ISSN 2039-1676


25 gennaio 2011 |

La responsabilità penale da esposizione dei lavoratori ad amianto

Un'indagine giurisprudenziale

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SOMMARIO:

 

1. Considerazioni introduttive: il “difficile bilancio” sulla giurisprudenza post Franzese.

 

2. Le questioni poste dalla responsabilità penale da esposizione dei lavoratori ad amianto: tra causalità e colpa.

 

3. La spiegazione dell’evento. L’orientamento giurisprudenziale meno recente fondato sull’aumento del rischio.

3.1. Gli orientamenti giurisprudenziali più recenti basati sulla spiegazione dell’evento: tra dose-dipendenza e incertezza scientifica.

3.2. Critica dell’orientamento giurisprudenziale basato sulla dose-dipendenza.

3.3. Critica dell’orientamento giurisprudenziale basato sull’incertezza scientifica.

 

4. I decorsi causali alternativi.

 

5. Le problematiche della colpa. Una breve premessa: pericolo, rischio, “voluntas legis” nella formulazione della regola cautelare. 

 

6. La prevedibilità in astratto: le conoscenze utilizzate per la formulazione della regola cautelare.

 

7. La prevedibilità in concreto: la c.d. concretizzazione del rischio.

 

8. L’evitabilità in astratto: l’efficacia del comportamento alternativo lecito.

 

9. La questione del “residuo di colpa”.

 

10. La prevedibilità del soggetto agente ovvero la misura c.d. soggettiva della colpa.

 

11. Considerazioni conclusive.

 

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1. Considerazioni introduttive: il “difficile bilancio” sulla giurisprudenza post Franzese

 

A distanza di quasi dieci anni manca ancora un’indagine dettagliata e organica sulla giurisprudenza successiva alla sentenza Franzese, ragion per cui non si è in condizione di sapere quale sia stato il reale impatto di questa sentenza e se abbia davvero determinato una sorta di punto di svolta nel contenimento di quegli orientamenti giurisprudenziali precedenti alla sua emissione ritenuti, a volte, troppo disinvolti nell’imputare eventi offensivi[1]. Posto infatti che la sentenza Franzese ha senza dubbio segnato un passaggio fondamentale sul piano ermeneutico, risolvendo un contrasto giurisprudenziale che si era fatto pericolosamente sterile e asfittico dal punto di vista argomentativo (il confronto si era irrigidito in una sorta di “lotta fra numeri”), ad oggi, però, per quanto riguarda il rispetto dei principi di garanzia, non vi sono elementi per dire se tale sentenza abbia tracciato binari che si muovono sul solido terreno del pieno rispetto delle garanzie oppure se porti in sé ambiguità irrisolte che adombrano possibili violazioni del principio della personalità della responsabilità penale.  

 

Le uniche riflessioni sul tema possono essere così sintetizzate: la giurisprudenza più recente si richiama alla sentenza Franzese in termini più formali che sostanziali, con la conseguenza che quel rigore da essa richiesto nell’accertamento del nesso causale viene in realtà costantemente disatteso[2]. Sottesa a questa affermazione v’è quindi l’idea che la sentenza Franzese, adottando una soluzione rispettosa dei principi di garanzia, abbia segnato quel punto di svolta che si auspicava e che pertanto la giurisprudenza successiva tenda – per così dire – a tradire la soluzione indicata.

 

In verità, vi sono fondate ragione per ritenere che le cose stiano in termini molto più complessi. A me pare, infatti, non solo che la giurisprudenza successiva alla sentenza Franzese si sia attenuta ai principi di diritto da quest’ultima enunciati, ma anche che i persistenti sospetti di scarso rigore nell’accertamento della causalità siano da imputare più alla stessa pronuncia delle Sezioni Unite che agli orientamenti posteriori.

 

In particolare, ad un’attenta analisi, ci si rende conto che la grande novità della sentenza Franzese non è stata tanto la strutturazione bifasica dell’accertamento causale, né l’accento posto sulla esclusione dei decorsi causali alternativi o comunque sulla necessità di una conferma ex post dell’ipotesi formulata ex ante. La grande novità sembra essere consistita piuttosto nell’aver introdotto il concetto di certezza c.d. processuale, basata sulla elevata probabilità logica o credibilità razionale, in sostituzione di quello della certezza c.d. assoluta[3]: «lo stesso modello condizionalistico orientato secondo leggi scientifiche – hanno affermato le Sezioni Unite – sottintende il distacco da una spiegazione di tipo puramente deduttivo, che implicherebbe un’impossibile conoscenza di tutti gli antecedenti sinergicamente inseriti nella catena causale […] Poiché il giudice non può conoscere tutte le fasi intermedie attraverso le quali la causa produce il suo effetto […] l’ipotesi ricostruttiva formulata in partenza sul nesso di condizionamento tra condotta umana e singolo evento potrà essere riconosciuta fondata soltanto con una quantità di precisazioni e purché sia ragionevolmente da escludere l’intervento di un diverso ed alternativo decorso causale. Di talché, ove si ripudiasse la natura preminentemente induttiva dell’accertamento in giudizio e si pretendesse comunque una spiegazione causale di tipo deterministico e nomologico deduttivo, secondo i criteri di utopistica “certezza assoluta”, si finirebbe col frustrare gli scopi preventivo-repressivi del diritto e del processo in settori nevralgici per la tutela dei beni primari […] Tutto ciò significa che il giudice […] è impegnato nell’operazione ermeneutica alla stregua dei comuni canoni di “certezza processuale”, conducenti conclusivamente, all’esito del ragionamento probatorio di tipo largamente induttivo, ad un giudizio di responsabilità caratterizzato da “alto grado di credibilità razionale” o “conferma” dell’ipotesi formulata sullo specifico fatto da provare»[4].

