotte doverose asseritamente omesse dagli imputati e gli eventi lesivi – i decessi per patologie asbesto-correlate, nella maggior parte dei casi mesoteliomi maligni – concretamente occorsi.
In esito al giudizio di primo grado, il GUP, chiamato a confrontarsi con il problema relativo alla natura da attribuire al mesotelioma maligno, aveva ritenuto di aderire alla tesi della natura “dose-risposta” di tale patologia tumorale[2], considerandola maggiormente accreditata in seno alla comunità scientifica e coerente con i dati di osservazione evidenziati dagli studiosi in materia, rispetto all’opposta tesi che attribuisce al mesotelioma la natura di patologia “dose-correlata”[3].
Sulla base di tale qualificazione, il giudice di prime cure aveva quindi riconosciuto la rilevanza causale di tutte le esposizioni ad amianto subite dai lavoratori deceduti, attribuendo ai comportamenti (commissivi e omissivi) addebitati ai datori di lavoro una “efficacia condizionante sull’accelerazione dello sviluppo delle patologie accertate” (v. p. 8).
Ebbene, a detta della Corte d’Appello, le conclusioni raggiunte dal GUP di Pavia “non solo non appaiono sufficienti, ma non sono più attuali e quindi idonee a sorreggere la motivazione” (v. p. 49).
Sul punto, i giudici d’appello evidenziano in primo luogo come il Tribunale di Milano abbia recentemente sostenuto, in due diverse occasioni[4], la mancanza di prova in ordine all’esistenza di una legge scientifica capace di affermare l’effettiva sussistenza del c.d. “effetto acceleratore” connesso al protrarsi dell’esposizione ad amianto (v. p. 44).
Con riferimento alla giurisprudenza di legittimità richiamata dalla pubblica accusa, la Corte d’Appello rileva, invece, che sarebbe errato discutere se la Cassazione abbia mai ritenuto o escluso l’esistenza del fenomeno dell’accelerazione, posto che il compito precipuo della Suprema Corte è quello di “esprimere solo un giudizio di razionalità, di logicità dell’argomentazione esplicativa” fornita dal giudice di merito, “al quale solo compete “scegliere” la tesi scientifica da privilegiare” (v. p. 45-46).
La Corte valorizza, poi, l’esistenza di una pluralità di studi e pubblicazioni[5], più recenti di quelli posti alla base della decisione assunta dal giudice di prime cure, che avrebbero unanimemente evidenziato il permanere, a tutt’oggi, di importanti limiti conoscitivi in ordine al funzionamento del meccanismo di cancerogenesi da amianto.
I giudici milanesi escludono, dunque, che le conoscenze scientifiche oggi disponibili consentano di affermare con certezza l’esistenza del c.d. “effetto acceleratore” e, tuttavia, non prendono espressa posizione “di merito” sul punto, sul presupposto che la responsabilità degli imputati debba essere, in ogni caso, esclusa sotto il profilo soggettivo e che, dunque, ogni ulteriore considerazione in merito all’esistenza del nesso causale non sarebbe idonea a mutare l’esito del giudizio (v. p. 50).
3.2. La Corte d’Appello passa, quindi, ad analizzare i principali motivi di doglianza prospettati dagli imputati proprio in punto di posizione di garanzia e di elemento soggettivo del reato.
3.2.1. In proposito, i giudici di appello ritengono necessario, preliminarmente, delineare i contorni della nozione di “datore di lavoro”.
Il giudice di prime cure aveva ritenuto che in tale nozione dovesse ricomprendersi anche la figura del consigliere di amministrazione senza deleghe, dal momento che, nelle imprese gestite da società di capitali, “gli obblighi inerenti alla prevenzione degli infortuni ed igiene sul lavoro, posti dalla legge a carico del datore di lavoro, gravano indistintamente su tutti i componenti del consiglio di amministrazione” (v. p. 51).
In particolare, il GUP individuava la fonte di tale “esteso” dovere giuridico di impedire l’evento dannoso nel disposto dell’art. 2392 c.c. che – almeno nella formulazione anteriore alla riforma del diritto societario intervenuta nel 2003 – riconosceva la solidale responsabilità di tutti i consiglieri nei confronti della società, nelle ipotesi di omessa vigilanza sul generale andamento della gestione o di mancata attivazione, a fronte della conoscenza di fatti pregiudizievoli, allo scopo di attenuarne le conseguenze dannose.
A conferma di tale impostazione, il GUP pavese aveva richiamato gli arresti giurisprudenziali relativi alla delega di gestione, in forza dei quali il mandato ad personam non è idoneo a escludere la posizione di garanzia facente capo ai singoli componenti del consiglio di amministrazione, ma soltanto a ridurne la relativa portata, permanendo in capo a ogni consigliere il dovere di controllo sul generale andamento della gestione e di intervento sostitutivo in caso di mancato esercizio della delega.
