ISSN 2039-1676


14 dicembre 2015 |

Il processo agli ex dirigenti dell'industria Franco Tosi. Il Tribunale di Milano si confronta ancora una volta con i problemi connessi all'esposizione ad amianto

Trib. Milano, Sez. V, sent. 30 aprile 2015 (dep. 15 luglio 2015), Giud. Cannavale, imp. Conti e altri

 

1. Dopo la recente sentenza sul caso dei lavoratori della centrale di Turbigo morti per patologie asbesto-correlate[1], la quinta sezione penale del Tribunale di Milano torna nuovamente ad affrontare il tema della responsabilità penale per eventi lesivi derivanti dall'esposizione ad amianto, questa volta nell'ambito del processo a carico di otto ex dirigenti dell'industria meccanica-elettromeccanica Franco Tosi, accusati di omicidio colposo in relazione alla morte di trentaquattro ex dipendenti, di cui trentatré deceduti per mesotelioma pleurico e uno per adenocarcinoma polmonare.

Con un ragionamento che ricalca perfettamente quello sviluppato nella sentenza Turbigo, il Tribunale di Milano, dopo aver riconosciuto che sul tema dei meccanismi di sviluppo del mesotelioma persistono tuttora molti interrogativi irrisolti dal punto di vista scientifico - in particolare, quello relativo all'esistenza di un effetto acceleratore della patologia determinato dal prolungarsi dell'esposizione -, ha assolto gli imputati dai reati loro ascritti, ritenendo non essere stata provata la sussistenza del nesso di causa tra le esposizioni ad amianto subite dalle persone offese nei periodi di tempo in cui gli imputati rivestivano la posizione di garanzia e i singoli eventi mortali di cui ai capi di imputazione.

Questi, in estrema sintesi, i principali passaggi in cui si articola la motivazione della sentenza.

 

2. In via del tutto preliminare, la sentenza esclude immediatamente qualsiasi profilo di responsabilità penale in capo a sette degli otto imputati nel processo. Questi ultimi, infatti, risultavano aver ricoperto le rispettive posizioni di garanzia solo per tempi molto brevi - tutti inferiori a un anno e dieci mesi -, tra il 1988 e il 1992, e a distanza di venti o trent'anni da quando le persone offese avevano iniziato a lavorare presso la società Franco Tosi (anni sessanta e settanta). Sulla base di questi elementi, lo stesso pubblico ministero aveva chiesto l'assoluzione per questi sette imputati. Dello stesso avviso è il giudice, che ritiene "assolutamente evidente come soggetti che hanno rivestito le posizioni apicali per periodi comunque inferiori all'anno e dieci mesi ed intorno al 1990 non possano seriamente essere ipotizzati come responsabili per decessi di lavoratori già esposti da anni" (pag. 40). Senza contare che agli inizi degli anni novanta, grazie alle iniziative intraprese dalla società per eliminare la presenza dell'amianto, l'esposizione dei lavoratori risultava molto più contenuta rispetto a quella subita nel corso dei decenni precedenti. Peraltro, il Tribunale afferma che "le condotte dei legali rappresentanti possono essere ritenute idonee a radicare il giudizio di responsabilità nel caso si siano protratte per periodi non inferiori ai due anni" (pag. 41), ritenendo che questo sia il tempo concretamente necessario a ciascun garante per intraprendere le iniziative in tema di sicurezza sul lavoro; un tempo inferiore, viceversa, non consentirebbe ai legali rappresentanti di una società di venire a conoscenza delle problematiche connesse all'attività lavorativa e operare i dovuti approfondimenti tecnici.

 

3. Fatta tale premessa, il Tribunale si occupa, anzitutto, di ricostruire le condizioni di lavoro dei dipendenti della società Franco Tosi nel periodo definito dal capo di imputazione, ricompreso tra il 1973 e il 1992. A tale riguardo, il giudice osserva che le dichiarazioni rese in sede di sommarie informazioni testimoniali, le consulenze tecniche e la copiosa documentazione reperita presso la società avrebbero dimostrato l'uso massiccio di amianto, quantomeno fino al 1978. Successivamente, a partire dal 1980, l'amianto sarebbe stato progressivamente rimosso, anche se la bonifica definitiva sarebbe poi avvenuta solo nel 2002.