 

Detto in altri termini, per la sentenza Franzese la credibilità razionale, e quindi il ragionamento induttivo su cui tale credibilità di basa, sembrano giocare un ruolo decisivo non solo sul piano processuale, al momento della verifica probatoria del decorso causale ipotizzato, ma anche sul piano sostanziale, al momento della spiegazione del decorso causale, vale a dire della ricostruzione in astratto dell’ipotesi del decorso causale, e ciò perché la verifica probatoria concreta, caratterizzata dalla certezza c.d. processuale, finisce per sostituirsi alla certezza c.d. assoluta che invece dovrebbe caratterizzare la ricostruzione sostanziale e astratta del decorso. In sostanza, le Sezioni Unite lasciano intendere che decisivo ai fini della ricostruzione del nesso causale non è tanto il rigore della generalizzazione esplicativa astratta, quanto piuttosto la credibilità della ricostruzione del fatto concreto, con la conseguenza che la spiegazione può conoscere anche una sorta di flessibilizzazione, compensata poi dalla solidità della verifica probatoria.

 

Ebbene, quali le conseguenze di questa sostituzione, già sul piano sostanziale, della certezza c.d. assoluta con la certezza c.d. processuale? Per quanto riguarda il decorso causale c.d. ipotetico, e cioè l’indagine sull’efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito, tale sostituzione non sembra creare particolari problemi. Essa, infatti, non solo è plausibile, ma addirittura si attaglia perfettamente alla struttura predittiva e stocastica del decorso causale c.d. ipotetico: basandosi quest’ultimo decorso su una prospettiva prognostica, la certezza “sostanziale” alla quale si tende non può che essere una certezza “induttiva”, normo-valutativa. In sostanza, in un contesto predittivo parlare di certezza impeditiva assoluta è logicamente, prima ancora che normativamente, un controsenso. Tutt’al più può avere un senso parlare di certezza in ordine al possibile fallimento del comportamento dovuto (es. Tizio doveva essere sottoposto immediatamente a un E.C.G. che tuttavia è risultato guasto). La prospettiva prognostica determina, in sostanza, un mutamento di paradigma rispetto al quale lo stesso concetto di certezza non può che mutare, configurandosi come una certezza normativa in definitiva concettualmente (qualitativamente) identica alla certezza c.d. processuale, in cui a dominare non è la scienza esplicativa, ma il ragionamento logico-argomentativo. E non è un caso che la giurisprudenza successiva alla sentenza Franzese non solo si sia attenuta a tali indicazioni, continuando a riferirsi alle percentuali probabilistiche nella formulazione della prognosi, ma abbia anche offerto un contributo – per così dire – innovativo, dando rilievo alla c.d. “corroborazione dell’ipotesi”[5]. Così, ad esempio, nell’ambito della responsabilità medica, se da un lato si ritiene che l’evento non impedito sia imputabile sulla base di un’idoneità impeditiva basata su componenti percentualistiche, dall’altro lato si avverte l’esigenza di rafforzare il mero dato percentualistico attraverso considerazioni ulteriori che consentano di calarlo e verificarlo alla luce della situazione di fatto, con la conseguenza che il nesso “ipotetico” deve essere escluso allorquando ci si sia limitati a fare riferimento al comportamento alternativo lecito senza metterlo in relazione allo specifico caso concreto[6].

 

Per quanto riguarda il decorso causale c.d. reale, il ragionamento è invece diverso. Posto che rispetto a questo decorso entra in gioco una logica esplicativa in prospettiva ex post, il rapporto tra certezza assoluta e certezza c.d. processuale, basata sulla probabilità logica/credibilità razionale, necessita di alcuni chiarimenti. Ed infatti, se ai fini della spiegazione dell’evento la certezza c.d. processuale non si sostituisce a quella c.d. assoluta, non solo risulta rispettata la distinzione concettuale tra dimensione sostanziale e dimensione processuale del diritto penale, ma soprattutto risultano osservati i rispettivi princìpi di garanzia che governano tali dimensioni, e cioè, da un lato, il principio della personalità della responsabilità penale che ai fini della spiegazione di un evento richiede una spiegazione razionalmente controllabile, e quindi inevitabilmente scientifica; dall’altro lato, viene rispettato il principio della condanna oltre ogni ragionevole dubbio, il quale ammette ricostruzioni fattuali valutative, purché il giudizio si riveli per l’appunto fondato oltre ogni ragionevole dubbio. Perplessità invece sorgono se, ai fini della spiegazione dell’evento, la certezza c.d. processuale si sostituisce a quella c.d. assoluta, in quanto diviene possibile attenuare il rigore scientifico della generalizzazione esplicativa che si formula, aprendosi così margini per una possibile violazione del principio di garanzia della personalità della responsabilità penale.

 

E quanto appena affermato si comprende piuttosto bene con riferimento alla problematica della esclusione dei decorsi causali alternativi. Se infatti si ritiene che la certezza processuale si sostituisce a quella assoluta, l’esclusione dei decorsi causali alternativi diventa possibile anche se non si conoscono tutte le cause che possono determinare un certo evento, risultando sufficiente la presenza di alcuni elementi di fatto che siano idonei a rafforzare l’ipotesi. Se invece si ritiene che ai fini della spiegazione dell’evento sia necessaria la certezza assoluta, una legittima esclusione dei decorsi causali è plausibile solo se si conoscono tutte le possibili cause di verificazione di un determinato evento[7]. Detto in altri termini, parlare di certezza processuale in un contesto esplicativo è senza dubbio logicamente possibile, tuttavia sul piano normativo rischia di comportare una violazione del principio della personalità della responsabilità penale. E la giurisprudenza più recente, come vedremo tra poco, rispetto alla spiegazione dell’evento sembra essersi attenuta proprio a queste indicazioni “flessibilizzanti” elaborate dalla sentenza Franzese.

 

Ecco allora che, se volessimo compiere una sorta di primo bilancio “consuntivo” sulla giurisprudenza post Franzese, dovremmo riconoscere che essa si è attenuta agli insegnamenti di quest’ultima pronuncia, insegnamenti che tuttavia hanno offerto un contributo autenticamente rispettoso dei principi di garanzia per quanto riguarda il decorso causale ipotetico, mentre con riferimento al decorso causale reale vi sono fondate ragioni per ritenere che il suo magistero presenti ancora ambiguità tali da far sorgere qualche sospetto di violazione delle garanzie.