Nel caso specifico, peraltro, gli interventi di carattere preventivo auspicabili e omessi sarebbero stati “tali e tanti da comportare provvedimenti di mutamento radicale dell’azienda (…) di tale onerosità e di tale portata che potevano essere adottati solo dal c.d.a., dunque dagli imputati” (v. p. 52).
3.2.2. Il ragionamento del GUP non è condiviso dalla Corte d’Appello, la quale ritiene che il giudice di prime cure avrebbe, anzitutto, erroneamente mancato di considerare che gli imputati “materialmente non avrebbero potuto adottare in autonomia nessun presidio né individuale né collettivo” (v. p. 64).
A tal proposito, i giudici milanesi considerano dirimente il fatto che la Fibronit fosse parte di un complesso societario amministrato da un board decisionale forte e accentratore – coincidente, di fatto, con la famiglia proprietaria dell’intero gruppo societario – e che, nello specifico, tutti i poteri in materia di acquisti e di spesa non facessero capo al c.d.a. di tale società controllata, ma fossero stati espressamente conferiti alla holding capogruppo (v. p. 65-66).
3.2.3. Escluso, quindi, che i due imputati disponessero dei poteri tipici della figura datoriale, restava da stabilire se tali soggetti avessero correttamente esercitato il residuale dovere di vigilanza e controllo sull’andamento della gestione societaria previsto dall’art. 2392 c.c., dovere che assume un contenuto più o meno ampio a seconda che lo si valuti alla luce della formulazione della suddetta disposizione vigente all’epoca dei fatti in contestazione, o di quella risultante dalla novella legislativa in materia di diritto societario, intervenuta nel 2003.
La citata riforma ha, infatti, espunto dall’art. 2392 co. 2 c.c. il riferimento al generale e più pervasivo dovere dei singoli consiglieri di vigilare sull’andamento della gestione societaria, lasciando permanere in capo agli stessi soltanto un ridimensionato obbligo di “agire informati”, ovverosia l’obbligo di assumere periodicamente informazioni sulla gestione della società e, solo nel caso di conoscenza di fatti pregiudizievoli per la società, di attivarsi per impedirne il compimento o attenuarne gli effetti dannosi.
Ebbene, la sentenza rileva in prima battuta che, a voler ritenere retroattivamente applicabile la disciplina normativa risultante dalla novella legislativa del 2003 – in forza del disposto dell’art. 2 c.p., in quanto disciplina più favorevole per gli amministratori senza deleghe –, la responsabilità dei due consiglieri in relazione ai decessi verificatisi andrebbe esclusa, in quanto gli stessi non erano stati adeguatamente informati delle problematiche connesse alla lavorazione dell’amianto nello stabilimento di Broni, e, pertanto, non erano stati posti nella condizione di attivarsi per sollecitare la soluzione di tali problematiche da parte dei soggetti cui concretamente competevano i poteri decisionali e di spesa (v. p. 67).
In ogni caso, prosegue la sentenza, nessun rimprovero potrebbe essere mosso agli imputati neanche applicando il più generale e pervasivo dovere di vigilanza previsto dalla disciplina normativa anteriore alla riforma del 2003. Sulla base di tale disciplina, occorrerebbe infatti qui compiere due ordini di verifiche:
(i) accertare se gli imputati, in base alla situazione esistente al momento del proprio insediamento nel c.d.a., alle competenze maturate e alle mansioni svolte sino a quel momento, avrebbero potuto individuare le carenze esistenti nell’approntamento delle misure di prevenzione e se, alla luce delle conoscenze tecniche più evolute dell’epoca, tali carenze fossero o meno colmabili;
(ii) una volta accertata la conoscibilità delle carenze relative alla gestione societaria, valutare se l’impiego degli strumenti concretamente a disposizione dei due consiglieri per fare emergere il proprio dissenso avrebbe determinato l’attivazione di misure preventive ulteriori rispetto a quelle già attuate da parte dei soggetti competenti e tali da impedire il verificarsi degli eventi lesivi occorsi.
3.2.4. In relazione al primo punto, la Corte d’Appello ritiene, anzitutto, che i due appellanti non potessero considerarsi, all’epoca dei fatti, “profondamente a conoscenza delle problematiche connesse al processo produttivo dell’azienda”, sia in quanto gli stessi non possedevano – secondo quanto emerso dall’analisi delle relative carriere – alcuna competenza tecnica specifica in materia di amianto, sia in considerazione della lontananza fisica dello stabilimento di Broni dai luoghi di lavoro degli imputati (v. p. 70).
