11 gennaio 2011 |
Amianto e responsabilità penale: causalità ed evitabilità dell'evento in relazione alle morti derivate da mesotelioma pleurico
Nota a Cass. pen., sez. IV, 17.9.2010, n. 43786, Pres. Marzano, Rel. Blaiotta, imp. Cozzini e altri (caso Ferrovie Trento Malè)
Sommario:
1. Il caso “Ferrovie Trento Malè S.p.A.”
2.2. Le contrastanti posizioni assunte dalla giurisprudenza.
2.2.1. Le incertezze relative alla scelta della legge scientifica di copertura.
2.2.2. I problemi relativi all’accertamento della cd. causalità individuale.
3. I principi affermati dalla sentenza della Quarta Sezione nel caso “Ferrovie Trento Malè S.p.A.”
3.1. I criteri per la scelta della legge di copertura in contesti di incertezza scientifica.
3.3. Il giudizio di evitabilità dell’evento lesivo (o secondo nesso tra colpa ed evento).
3.4. L’annullamento con rinvio della sentenza della Corte d’Appello di Trento.
1. Il caso “Ferrovie Trento Malè S.p.A.”
La sentenza della Quarta Sezione che qui si commenta ha annullato con rinvio la pronuncia con la quale la Corte d’Appello di Trento – rovesciando l’assoluzione di primo grado – aveva condannato dodici ex responsabili della Ferrovie Trento Malè S.p.A. (di seguito anche: FTM) per omicidio colposo, in relazione alla morte di un dipendente che aveva contratto un mesotelioma pleurico dopo aver svolto, senza adeguate protezioni, mansioni di riparazione della carrozze ferroviarie che lo mettevano a contatto con fibre di amianto[1]. La vittima era stata esposta al cancerogeno dal 1971 al 1982, periodo durante il quale gli imputati si erano avvicendati nella titolarità di posizioni di vertice all’interno dell’azienda. Benché entrambi i giudici di merito avessero riscontrato che la patologia era stata contratta proprio presso gli stabilimenti della FTM, soltanto la Corte d’Appello aveva riconosciuto la titolarità della posizione di garanzia in capo a tutti gli imputati, ed aveva ritenuto che ciascuna delle loro omissioni rappresentasse una concausa dell’evento letale: ad avviso dei giudici del gravame, infatti, la natura dose-correlata del mesotelioma pleurico – dimostrata, principalmente, da affidabili indagini epidemiologiche – consentiva di affermare che al mancato abbattimento dei livelli di fibre aerodisperse corrispondesse l’accelerazione del decorso della cancerogenesi e dunque l’anticipazione dell’evento letale[2].
Pronunciandosi sul ricorso degli imputati, i giudici della Suprema Corte hanno riscontrato due difetti di motivazione nella parte della sentenza d’appello relativa all’asserito effetto acceleratore della cancerogenesi dispiegato dalla protratta esposizione all’amianto:
a) l’inadeguatezza dei criteri utilizzati per scegliere la legge scientifica di copertura che individua nel mesotelioma pleurico una patologia dose-correlata (dunque un vizio afferente alla verifica della cd. causalità generale);
b) la mancata indicazione di elementi concreti a sostegno dell’affermazione secondo cui, nel caso di specie, si era effettivamente verificata quella correlazione, affermata solo in termini probabilistici dalla legge scientifica di copertura, tra l’incremento della dose di cancerogeno inalata e l’accelerazione della risposta tumorale (dunque un difetto relativo al giudizio di cd. causalità individuale).
La Suprema Corte giunge a tali conclusioni all’esito di un articolato iter motivazionale, nel corso del quale prende posizione su alcune delicatissime questioni – che assai di frequente emergono nei processi penali in cui si accerta la responsabilità del datore di lavoro per i decessi derivati da mesotelioma pleurico – in tema di causalità ed evitabilità dell’evento lesivo nei reati colposi. Prima di esaminare i passaggi chiave della sentenza, pertanto, giova ricostruire sinteticamente il dibattito giurisprudenziale e dottrinale svoltosi negli ultimi anni attorno a tali tematiche.