 

 

2. Le questioni poste dalla responsabilità penale da esposizione dei lavoratori ad amianto: tra causalità e colpa

 

Il tema della responsabilità penale derivante dalla esposizione dei lavoratori ad amianto consente di approfondire proprio le questioni appena accennate. Da un lato, infatti, si tratta di un tema in cui la ricostruzione del decorso causale reale risulta particolarmente problematica. Volendo fare una sorta di comparazione, si può dire che mentre nell’ambito dell’attività medico-chirurgica la ricostruzione del decorso reale si presenta rarissimamente volte incerta e dibattuta, trattandosi di un’attività che tende – per così dire – ad acquisire i progressi scientifici, sia perché si basa di per sé sulle conoscenze scientifiche esplicative di catene causali produttive di eventi, sia perché tali progressi sono consentanei agli interessi dei medici, come anche dei pazienti; al contrario, rispetto all’attività lavorativa tale ricostruzione costituisce un problema in quanto si tratta di attività non solo di regola scollegata al sapere scientifico esplicativo, ma che tende anche a porsi in tensione con i progressi scientifici, i quali, rivelando pericolosità di vario genere, sono visti come potenziali ostacoli per l’attività produttiva. Dall’altro lato, la responsabilità penale da amianto consente di approfondire anche il versante del decorso causale ipotetico, potendosi tranquillamente dire che in essa si trovano concentrate quasi tutte le problematiche poste dalla c.d. causalità della colpa.

 

In particolare, per quanto riguarda il decorso causale reale, i problemi che si devono affrontare sono fondamentalmente due: quello della spiegazione del decorso e quello della esclusione dei decorsi causali alternativi. In ordine al decorso causale ipotetico, si pongono invece addirittura quattro questioni: quella, per certi aspetti preliminare, delle conoscenze che devono stare alla base della elaborazione di una regola cautelare (prevedibilità c.d. in astratto o ex ante); quella della concretizzazione del rischio, per cui l’evento verificatosi, e che si doveva evitare, deve concretizzare il rischio che la regola cautelare intendeva contenere (prevedibilità c.d. in concreto o ex post); la questione della reale efficacia impeditiva del comportamento alternativo lecito, per cui tale comportamento deve risultare effettivamente in grado di contenere il rischio (evitabilità c.d. in astratto o ex ante); e la questione del rapporto tra regole rispettate ed eventuale residuo di una responsabilità colposa derivante dalla violazione di regole cautelari ulteriormente imposte.

 

Le ipotesi della responsabilità da amianto pongono infine un ultimo problema, quello della prevedibilità dell’evento, e più in generale del fatto tipico, da parte del soggetto agente, problema che apre alla c.d. misura soggettiva della colpa.

 

 

3. La spiegazione dell’evento. L’orientamento giurisprudenziale meno recente fondato sull’aumento del rischio

 

Per quanto riguarda la spiegazione dell’evento morte connesso alla esposizione dei lavoratori ad amianto, preliminarmente si deve osservare come le prime volte in cui si è posta tale questione la giurisprudenza (precedente alla sentenza Franzese) non abbia adottato la prospettiva esplicativa ex post, ma si sia basata invece sul paradigma causale fondato sul c.d. aumento del rischio, vale a dire su un paradigma decisamente inaccettabile per violazione del principio di personalità della responsabilità penale.

 

Più precisamente, in ordine al concetto di aumento del rischio si possono distinguere diverse ipotesi. Anzitutto, v’è quella in cui nonostante l’esistenza del decorso causale reale (la spiegazione dell’evento) e l’idoneità del comportamento alternativo lecito ad impedire l’evento, la mancata adozione del comportamento alternativo lecito ha comunque aumentato (ovvero mancato di diminuire) il rischio di verificazione dell’evento: si tratta di una ipotesi di aumento del rischio che riteniamo ammissibile, sia perché risultano positive le verifiche di conferma concernenti il decorso causale reale e quello ipotetico, sia perché, una volta superate tali verifiche, l’imputazione dell’evento non può che avvenire in termini probabilistici in virtù della struttura prognostica del giudizio di efficacia impeditiva. In secondo luogo, v’è l’ipotesi di aumento del rischio in cui, dopo aver ricostruito il decorso causale reale ed aver individuato il comportamento alternativo lecito astrattamente idoneo ad impedire l’evento, si afferma la responsabilità, senza tuttavia aver verificato se quest’ultimo comportamento sarebbe stato realmente in grado di impedire l’evento, senza cioè escludere le possibili ipotesi di fallimento del comportamento alternativo lecito (es. imprevedibilità in astratto per totale assenza di conoscenze empiriche; imprevedibilità in concreto per mancata concretizzazione del rischio; inevitabilità in astratto, dovuta alla assoluta incapacità nomologica della condotta a contenere il rischio; inevitabilità in concreto, dovuta alla presenza di peculiari fattori reali che avrebbero neutralizzato l’efficacia della condotta diligenza): questa ipotesi di aumento del rischio è inammissibili per la semplice ragione che alla fin fine si imputa l’evento basandosi su un comportamento congetturalmente idoneo, ma nella realtà inefficacia, con la conseguenza che l’evento è imputato in assenza di un reale nesso tra la condotta omessa e la vicenda concreta. Infine, v’è l’ipotesi di aumento del rischio in cui si imputa l’evento a prescindere addirittura dalla stessa ricostruzione del decorso causale reale, ragionando in termini di mera idoneità della condotta a cagionare o impedire un determinato evento: e questa ipotesi è da ritenersi a maggior ragione inammissibile, poiché, mancando la spiegazione del decorso reale, il comportamento che si ritiene criminoso può risultare del tutto sganciato dall’evento (es. omesso salvataggio del bagnino, quando tuttavia il decesso non è dovuto ad annegamento, ma ad infarto).

 

Ebbene, le prime sentenze che hanno affrontato il problema della causalità in tema di amianto hanno fatto riferimento a quest’ultima tipologia di aumento del rischio, affermando che per l’esistenza del nesso causale «è sufficiente che si realizzi una condizione di lavoro idonea a produrre la malattia»[8]. In termini ancor più puntuali, si può osservare come il problema della idoneità del comportamento alternativo lecito a ridurre il rischio sia stato affrontato prima di quello della spiegazione causale e, rispetto a quest’ultima, si sia affermato che «è nozione consolidata che il rischio di tumore del polmone e di mesotelioma sono correlati alla dose esposizione (durata per intensità di esposizione) e che in oncologia clinica sperimentale è acquisita la nozione secondo la quale riducendo la dose (in durata o in intensità) si ottiene una riduzione della frequenza dei tumori»; per poi concludere che «la correlazione del rischio di tumore al polmone e di mesotelioma con la dose di esposizione (durata per intensità) è dimostrata anche dalla letteratura che indica che alla diminuzione della dose di amianto diminuirebbe la probabilità delle patologie correlate»[9] [corsivi nostri].