Peraltro, alla luce della situazione dello stabilimento rilevabile al momento dell’ingresso dei due appellanti nel c.d.a. della società, doveva altresì escludersi la possibilità, per tali soggetti, di avvedersi della pretesa insufficienza delle cautele adottate dall’azienda a tutela dei lavoratori.
A tal proposito, la Corte sottolinea, in particolare, che la salubrità degli ambienti di lavoro era migliorata in conseguenza dell’automatizzazione del processo produttivo intervenuta pochi anni prima dell’insediamento dei due amministratori in consiglio; che gli enti competenti avevano svolto tutti i controlli previsti dalla legge senza che, in esito a tali accertamenti, fossero state formulate contestazioni amministrative o riscontrate contravvenzioni in ambito penale; che, in azienda, risultavano essere stati sempre rispettati i valori limite di concentrazione di amianto previsti ex lege; che, infine, non si erano mai registrate lagnanze in sede sindacale: elementi, questi, tutti idonei a dimostrare che i due soggetti non avevano (né, ragionevolmente, avrebbero potuto avere) contezza dell’eventuale inadeguatezza del sistema prevenzionale predisposto dall’azienda a tutela della salute dei lavoratori (v. p. 77).
3.2.5. Quanto al secondo punto, la Corte esclude che i due imputati, all’epoca dei fatti, fossero titolari di poteri idonei a incidere sulle decisioni aziendali in tema di sicurezza sul lavoro e tali da garantire un’implementazione delle misure di sicurezza predisposte a tutela dei lavoratori da parte dei soggetti dotati delle prerogative datoriali.
In proposito, da un lato e in via generale, i giudici di Milano rilevano che “poteri impeditivi effettivi” possono riconoscersi soltanto in capo all’organo consiliare in quanto tale, mentre i singoli amministratori (in particolare quelli privi di delega) – che, normalmente, esauriscono la propria attività con l’esercizio del diritto di voto – sarebbero dotati di “una capacità di sollecitazione indiretta, solo astrattamente idonea ad attivare una procedura di controllo da parte di autorità terze” (v. p. 80).
A sostegno di tale conclusione, la Corte mette in luce i limiti connaturati alla qualifica di amministratore non operativo: il vincolo di collegialità derivante dalla concezione unitaria e organica del Consiglio di Amministrazione; la mancata previsione di autonomi poteri di indagine in favore dei singoli consiglieri; l’insussistenza di un generale obbligo di denuncia all’autorità giudiziaria in capo ai medesimi soggetti; l’inidoneità del potere di impugnazione delle delibere consiliari a impedire fatti criminosi la cui genesi e il cui sviluppo hanno luogo al di fuori della sede consiliare, esattamente come nel caso di specie, ove le decisioni di più alto rango venivano assunte nell’ambito del c.d.a. della holding capogruppo.
Dall’altro lato, la Corte rileva come, nel caso concreto, l’eventuale attivazione dei poteri di vigilanza da parte dei due consiglieri non sarebbe stata, in ogni caso, idonea a indurre i soggetti dotati delle prerogative datoriali ad assumere ulteriori e più pregnanti iniziative a tutela dei lavoratori, in considerazione del fatto che “un board decisionale tanto forte e tanto compatto (…) mai avrebbe tenuto in conto le doglianze degli odierni appellanti soprattutto alla luce delle spese costose fatte da pochi anni in linea con la tecnologia più avanzata allora disponibile” (v. p. 82).
In conclusione, la Corte ritiene dunque che, anche a voler ritenere applicabile al caso concreto l’art. 2392 c.c. nella formulazione vigente all’epoca dei fatti in contestazione, nessun rimprovero potrebbe essere mosso ai due imputati in relazione ai decessi in concreto verificatisi, posto che gli stessi “oltre a non essere in grado di percepire l’ipotizzata inadeguatezza dei sistemi adottati dalla dirigenza per contenere l’esposizione dei lavoratori alle polveri, certamente non erano in condizione di stimolare l’adozione di altre, più moderne e specifiche cautele prevenzionali” (v. p. 86).
3.2.6. La Corte affronta infine il tema relativo all’esistenza o meno, all’epoca dei fatti, di soluzioni tecniche più avanzate di quelle in concreto attuate dall’azienda per ridurre la polverosità degli ambienti di lavoro e limitare, in conseguenza, l’esposizione ad amianto dei lavoratori: problema la cui soluzione – chiariscono subito i giudici di Milano – “non è alla portata di questa Corte, né lo era del primo giudice” (v. p. 82).