Per quanto concerne l'individuazione delle fonti di esposizione, la sentenza precisa che il contatto dei lavoratori con l'amianto era dovuto "all'utilizzo di questo materiale quale protezione termica per mantenere i pezzi in temperatura, isolante per consentire il raffreddamento graduale, isolante per proteggere i lavoratori dalle temperature. Inoltre, l'esposizione era dovuta allo sviluppo ed alla dispersione nell'ambiente di polveri e fibre, a causa dello sfaldamento tipico del materiale. Infine, non era ovviata la dispersione dell'amianto negli ambienti né dall'uso di idonee forme di aspirazione, né dalla separazione degli ambienti in cui le polveri si disperdevano rispetto agli altri locali" (pag. 46). Alla luce di tali evidenze, il giudice conclude che "la presenza dell'amianto nella società indica in modo pacifico che i lavoratori vi fossero esposti". "E ciò" - prosegue la sentenza - "sebbene l'intensità delle esposizioni dei singoli al materiale variasse a seconda delle mansioni svolte [...] ed a seconda delle epoche dell'impiego in società" (pag. 54).

  

4. Dimostrata così l'effettiva esposizione dei lavoratori all'agente cancerogeno, e rinviando all'analisi dei singoli casi la verifica della correttezza delle diagnosi di mesotelioma, il Tribunale passa quindi a esaminare la delicata questione dell'accertamento del nesso di causalità tra le condotte contestate a ciascun imputato e i singoli decessi per mesotelioma pleurico delle persone offese.

Il Tribunale chiarisce che la verifica circa la sussistenza del nesso causale, in questo caso, non può prescindere dalla risoluzione di due problemi fondamentali: (i) la quantificazione della durata del periodo di induzione del mesotelioma; (ii) l'esistenza o meno di una legge scientificamente affidabile afferente l'esistenza di una correlazione tra aumento dell'esposizione e riduzione dei tempi di latenza.

 

5. Il primo punto cruciale, dunque, è rappresentato dalla definizione temporale della c.d. fase di induzione del mesotelioma, la quale, secondo il modello multistadio di cancerogenesi ormai condiviso da tutta la comunità scientifica, rappresenta il periodo che intercorre tra l'iniziazione della prima cellula tumorale (vale a dire il momento in cui avviene la prima mutazione cellulare per effetto del contatto con l'agente cancerogeno) e il momento in cui, a seguito della replicazione delle cellule iniziate, il tumore diventa autonomo e irreversibile. Il giudice osserva che è di fondamentale importanza chiarire quando possa dirsi conclusa tale fase, in quanto "è comunemente accettato che le esposizioni successive al completamento dell'induzione devono essere considerate irrilevanti nella storia del mesotelioma; dopo questo momento se anche l'esposizione all'agente cancerogeno venisse sospesa, il tumore procederebbe autonomamente" (pag. 63).

Stabilito che le esposizioni eziologicamente rilevanti per lo sviluppo della neoplasia sono solo quelle subite fino a induzione completata, il giudice rileva quindi che, come ammesso dallo stesso consulente dell'accusa e come condiviso dai consulenti tecnici delle difese, "il sapere scientifico non è in grado di indicare con certezza quale sia la durata del periodo di induzione" (pag. 82). Il Tribunale, dunque, conclude che "se non è noto quanto dura il periodo di induzione, è impossibile stabilire [...] quali esposizioni debbano considerarsi anteriori e quali successive alla sua fine e, dunque, quali esposizioni siano state effettivamente rilevanti nel determinare la malattia e la morte" (pag. 82).

 

6. Sulla scorta di questa prima conclusione, la sentenza passa quindi ad affrontare la seconda e più complessa questione, riguardante l'esistenza o meno di una correlazione tra aumento dell'esposizione e riduzione dei tempi di latenza. Ciò, sebbene lo stesso giudice rilevi come l'assenza di indicazioni circa la durata del periodo di induzione sarebbe in ogni caso sufficiente a escludere la sussistenza del nesso causale nel caso di specie: "non essendo possibile individuare, nel singolo caso, il momento della fine dell'induzione, in relazione a nessuno dei decessi può dirsi sussistente la causalità individuale" (pag. 64).