 

Alla luce di quanto appena detto si deve osservare come d’altra parte anche la giurisprudenza più recente rischi a volte di adottare soluzioni basate sull’aumento del rischio. Ed infatti, in alcune sentenze successive alla Franzese si trova affermato che «dovrà riconoscersi il rapporto di causalità non solo nei casi in cui sia provato che l’intervento doveroso omesso (o quello corretto in luogo di quello compiuto nella causalità commissiva) avrebbe evitato il prodursi dell’evento in concreto verificatosi, o ne avrebbe cagionato uno di intensità lesiva inferiore, ma altresì nei casi in cui sia provato che l’evento si sarebbe verificato in tempi significativamente (non minuti od ore) più lontani ovvero ancora quando, alla condotta colposa omissiva o commissiva, sia ricollegabile un’accelerazione dei tempi di latenza di una malattia provocata da altra causa»[10].

 

Di per sé si tratta di un’affermazione assolutamente condivisibile, perché è indubbio che una condotta omissiva (consista essa nella autentica omissione oppure nella omissione di cautele) assume rilevanza allorquando la sua adozione avrebbe consentito di impedire l’evento o comunque di ritardare la sua verificazione. Tuttavia, è necessario ribadire che questo tipo di ragionamento può essere compiuto soltanto quando v’è assoluta certezza esplicativa in ordine al fatto che un certo evento è frutto di un determinato decorso causale sul quale poteva innestarsi il comportamento alternativo lecito avente efficacia impeditiva. Detto in altri termini, occorre sempre tenere presente che si può iniziare a prendere in considerazione le problematiche del decorso causale ipotetico, soltanto quando la verifica esplicativa del decorso causale reale ha dato esiti positivi[11].

 

 

3.1. Gli orientamenti più recenti basati sulla spiegazione dell’evento: tra dose-dipendenza e incertezza scientifica

 

Gli orientamenti successivi a quello appena esaminato hanno abbandonato il paradigma dell’aumento del rischio, adottando invece quello della spiegazione causale. Tuttavia, in questa nuova prospettiva si è aperta la questione della dose-dipendenza o meno delle patologie derivanti dall’esposizione all’amianto.

 

Più precisamente, posto che le fibre di amianto inalate producono essenzialmente tre diverse patologie, vale a dire: l’asbestosi (patologia non tumorale del polmone), il carcinoma (patologia tumorale del polmone) e il mesotelioma (patologia tumorale della pleura o del peritoneo); e posto che risulta scientificamente pacifica la dose-dipendenza dell’asbestosi e del carcinoma polmonare[12]; per quanto riguarda il mesotelioma, il discorso si presenta decisamente più complesso: se da un lato, infatti, risulta scientificamente pacifico che per innescare il meccanismo patogenetico del mesotelioma è sufficiente una dose bassa e che tale meccanismo fa esplodere la neoplasia maligna dopo un lungo periodo di latenza (mi pare si possa parlare di legge scientifica addirittura universale)[13]; dall’altro lato, si è posto il problema se esista o meno un rapporto inverso tra entità della esposizione e durata della latenza ovvero, detto in altri termini, se le tre patologie debbano essere trattate in modo analogo in quanto tutte in definitiva dose-correlate oppure distinguendo tra asbestosi e carcinoma (dose-dipendenti) e mesotelioma (la cui riduzione della latenza sarebbe dose-indipendente).

 

Le conseguenze applicative derivanti dall’adozione dell’una o dell’altra soluzione sono molto rilevanti, e per comprenderle compiutamente si deve muovere dalla consapevolezza che nelle imprese in cui si lavorava con l’amianto, durante l’ampio arco temporale in cui si sono sviluppate le patologie, si è spesso verificata una successione nelle posizioni di garanzia. Ebbene, partendo dalla conseguenza più significativa, se si ritiene che tutte le patologie siano dose-dipendenti (rectìus, che la latenza del mesotelioma si riduca all’aumentare delle esposizioni), e che quindi in definitiva non si debba distinguere tra le diverse tipologie, l’esposizione successiva risulta rilevante, in quanto l’aumento della dose di amianto inalata è in grado di accorciare la latenza della malattia o di aggravare gli effetti della stessa, con la conseguenza ulteriore che le successive omissioni di cautele possono assumere rilevanza. Se invece si ritiene che il mesotelioma sia dose-indipendente e che quindi si debba distinguere tra le diverse patologie, mentre per l’asbestosi e per il carcinoma polmonare l’esposizione successiva è rilevante, al contrario per il mesotelioma non lo è, con la conseguenza che non sono punibili le successive omissioni di cautele.

 