In proposito, innanzitutto, la Corte critica la teoria in forza della quale i limiti di concentrazione di fibre di amianto previsti ex lege costituirebbero solamente una “soglia di allarme”, il cui rispetto non sarebbe sufficiente a escludere la responsabilità del datore di lavoro, dovendo, in ogni caso, riconoscersi in capo a quest’ultimo l’obbligo di approntare tutte le misure possibili – in base alle conoscenze e al progresso tecnico di ogni epoca – per eliminare o ridurre al minimo i rischi connessi alla presenza di polveri di amianto sui luoghi di lavoro.
In primo luogo, infatti, il concetto di “soglia di allarme” sarebbe del tutto evanescente, considerato che “se il valore di riferimento deve intendersi come un limite invalicabile allora il mero rispetto delle dosi di TLV (…) [dovrebbe] essere sufficiente a escludere la responsabilità, mentre se va inteso come dato del tutto irrilevante non si comprende perché il legislatore si sia occupato nel corso degli anni di farsi carico di una simile valutazione”; in secondo luogo, tale lettura del dato normativo – giustificata dalla necessità di non rinunciare a “coprire una certa quantità di rischi ed una certa fascia marginale di soggetti (…) ipersensibili o ipersuscettibili all’azione di quel determinato agente nocivo” – non troverebbe, nei fatti, applicazione in numerosi altri settori dell’ordinamento, che pongono a fondamento della responsabilità penale proprio i limiti di tollerabilità di sostanze nocive (v. p. 83).
D’altra parte – prosegue la Corte –, “anche volendosi attestare su un così severo criterio”, considerato che, almeno a partire dalla metà degli anni ’80, è stato dimostrato che anche una modestissima esposizione all’amianto è idonea a generare l’insorgenza del mesotelioma e che non esistono soglie al di sotto delle quali la salute del lavoratore può considerarsi garantita, allora “la conclusione cui dovrebbe, se pure a posteriore, giungersi è che in assenza di presidi idonei ad abbattere completamente le fibre, le aziende del settore avrebbero dovuto chiudere” (v. p. 84).
Tale conclusione – rimarca tuttavia la Corte – “non si legge in nessuna delle sentenze che si occupano dell’argomento, che si trincerano dietro un sistematico e genericissimo rimprovero di inadeguatezza delle misure di sicurezza adottate secondo le conoscenze tecniche più avanzate, pur senza mai individuare quelle effettivamente adottabili”; d’altro canto, concludono i giudici milanesi, giungere a tale affermazione equivarrebbe “da un lato (…) a traghettare acriticamente le conoscenze solo oggi acquisite a fatti accaduti come minimo 20 anni prima delle decisioni e, dall’altro, a sottovalutare il problema sociale che la perdita di posti di lavoro che un’azienda delle dimensioni e in piena attività (…) come la Fibronit avrebbe comportato” (v. p. 84).
[1] Rectius 2008: si tratta, evidentemente, di un errore materiale, posto che la stessa Corte calcola in 15 anni il termine di prescrizione.
[2] Tesi secondo la quale, si legge in sentenza, “il prolungamento all’esposizione aumenta il rischio di contrarre la patologia o riduc[e] il tempo di latenza” (p. 41).
[3] Tesi in forza della quale, per l’insorgenza del mesotelioma sarebbe “sufficiente una dose estremamente bassa [di fibre di amianto], con la conseguenza che una volta inalate le fibre idonee a causare la patologia, l’ulteriore esposizione (…) non [avrebbe] rilevanza eziologica” (p. 41).
[4] Trib. Milano, Sez. V, sent. 30.04.2015; Trib. Milano, Sez. V, sent. 28.02.2015.
[5] La Corte richiama, in particolare, i seguenti studi: "Non neoplastic e neoplastic pleural endpoints following fiber exposure" di Broaddus, Everitt, Black e Kane (2011); "Elucidation of Asbestos induced mesothelial carcinogenesis toward prevention" di Jiang e Toyokuni (2011); "Il Mesotelioma maligno della Pleura: quesiti epidemiologici per la sanità pubblica”. Rapporto della Seconda Conferenza di Consenso Italiana della Pleura (2012); "Malignat mesotheliomas in former miners and millers of crocidolite at Wittenoom (Western Australia) after more than 50 years follow up" di Berry, Reid, Abboagye-Sarfo, de Klerk, Olsen, Merler, Franklin, Musk (2012); studio condotto dalle dott.sse Anne Helen Harding e Gillian Frost quali membri di un ente pubblico della Gran Bretagna istituito nel 1974, l'Health and Safe Executive; “The latency period of mesothelioma among a cohort of British asbestos workers” di Frost (2013); “Response to comment on ‘The latency period of mesothelioma among a cohort of British asbestos workers” di Frost (2014).