Per rispondere comunque a tale interrogativo, il Tribunale, in conformità alle indicazioni fornite dalla sentenza Cozzini[2], ritiene necessario verificare se esista o meno un'affidabile legge scientifica che consenta di affermare l'esistenza di un "effetto acceleratore" del processo carcinogenetico determinato dalla protrazione dell'esposizione all'agente nocivo. In altre parole, si tratta di accertare, sulla base delle attuali conoscenze scientifiche, se la protrazione dell'esposizione possa accelerare il processo di carcinogenesi, diminuendo i tempi di latenza e, quindi, anticipando l'evento mortale. Come evidenziato dal giudice, solo la prova dell'esistenza di questo effetto acceleratore consentirebbe di attribuire rilievo causale alle condotte degli imputati che hanno determinato la protrazione dell'esposizione all'agente cancerogeno anche dopo l'iniziazione del mesotelioma.

Questo specifico tema è recentemente divenuto oggetto di un acceso dibattito in ambito scientifico, come confermano le teorie diametralmente opposte presentate, sul punto, dai consulenti dell'accusa e della difesa nel corso dell'istruttoria dibattimentale.

 

7. In particolare, il consulente dell'accusa ha dichiarato di condividere il punto di vista di alcuni autori, secondo cui a un aumento della dose di esposizione all'agente cancerogeno conseguirebbe un accorciamento del periodo di latenza. Secondo il parere da questi riferito, tale correlazione sarebbe dimostrata a livello sia matematico, sia epidemiologico.

Dal punto di vista matematico, il consulente ha illustrato la formula matematica di J. Peto[3], elaborata per analizzare l'incidenza della malattia - ossia il numero di casi che si verificano nel corso del tempo nell'ambito di una determinata popolazione - al variare della dose. Come indicato da tutti i consulenti sentiti nel processo, la suddetta formula consente certamente di concludere che l'incidenza della malattia è funzione lineare della dose (all'aumentare della dose, aumenta nella stessa proporzione l'incidenza), e funzione esponenziale della latenza (se aumenta la latenza, l'incidenza aumenta in potenza). L'esperto dell'accusa, però, va oltre, sostenendo che da tale formula potrebbe altresì ricavarsi la dimostrazione dell'esistenza di un effetto acceleratore del decorso della malattia determinato dal protrarsi dell'esposizione. Ragionando esclusivamente in termini matematici, se l'incidenza della malattia non è altro che il prodotto della dose per la latenza, allora, data l'equazione "incidenza (I) = dose (D) x latenza (L)" e fissato il valore di I a una determinata grandezza, se aumenta il fattore D (dose), l'unico modo perché l'equazione non muti il valore di I (incidenza) è che il fattore L (latenza) diminuisca proporzionalmente all'aumentare di D. Da qui, secondo il consulente, la dimostrazione dell'esistenza dell'effetto acceleratore.

A livello epidemiologico, tali conclusioni troverebbero ulteriore conferma in uno studio condotto da Berry, nel 2007, sul tumore al polmone ("Relative risk and acceleration in lung cancer"). In questo studio, Berry sostiene l'esistenza di una correlazione tra aumento dell'esposizione e accelerazione del tumore polmonare che sarebbe dimostrata dai risultati ottenuti attraverso l'applicazione di un modello matematico da lui stesso elaborato; modello che il consulente dell'accusa ritiene possa essere applicato anche al mesotelioma pleurico.

I consulenti della difesa sottolineano, al contrario, come non vi siano, a oggi, prove scientifiche che consentano di affermare che a un aumento della dose corrisponda un aggravamento della patologia e una riduzione della sopravvivenza. Anzi, a loro avviso, il fenomeno non sarebbe mai stato osservato, né sarebbe osservabile.