Ma vi sono anche altre conseguenze, di una certa importanza soprattutto sul piano processuale, che non possono essere sottaciute. Anzitutto, se si muove dall’idea che anche “il mesotelioma è dose-dipendente”, non risulta necessario descrivere l’evento con rigore e quindi stabilire con esattezza la causa della morte, essendo sufficiente ricondurre il decesso all’amianto, quale che sia poi in realtà la patologia che viene in gioco[14]. In secondo luogo, in virtù della dose-dipendenza, se nel corso del processo si viene a conoscenza che la vittima ha subìto altre esposizioni oltre a quella ipotizzata, la stessa ipotesi non risulta inficiata. Se infatti si scopre che in precedenza vi sono state altre esposizioni, quella successiva avrà concorso a diminuire la latenza; se invece si scopre che successivamente vi sono state altre esposizioni, quella successiva non interromperà il nesso, potendosi anzi estendere la responsabilità anche a queste esposizioni. In sostanza, anche a voler ammettere che il lavoratore fosse stato esposto ad amianto nell’ambiente generale o in altri contesti lavorativi precedenti o successivi, la riduzione dell’esposizione in ambito lavorativo attraverso l’adozione delle misure cautelari, avrebbe ridotto il carico di fibre complessivamente inalato e quindi dilatato la durata della latenza, con conseguente responsabilità per chi ha omesso le cautele. Ed ancora: la dose-dipendenza della riduzione della latenza consente di trovare comunque dei soggetti responsabili, in quanto, proprio a causa della lunga latenza, a volte i titolari delle posizioni di garanzia al momento della inalazione innescante, risultano. al momento del processo. deceduti. Infine, se si adotta la soluzione della rilevanza delle esposizioni successive si risolve a priori un notevole problema probatorio che invece si porrebbe adottando l’altra soluzione. Ed infatti, là dove si ritenga che le esposizioni successive non rilevano, in presenza di una successione di soggetti nelle posizioni di garanzia, si pone il problema di individuare il momento in cui la dose innescante potrebbe essere stata inalata. Tale problema non sussiste quando non v’è una pluralità di soggetti oppure quando il periodo di latenza consente di individuare “al di là di ogni ragionevole dubbio” il soggetto responsabile. Ma quando queste condizioni vengono meno, pur sussistendo il nesso causale, può tuttavia essere molto difficile raggiungere la prova che la dose innescante sia stata inalata proprio durante il periodo in cui uno degli imputati è ritenuto il responsabile[15]. In sostanza, se esiste un rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno assorbita e risposta tumorale (o comunque riduzione della latenza) si attenua l’interesse per l’individuazione del periodo di inalazione della dose innescante, individuazione spesso molto difficile da provare.

 

Ebbene, per quanto riguarda la spiegazione dell’evento, registrata l’esistenza di pochissime pronunce che hanno aderito alla spiegazione causale basata sulla dose-indipendenza della riduzione della latenza[16], si possono distinguere due orientamenti giurisprudenziali. Per un primo indirizzo senza dubbio maggioritario, tutte e tre le patologie sono – per così dire – dose-dipendenti. Così, la Corte di Cassazione ha affermato che sussiste un «rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno assorbita (determinata dalla concentrazione e dalla durata dell’esposizione) e risposta tumorale: aumentando la dose di cancerogeno, non solo è maggiore l’incidenza dei tumori che derivano dall’esposizione, ma minore è la durata della latenza, il che significa aumento degli anni di vita perduti o, per converso, anticipazione della morte. Questo processo è stato dalla Corte [di merito] riferito non solo al tumore polmonare o broncogeno ma anche al mesotelioma»[17]. E più di recente si è fatto riferimento a «un riconoscimento condiviso, se non generalizzato, della comunità scientifica – peraltro fatto già proprio da sentenze di merito e di legittimità […] sul rapporto esponenziale tra dose di cancerogeno assorbita (determinata dalla concentrazione e dalla durata della esposizione) e risposta tumorale, con la conseguente maggiore incidenza dei tumori e minore durata della latenza della malattia nelle ipotesi di aumento della dose di cancerogeno»[18].

 

Per altro orientamento, invece, presente solo nella giurisprudenza di legittimità, si deve distinguere tra asbestosi e carcinoma, da un lato, e mesotelioma pleurico, dall’altro. E se in tale prospettiva non ci si spinge fino ad affermare l’esistenza di una diversa spiegazione causale (dose-dipendenza asbestosi e carcinoma, dose-indipendenza riduzione della latenza del mesotelioma), tuttavia si pone in risalto come mentre per l’asbestosi esiste certezza in ordine alla spiegazione, al contrario con riferimento al rapporto tra esposizione e latenza del mesotelioma permangono dubbi esplicativi: così, in ordine all’asbestosi, si è notato che «i giudici di merito, nel comparare tale patologia con il mesotelioma pleurico, hanno evidenziato che l’asbestosi è una malattia “dose-correlata”, nel senso che il suo sviluppo e la sua gravità aumentano in relazione alla durata di esposizione alla inalazione delle fibre»[19]; mentre rispetto al mesotelioma si è posto in evidenza come «la sentenza impugnata solo apparentemente motiva sulla sussistenza della legge scientifica di copertura, in quanto, dopo avere delineato due orientamenti teorici prevalenti, della “dose risposta” (meglio conosciuta come “teoria del multistadio della cancerogenesi”) e quello contrapposto della irrilevanza causale delle dosi successive a quella “killer”, dichiara di aderire al primo orientamento, senza però indicare dialetticamente le argomentazioni dei consulenti che sostengono detta tesi e le argomentazioni di quelli che la contrastano e le ragioni dell’opzione causale. In sostanza il giudice di merito, più che utilizzare la legge scientifica, se ne è fatto artefice»[20]. Tale indirizzo, poi, tende a cassare le sentenze con rinvio affinché i giudici di merito si attengano al seguente principio: «nella valutazione della sussistenza del nesso di causalità, quando la ricerca della legge di copertura deve attingere al “sapere scientifico”, la funzione strumentale e probatoria di quest’ultimo impone al giudice di valutare dialetticamente le specifiche opinioni degli esperti e di motivare la scelta ricostruttiva della causalità, ancorandola ai concreti elementi scientifici raccolti»[21].

 

 

3.2. Critica dell’orientamento giurisprudenziale basato sulla dose-dipendenza

 

Nel tentativo di compiere un’analisi critica di questi orientamenti giurisprudenziali, in ordine al primo si deve osservare come gli argomenti utilizzati a sostegno dell’adozione della spiegazione basata sulla dose-dipendenza della latenza del mesotelioma suscitino non poche perplessità.

 

Da un lato, si torna ad aprire all’idea di una spiegazione causale basata non soltanto su leggi scientifiche, ma anche su generalizzazioni empiriche del senso comune e su rilevazioni epidemiologiche. Così, di recente si è affermato che «per quanto riguarda l’individuazione della legge scientifica, è vero che nella materia esistono notevoli difficoltà collegate agli esiti non ancora definitivi cui è giunta la scienza nel descrivere la genesi e lo sviluppo del mesotelioma, ma tali difficoltà […] non possono di per sé fondare un tranquillizzante giudizio di esclusione della legge scientifica, allorché esistono importanti studi al riguardo […] E’ altresì il caso di ricordare che nell’accertamento della causalità generale, ovvero nella identificazione della legge scientifica di copertura, il giudice deve individuare una spiegazione generale degli eventi basata sul sapere scientifico, sapere […] che è costituito non solo da leggi universali (invero assai rare), ma altresì da leggi statistiche, da generalizzazioni empiriche del senso comune, da rilevazioni epidemiologiche»[22].

 

Dall’altro lato, si continua a sovrapporre la dimensione processuale del nesso causale a quella sostanziale, determinando così un scivolamento verso una “spiegazione causale induttiva” che, come vedremo, costituisce una vera e propria contraddizione in termini. Ed infatti, in questa prospettiva, la Corte di Cassazione ha precisato che «non può avere rilievo che non sia stato possibile accertare il meccanismo preciso di maturazione della patologia. La giurisprudenza di legittimità si è sempre espressa, in via generale, nel senso che il nesso di condizionamento deve infatti ritenersi provato [corsivo nostro] non solo quando (caso assai improbabile) venga accertata compiutamente la concatenazione causale che ha dato luogo all’evento, ma, altresì, in tutti quei casi nei quali, pur non essendo compiutamente descritto o accertato il complessivo succedersi di tale meccanismo, l’evento sia comunque riconducibile alla condotta colposa dell’agente sia pure con condotte alternative, e purché sia possibile escludere l’efficienza causale di diversi meccanismi eziologici»[23].

 

Si tratta di argomentazioni su cui occorre soffermare l’attenzione. In particolare, per quanto riguarda la prima, si deve ribadire con forza come non possa esistere una autentica spiegazione senza l’ausilio di un sapere scientificamente fondato. Con la conseguenza che ai fini della spiegazione del decorso causale reale effettivamente esplicatosi in concreto, possono essere utilizzate soltanto leggi scientifiche universali o statistiche (e queste ultime soltanto quando si possono escludere decorsi causali alternativi nel presupposto che comunque si conoscano tutte le cause possibili di un determinato evento), con esclusione pertanto delle massime di esperienza e delle rilevazioni epidemiologiche.

 

In particolare, rispetto alle massime di esperienza, qualora siano autenticamente tali e non rappresentino una sorta di volgarizzazione delle leggi scientifiche, si deve ritenere che esse non possano avere una funzione esplicativa di un determinato decorso causale in quanto hanno natura meramente osservativo-esperienziale. D’altra parte, non c’è dubbio che esse possono assumere un ruolo nella ricostruzione complessiva della causalità, ma in ambiti per l’appunto diversi da quello della spiegazione del decorso causale, e più precisamente là dove viene in gioco un ragionamento induttivo. Così, ad esempio, tali regole svolgono una funzione fondamentale nella fase processuale, allorquando si tratta di compiere quel ragionamento induttivo che consente di raggiungere una conferma probatoria avente un alto grado di credibilità razionale. Ma soprattutto, le massime di esperienza sono utilizzate all’interno del decorso causale ipotetico, quando si deve individuare il comportamento alternativo lecito nel contesto della colpa generica: ed infatti l’efficacia impeditiva di un determinato comportamento si valuta in una prospettiva prognostica basata, come vedremo meglio in seguito, non soltanto su conoscenze scientifiche, ma anche su conoscenze meramente esperenziali e su scelte “politiche” che configurano in definitiva massime di esperienza.

 

Per quanto riguarda le rilevazioni epidemiologiche, si deve notare come esse, se da un lato, sono molto simili alle leggi statistiche, in quanto non sono in grado di offrire una spiegazione esauriente, dall’altro lato, però, se ne differenziano notevolmente in ordine al fatto che mentre le leggi statistiche utilizzabili in ambito giuridico sono quelle che operano in un contesto in cui si conoscono tutte le cause possibile, al contrario le rilevazioni agiscono proprio in un contesto in cui l’eziologia di un determinato fenomeno è in larga misura ignota, nel senso che lo stesso presupposto per la loro elaborazione è offerto proprio dalla ignoranza di tutte le cause possibili, con la conseguenza che il loro utilizzo determinerebbe inevitabilmente la violazione del principio della personalità della responsabilità penale[24].

 

Quanto appena detto si dovrebbe comprendere ancora meglio affrontando la seconda argomentazione a sostegno della spiegazione della riduzione della latenza basata sulla dose-dipendenza, quella relativa alla non necessaria prova dell’intera concatenazione causale. Sono due i passaggi su cui si deve soffermare l’attenzione. Da un lato, si può osservare come ritenere che non è necessaria la prova dell’intera catena causale sia corretto soltanto se si muove da un’idea di rigorosa spiegazione del decorso causale basata su autentiche conoscenze scientifiche. Là dove si richiede infatti una legge universale o una legge statistica (con esclusione dei decorsi alternativi in un contesto di conoscenza di tutte le cause possibili), non c’è dubbio che a volte è sufficiente provare l’esistenza di un determinato fattore per affermare l’esistenza dell’intero nesso causale, senza che sia necessario andare a provare tutti i singoli passaggi del decorso causale. Così, ad esempio, davanti a una morte derivante da annegamento, sarebbe del tutto inutile descrivere con esattezza tutti i passaggi in cui si articola il relativo decorso. Al contrario, tale opinione risulta foriera di molte perplessità là dove non si muove da un concetto rigoroso di spiegazione causale, e ciò perché si viene a determinare una confusione tra dimensione processuale e dimensione sostanziale. E a ben vedere, come accennato all’inizio, questa confusione tra sostanziale e processuale (forse potremmo parlare addirittura di processualizzazione della categoria sostanziale della causalità), trova le proprie radici all’interno della sentenza Franzese, derivando da quell’idea di certezza processuale ovvero di probabilità logica, che se ha un senso per il piano processual-probatorio o comunque per il decorso causale ipotetico, non può essere accolta per la dimensione sostanziale della causalità, vale a dire per la spiegazione.

 

Dall’altro lato, suscita perplessità il passaggio in cui si afferma che il nesso di condizionamento deve comunque ritenersi provato quando, in assenza dell’intera ricostruzione del nesso, «l’evento sia comunque riconducibile alla condotta colposa dell’agente sia pure con condotte alternative, e purché sia possibile escludere l’efficienza causale di diversi meccanismi eziologici». Ebbene, questa affermazione apre di nuovo a possibili imputazioni basate soltanto sul mero aumento del rischio, inteso come mera idoneità della condotta a cagionare o comunque impedire l’evento. Ed infatti, la condotta colposa (od omissiva) del soggetto agente – lo ribadiamo – entra in gioco soltanto dopo aver spiegato un determinato evento. Inoltre, com’è stato dimostrato efficacemente da tempo, l’esclusione di diversi meccanismi eziologici ha senso solo rispetto al decorso causale reale. Al contrario, rispetto a una mera ipotesi prognostica, non solo l’esclusione dei decorsi non può operare[25], ma addirittura il nesso finisce per basarsi su una causalità meramente negativa, come tale non esplicativa, ma meramente “associativa”[26].