In primo luogo, sebbene il ragionamento matematico proposto dal consulente dell'accusa sia corretto, gli esperti della difesa evidenziano come lo stesso Peto abbia affermato che lo scopo della formula è esclusivamente quello di analizzare l'aumento dell'incidenza del tumore all'aumentare della dose nel corso del tempo, e non quello di indagare come cambi la latenza al variare della dose. In secondo luogo, l'affermazione secondo cui, aumentando la dose, l'incidenza rimarrebbe fissa mentre la latenza diminuirebbe, sarebbe smentita da quanto dimostrano gli studi epidemiologici di settore, secondo i quali, quando aumenta la dose (o la durata dell'esposizione), aumenta sempre anche l'incidenza.

Con riferimento, poi, alle conclusioni dello studio di Berry del 2007, i consulenti si limitano a sottolineare come l'applicazione indiscriminata di questo modello al mesotelioma pleurico - una neoplasia dalle caratteristiche molto diverse rispetto al tumore polmonare, oggetto dello studio - condurrebbe a risultati inverosimili, non supportati da alcuna evidenza epidemiologica.

 

8. Cosi ricostruite le tesi esposte nel processo, il Tribunale riconosce come "non sia possibile [...] 'scegliere' quali teorie siano da accogliere per fondarvi le basi della decisione, ma vada preso atto dell'inesistenza di teorie universalmente condivise dalla scienza su alcuni aspetti" (pag. 64).

Anzitutto il giudice ritiene di condividere le osservazioni dei consulenti della difesa in ordine al tipo di informazioni che si possono trarre dall'applicazione della formula di Peto. Del resto, osserva il Tribunale, lo stesso Peto aveva dichiarato che "aumentare l'esposizione aumenta il rischio di sviluppare la malattia, ma non incide sulla durata del periodo di induzione" (pag. 84). Per quanto riguarda lo studio di Berry, il giudice, da un lato, ricorda che la sua applicabilità al mesotelioma è stata messa fortemente in discussione in ambito scientifico; dall'altro lato, sottolinea che i risultati di uno studio di popolazione non sono comunque sufficienti quando occorre accertare la causalità individuale: "Il passaggio dall'epidemiologia all'analisi del singolo caso, che giuridicamente è il passaggio dalla causalità generale alla causalità individuale, non consente di ritenere provata la penale responsabilità di nessun imputato" (pag. 85). La sentenza ricorda, peraltro, che lo stesso consulente dell'accusa ha riconosciuto che "non è possibile verificare per un singolo soggetto quale sia l'anticipazione reale, rispetto all'evento controfattuale di una non esposizione. L'anticipazione dell'evento (morte) nel singolo caso non è misurabile" (pag. 66). A tal proposito, viene inoltre richiamato un recente studio epidemiologico condotto da Frost, nel 2013, su una coorte di 98.912 lavoratori dell'asbesto della Gran Bretagna, seguiti dal 1978 al 2005[4]. Secondo l'autrice, i risultati di questo studio evidenzierebbero l'assenza di prove sufficienti per affermare che una maggior esposizione ad asbesto conduca a latenze più brevi. Peraltro, queste conclusioni sono state ulteriormente confermate dalla stessa Frost in un articolo pubblicato nel 2014[5], in risposta alle critiche che alcuni autori italiani avevano rivolto allo studio del 2013.

In virtù di tali considerazioni, la sentenza dichiara che "l'istruttoria dibattimentale non ha fornito la prova dell'esistenza di una legge scientifica dimostrativa dell'esistenza del c.d. effetto acceleratore della protrazione dell'esposizione" (pag. 80). "Non è dunque possibile" - osserva il Tribunale - "affermare se, nei singoli casi sottoposti all'esame, la protrazione dell'esposizione nel corso degli anni abbia determinato una riduzione del periodo di induzione, accelerando l'evento-morte" (pag. 85). La sentenza, infatti, precisa che, di fronte a un dibattito ancora aperto in ambito scientifico, "altro non può fare un giudice che non si voglia arrogare compiti non propri che prendere atto della diatriba scientifica ancora aperta e fermarsi" (pag. 80). Pertanto, conclude il Tribunale, "nei casi oggetto del presente processo [...] non può ritenersi provato il collegamento causale tra le condotte degli imputati ed i decessi di cui alle imputazioni" (pag. 86).

 

9. Per quanto riguarda, invece, l'unico caso di decesso per adenocarcinoma polmonare, il Tribunale evidenzia come questo tipo di neoplasia sia "policausale", potendo essere provocato, oltre che dall'abitudine al fumo di sigaretta, anche dall'esposizione ad amianto. A tale riguardo, la sentenza precisa che, come sostenuto in tutte le consulenze tecniche, "la comunità scientifica è ormai concorde nel ritenere che questo tipo di patologia sia correlato a esposizioni ad amianto cumulative superiori a 25 fibre /ml/anni, che è la stessa soglia minima richiesta per la riconducibilità causale all'esposizione all'amianto per l'asbestosi" (pag. 75). Preso atto dell'impossibilità di quantificare in termini di fibre/anno l'esposizione subita dal lavoratore - impossibilità confermata anche dal consulente del pubblico ministero -, e non essendo noto se la persona offesa fosse fumatrice, il Tribunale non considera "raggiunta la prova che l'esposizione alle polveri di amianto abbia avuto efficacia causale nell'insorgenza della malattia tumorale che ha determinato il decesso della persona offesa. In altri termini, non è possibile affermare [...] che la patologia si sia ingenerata a causa dell'esposizione per quel periodo alle polveri di amianto inalate [...]." (pag. 75).  

 

10. Sulla scorta di tali osservazioni, per ventotto casi di mesotelioma il Tribunale assolve tutti gli imputati con la formula "per non aver commesso il fatto", mentre per cinque casi di mesotelioma, in relazione ai quali non risultava confermata la diagnosi, e per l'unico caso di decesso per adenocarcinoma polmonare, gli imputati vengono assolti "perché il fatto non sussiste".

 

11. Pur non essendo questa la sede per un commento approfondito della sentenza, a parere di chi scrive, la pronuncia in esame si segnala quale esempio di corretta applicazione dei principi espressi dalla sentenza Cozzini, che, proprio con riferimento al problema dell'effetto acceleratore, ha precisato in termini rigorosi i criteri ai quali deve attenersi il giudice nella scelta della legge scientifica di copertura, soprattutto in presenza di una pluralità di teorie esplicative tra loro contrastanti. Secondo l'ormai noto insegnamento reso dalla Suprema Corte, il giudice, tra le diverse teorie prospettate dagli esperti, deve prendere in considerazione, ove sia effettivamente possibile, solo quelle su cui si registra un preponderante e condiviso consenso in ambito scientifico, astenendosi dal ritenere apoditticamente esistente una relazione causale in realtà scientificamente non dimostrata.

Come osservato dal Tribunale di Milano, le contrapposte teorie fornite dai consulenti di accusa e difesa dimostrano come il dibattito sull'esistenza dell'effetto acceleratore sia tuttora aperto e non sia ancora giunto a una conclusione comune. Appare dunque condivisibile quanto sostenuto dal Tribunale, laddove chiarisce che l'assenza di una risposta univoca a tale interrogativo esclude, di per sé, l'esistenza di una legge scientifica affidabile che consenta di affermare che il protrarsi dell'esposizione riduce i tempi di latenza, anticipando l'evento morte.

Dobbiamo tuttavia segnalare che sul tema dell'effetto acceleratore l'incertezza non sembra riguardare solamente l'ambito scientifico, ma anche - e in modo decisamente più preoccupante - quello giurisprudenziale. È sufficiente dare un rapido sguardo alle pronunce dell'ultimo anno in tema di amianto, per rendersi conto dell'esistenza di un contrasto su questo specifico tema, sia tra le sentenze di legittimità, sia tra quelle di merito.

Da un lato, si registrano sentenze che escludono che vi sia un condiviso consenso da parte della comunità scientifica in ordine all'esistenza di una correlazione tra aumento dell'esposizione e riduzione dei tempi di latenza. Come anticipato all'inizio di questa scheda, oltre al caso in esame, il Tribunale di Milano era giunto alle medesime conclusioni anche in un'altra sentenza[6], nella quale, sulla base di argomenti del tutto analoghi, era stata esclusa la sussistenza del nesso causale tra le condotte degli imputati e i decessi per mesotelioma delle persone offese. Dall'altro lato, vi sono sentenze che, anche in ragione del modo con cui alcune teorie vengono presentate nel processo da parte dei consulenti, sostengono invece la soluzione opposta. Ad esempio, in un recente caso[7], la Corte di Cassazione, dopo aver riconosciuto la razionalità e la logicità dell'itinerario argomentativo compiuto dalla Corte d'Appello, ha confermato la condanna degli imputati, sostenendo che i giudici di merito avessero ben argomentato in ordine alla piena convergenza di opinioni della comunità scientifica internazionale sul fatto che le esposizioni successive a quelle di innesco della malattia abbreviano la latenza, anticipando la morte[8].