 

Ma soprattutto l’orientamento che basa la spiegazione causale della riduzione della latenza sulla dose-dipendenza non può essere accolto perché finisce per adottare una soluzione – oltretutto quella che porta ad affermare la responsabilità del soggetto agente – quando tuttavia si è in presenza di una sostanziale incertezza scientifica: ed infatti, se è vero che, come visto in precedenza, per l’asbestosi e per il carcinoma è pacifica la dose-dipendenza, la spiegazione del mesotelioma risulta in parte ancora molto discussa.

 

Più precisamente, rispetto al mesotelioma, se v’è assoluto accordo, come accennato, nel ritenere che anche dosi basse possono scatenare il decorso patologico, tuttavia, ancora si discute sul piano scientifico proprio in ordine al tipo di fibre che hanno funzione scatenante (profilo che, come vedremo, rivela ai fini della colpa)[27] e alla relazione che intercorre tra la latenza e l’esposizione (profilo che rivela ai fini della causalità). In particolare, sotto quest’ultimo aspetto, per una parte della scienza «il rischio di mesotelioma aumenta con l’aumentare sia dell’intensità, sia della lunghezza dell’esposizione: in definitiva, con l’aumentare della dose complessiva di fibre inalate non solo aumenta l’incidenza, ma si riduce il tempo di latenza convenzionale […] Pur se un’inalazione intensa e/o prolungata non è necessaria per l’induzione del mesotelioma, è da ritenere che nessun periodo di esposizione, fino a induzione completata e a tumore concretamente in essere ancorché clinicamente occulto (cioè fino a circa dieci-quindici anni prima della manifestazione/diagnosi), può essere considerato inefficiente e quindi irrilevante»[28].

 

Altra parte della scienza, invece, afferma che «il periodo di latenza è attualmente oggetto di particolare attenzione in ambito medico legale poiché in alcune consulenze tecniche è stata prospettata la esistenza di un rapporto inverso tra entità della esposizione e durata della latenza. Questo rapporto inverso, ripreso purtroppo in sentenze anche di Cassazione, deve essere posto seriamente in discussione, perché è privo di plausibilità biologica e non risulta confermato alla prova dei fatti, ossia dalle più autorevoli e documentate ricerche»[29]. Ed ancora: «numerose autorevoli ricerche scientifiche confermano la inesistenza di correlazioni tra entità della esposizione e latenza […] In conclusione sia le considerazione teoriche in merito alla plausibilità biologica che i dati della letteratura internazionale portano a concludere che la ipotesi dell’abbreviamento della latenza con l’aumentare dell’esposizione non è valida per il mesotelioma e deve essere respinta»[30].

 

Ebbene, in presenza di questa incertezza scientifica, com’è possibile che un giudice adotti una delle due soluzioni alternativamente prospettate[31]?

 

 

3.3. Critica dell’orientamento giurisprudenziale basato sull’incertezza scientifica

 

Alla luce delle considerazioni appena svolte, risulta molto più plausibile il secondo orientamento giurisprudenziale, che prendendo atto dell’incertezza scientifica in ordine all’efficacia condizionante delle esposizioni successive, rinvia alle Corti di Appello affinché motivino con maggior rigore l’accoglimento di uno degli orientamenti e l’esclusione dell’altro. D’altra parte, anche questa conclusione non può essere accolta, in quanto la giurisprudenza finisce per contraddirsi là dove, da un lato, dà atto dell’esistenza di una sostanziale incertezza scientifica, e poi per l’appunto cassa con rinvio invitando i giudici di merito a compiere un’analisi critica delle soluzioni scientifiche oggetto della scelta[32]: nel momento in cui si riconosce l’esistenza di una sostanziale incertezza scientifica, la Corte dovrebbe giungere alla conclusione della assoluta impossibilità di affermare una responsabilità, proprio a causa della incapacità di fornire un’autentica spiegazione scientifica dell’evento. Detto in altre parole, o si afferma in termini chiari e netti l’esistenza di una certezza scientifica e quindi si adotta la soluzione che si basa su tale certezza, oppure, se si riconosce l’esistenza di una incertezza scientifica, non ha alcun senso chiedere al giudice di merito di adottare una delle due soluzioni e di dare conto della esclusione dell’altra, in quanto il giudice non è in grado, come invece pretende la Corte di Cassazione, «di valutare dialetticamente le specifiche opinioni degli esperti e di motivare la scelta ricostruttiva della causalità», con la conseguenza che se il giudice si adoperasse secondo le indicazioni della Corte, finirebbe egualmente per divenire artefice delle leggi scientifiche invece che fruitore. Più opportuno quindi concludere nel senso della inesistenza di una esplicazione causale scientificamente fondata idonea a fondare una responsabilità penale, o comunque cassare con rinvio al fine di appurare se presso la comunità scientifica esiste nella sostanza una legge scientifica[33].

 

Il punto merita ulteriore approfondimento, anche perché consente di chiarire meglio i rapporti tra scienza e diritto, tra perito e giudice. Molto spesso si afferma che all’interno del processo le teorie scientifiche di spiegazione causale sono antagoniste tra di loro, con la conseguenza che il giudice deve adottare quella che risulta essere più plausibile. Ebbene, sul punto ci pare di fondamentale importanza distinguere tra “antagonismo probatorio” e “incertezza scientifica”. L’antagonismo probatorio si ha quando all’interno di un processo vengono prospettate ipotesi di decorsi causali alternativi, ipotesi però tutte scientificamente fondate. In questi casi non si contesta la portata scientifica di una ricostruzione, bensì si dibatte sulla sua plausibilità sul piano della effettiva verificazione storica. Anche in questi casi quindi esiste incertezza, ma non scientifica, concernente la spiegazione delle ipotesi, quanto piuttosto probatoria, relativa cioè alla corrispondenza tra quanto ipotizzato e quanto realmente accaduto. In sostanza le due ipotesi, scientificamente fondate, sono entrambe incerte, in quanto, essendo il fatto irripetibile, risulta di per sé impossibile sapere con certezza assoluta quale ipotesi si è storicamente verificata. Ecco perché è opportuno parlare di antagonismo probatorio. E in queste ipotesi il giudice è “libero” di scegliere l’opzione che, alla luce delle evidenze dei fatti, riterrà maggiormente fondata sul piano probatorio rispetto al caso concreto.