È interessante notare, peraltro, che tutte le pronunce sopra richiamate giungono a soluzioni contrapposte, pur dichiarando, tutte, di porsi nel pieno rispetto dei principi espressi dalla sentenza Cozzini.

Ora, a prescindere dalla fondatezza del primo o del secondo orientamento, la contraddittorietà che si registra attualmente all'interno della giurisprudenza rende, di fatto, impossibile poter prevedere quale possa essere l'esito dei processi in cui si discute della responsabilità penale per esposizione ad amianto. Posto che tale incertezza non può essere eliminata esclusivamente attraverso l'impiego dei criteri fissati dalla sentenza Cozzini, i quali, come già osservato, sono costantemente richiamati e utilizzati da tutte le pronunce successive al 2010, diviene allora imprescindibile fare il punto, una volta per tutte, su quale sia lo stato delle attuali conoscenze scientifiche sui meccanismi di sviluppo del mesotelioma, e, soprattutto, chiarire quali  informazioni possono concretamente ricavarsi - in termini di certezza - dalla letteratura e dagli studi scientifici condotti su questo tema.

 


[1] Trib. Milano, 28 febbraio 2015, n. 2161, pubblicata su questa Rivista, in data 21 luglio 2015, con nota di V. Jann "Esposizione ad amianto e mesotelioma pleurico: il Tribunale di Milano affronta il tema dell'accertamento del nesso di causalità nel caso di esposizioni prolungate".

[2] Cass. pen., sez. IV, 17.9.2010, n. 43786, pubblicata su questa Rivista, in data 11 gennaio 2011, con nota di S. Zirulia "Amianto e responsabilità penale: causalità ed evitabilità dell'evento in relazione alle morti derivate da mesotelioma pleurico".

[3] I = K · F · [(t - t1)4 · (t - t2)4], in cui: I = incidenza; K = costante determinata dal tipo di fibra considerata; F = è la dose (intensità dell'esposizione); t = età alla diagnosi; t1 = età all'inizio dell'esposizione; t2 = età alla fine dell'esposizione; (t-t1) = latenza; (t-t2) = tempo trascorso tra la fine dell'esposizione e la diagnosi.

[4] G. Frost, "The latency period of mesothelioma among a cohort of British Asbestos Workers, 1978-2005", pubblicato su British Journal of Cancer, 2013;

[5] G. Frost, "Response to comment on The latency period of mesothelioma among a cohort of British Asbestos Workers, 1978-2005", pubblicato su British Journal of Cancer, 2014.

[6] Trib. Milano, 28 febbraio 2015, n. 2161;

[7] Cass. pen., sez. IV, 21 novembre 2014 (dep. 16 marzo 2015), n. 11128, pubblicata su questa Rivista, in data 13 aprile 2015, con nota di A. Bell "Le motivazioni della sentenza Fincantieri Palermo. La Cassazione torna a occuparsi di amianto";

[8] In senso analogo, il Tribunale di Mantova ha recentemente condannato alcuni ex dirigenti Montedison in relazione alla morte per patologie asbesto-correlate dei lavoratori del petrolchimico di Mantova, sostenendo, tra l'altro, l'esistenza di un preponderante e condiviso consenso da parte della comunità scientifica in ordine all'esistenza di una correlazione tra aumento dell'esposizione e accelerazione dell'evento. La sentenza è pubblicata su questa Rivista con nota di A. Bell, "Amianto e non solo: le motivazioni della sentenza di primo grado del maxi-processo a carico degli ex dirigenti Montedison del petrolchimico di Mantova".