 

Diversamente, un reale problema di incertezza scientifica sorge quando la stessa spiegazione causale di un determinato decorso viene già in astratto contestata sul piano scientifico. In queste ipotesi ciò che si contesta è la stessa legge scientifica esplicativa del decorso. E la vicenda del mesotelioma rientra proprio in queste ipotesi di incertezza scientifica perché ancora non si è in grado di sapere il rapporto che intercorre tra maggiore esposizione e riduzione della latenza. Qui il giudice non può che alzare le mani e arrendersi davanti alla inesplicabilità del decorso.

 

Ma ciò che mi preme sottolineare è soprattutto il fatto che per giungere a questa conclusione appena prospettata (differenza tra incertezza scientifica ed antagonismo processuale) si deve adottare un rigoroso modello generalizzante esplicativo, vale a dire un modello che fa del giudice un vero e proprio fruitore delle leggi scientifiche. Detto in altri termini, anche il filone giurisprudenziale in esame, che dà atto dell’incertezza scientifica, ma poi attribuisce comunque al giudice un ruolo di scelta e giustificazione della scelta, tradisce una visione induttiva che ancora una volta sembra trovare le proprie radici proprio nella sentenza Franzese. Ed infatti, c’è da chiedersi come opererà il giudice che si trova a dover giustificare l’adozione di una spiegazione invece di un’altra. Quali saranno gli argomenti che utilizza per giustificare la scelta? Ebbene, si deve ritenere che questi argomenti, non potendo essere scientifici, avranno natura induttiva, e quindi si baseranno nella sostanza sulle evidenze fattuali, potendo così giocare un ruolo decisivo la “suggestione” provocata dalla consistente esposizione, rispetto alla quale, però, lo ribadiamo, non v’è certezza scientifica esplicativa. E non pare un caso che la Corte parli di «funzione strumentale e probatoria [il corsivo è nostro]» del sapere scientifico.

 

Alla luce delle considerazioni appena svolte, merita quindi apprezzamento una sentenza di merito che non solo giunge “coraggiosamente” all’esclusione del nesso di causalità, giudicando non dotata di un sufficiente grado di certezza l’ipotesi dell’accusa, ma soprattutto suggerisce il problema della valutazione del canone in forza del quale ammettere o non ammettere la sussistenza del nesso causale tutte le volte in cui le leggi scientifiche di copertura non siano in grado di fornire enunciati singolari esplicativi capaci di sorreggere in termini di (quasi) assoluta certezza l’implicazione causale[34].

 

Si può quindi concludere che i margini per affermare una responsabilità penale rispetto al mesotelioma sono molto ristretti: perché ciò sia possibile, posto che v’è certezza in ordine alla bassi dosi innescanti e alla lunga latenza, è necessario che si sia in grado di individuare al di là di ogni ragionevole dubbio il periodo in cui è stata inalata tale dose, periodo che non deve aver conosciuto una successione nelle posizioni di garanzia.

 

 

4. I decorsi causali alternativi

 

Passando adesso a trattare l’altra questione attinente al decorso causale reale, vale a dire il problema dei decorsi causali alternativi, una sua corretta impostazione necessita della distinzione tra asbestosi, mesotelioma e carcinoma. In ordine all’asbestosi, si pongono due questioni. La prima, che diviene comune anche al mesotelioma, là dove si ritenga che esista un rapporto tra maggiore esposizione e minore latenza, riguarda la responsabilità del titolare di una posizione di garanzia per l’esposizione del lavoratore, successiva alla dose innescante e avente breve durata. Il problema si pone perché ormai si considera certo che alla riduzione della polverosità negli ambienti di lavoro, cui si è pervenuti progressivamente a partire dall’inizio dello sviluppo industriale fino ai giorni nostri, ha corrisposto via via una diminuzione dei casi di asbestosi. Ebbene, sul punto la giurisprudenza risulta divisa. Da un lato, infatti, si è affermato che «all’epoca in cui gli stessi [gli imputati] hanno rivestito funzioni di garanzia ed avrebbero potuto e dovuto attivare le cautele prescritte dal d.P.R. n. 303/1956, la inalazione delle fibre di amianto alla quale i lavoratori sono risultati esposti per effetto della mancata adozione di cautele, specificamente produttiva della patologia riscontrata, era già avvenuta. Né eventuale condotta diversa degli imputati avrebbe potuto in alcun modo evitare l’evento, posto che il meccanismo patogenetico che lo ha scatenato era da ritenersi ormai da anni innescato»[35]. In buona sostanza, rispetto all’asbestosi, si è ritenuto che le esposizioni successive erano irrilevanti, in quanto il meccanismo scatenante si era già innescato. Per altro orientamento, invece, «essendo l’asbestosi polmonare una patologia dose-correlata, ove persista l’esposizione all’amianto si vengono a realizzare in ambiti polmonari già interessati dalla fibrosi nuove sedi fibrotiche che vengono a rendere più serrata e quindi più grave la malattia»; ed ancora, con maggiore esattezza, si è precisato che «aumentando la dose di fibre, non solo è maggiore l’incidenza della malattia fibrotica che deriva dall’esposizione, ma è altresì minore la durata della latenza ovvero della malattia manifesta, con conseguente anticipazione della morte. Il meccanismo di aggravamento concretamente si determina attraverso la realizzazione di sempre nuove sedi di fibrosi asbestosica in àmbiti polmonari già interessati dalla fibrosì, così rendendola più serrata e quindi più grave»[36]. Ebbene, è senza dubbio da accogliere questa seconda soluzione, per la semplice ragione che spiega in termini scientifici la dose-dipendenza dell’asbestosi.