2. La rilevanza della natura dose-correlata o dose-indipendente del mesotelioma pleurico nel processo penale per omicidio colposo
2.1. I dati medico-scientifici ed i loro riflessi sulle categorie giuridiche della causalità e dell’evitabilità dell’evento lesivo
La scienza non dubita in merito alla riconducibilità del mesotelioma pleurico – tumore ad esito inevitabilmente infausto, che colpisce il tessuto di rivestimento dei polmoni (pleura) – all’inalazione delle fibre di amianto. Pur non trattandosi di una patologia monofattoriale o firmata in senso stretto – potendo infatti derivare anche da altri fattori quali ad esempio l’erionite e le radiazioni ionizzanti – vi è un diffuso consenso intorno all’affermazione che, almeno nel 70 - 80 % dei casi, sia riferibile all’amianto[3]. Peraltro, posto il bassissimo tasso di probabilità che un soggetto abbia subito esposizioni agli altri fattori capaci di indurre il mesotelioma, è frequente l’affermazione secondo cui la sua insorgenza costituisce un evento sentinella di una pregressa esposizione all’amianto[4].
Piuttosto, il quesito centrale attorno al quale ruotano i processi penali nei confronti dei responsabili di impresa, riguarda la natura dose-correlata o dose-indipendente del mesotelioma pleurico, ossia la questione se all’aumento della dose di amianto inalata (per durata o intensità della stessa) corrisponda o meno un effetto acceleratore sul decorso della cancerogenesi[5].
Una serie di dati di carattere medico e scientifico, infatti, rendono particolarmente difficoltosi sia l’accertamento del nesso di causalità tra la condotta dei datori di lavoro imputati e gli eventi lesivi (il mesotelioma e la morte), sia la verifica circa l’evitabilità dei medesimi eventi lesivi attraverso la realizzazione della condotta conforme alle norme cautelari. In tale contesto di incertezza, come tra un attimo verrà meglio illustrato, l’opzione a favore della natura dose-correlata o dose-indipendente del mesotelioma rappresenta in genere l’ago della bilancia tra una sentenza di condanna ed una di assoluzione.
I dati medico-scientifici cui si fa riferimento, pacifici nel panorama della letteratura scientifica internazionale[6], sono essenzialmente tre: a) statisticamente il periodo intercorrente tra l’iniziazione della cancerogenesi e la manifestazione del mesotelioma, la cd. latenza, oscilla tra i 20 ed i 50 anni; b) non è possibile stabilire, in relazione a ciascun caso concreto, il momento esatto in cui il processo di cancerogenesi ha avuto inizio; c) non esistono informazioni certe riguardo alla dose minima di amianto necessaria ad innescare il processo di cancerogenesi. Le difficoltà create da questi dati in relazione allo svolgimento dei giudizi di causalità ed evitabilità degli eventi lesivi possono essere così sintetizzate:
1. Anzitutto, in punto di causalità, la lunga e variabile latenza del mesotelioma (evidenziata sub a), insieme con l’impossibilità di individuare il momento esatto in cui la cancerogenesi ha avuto inizio (sub b), impediscono frequentemente di escludere che la vittima si sia ammalata in un momento precedente a quello in cui ha svolto le mansioni alle dipendenze dell’imputato: l’innesco della patologia, infatti, potrebbe essersi verificato tanto presso un’altra azienda, quanto nel periodo in cui l’imputato ancora non rivestiva la posizione di garanzia.
2. Sempre in punto di causalità, l’assenza di informazioni certe riguardo alla dose al di sotto della quale il rischio di contrarre il mesotelioma scompare (sub c), impedisce frequentemente di escludere che il tumore sia stato indotto da un episodio di bassissima esposizione – al limite anche da una sola fibra di amianto – che la vittima potrebbe aver subito in qualunque momento della vita (ad esempio, salendo come passeggero su un treno coibentato ad asbesto).
3. Con riferimento al giudizio di evitabilità dell’evento lesivo, l’assenza di informazioni riguardo alla dose minima di amianto in grado di innescare il mesotelioma (ancora sub c), lascia in piedi un dubbio circa l’efficacia salvifica che l’adozione di tutte le misure cautelari tecnologicamente disponibili tra gli anni ’50 e gli anni ’80 – le quali pacificamente non consentivano di azzerare la dispersione di fibre nell’aria – avrebbe avuto rispetto alla patologia.
Di fronte di simili incertezze, la natura dose-correlata o dose-indipendente del mesotelioma diventa decisiva ai fini dell’esito del processo: la possibilità che la cancerogenesi fosse già insorta al momento in cui la vittima si è trovata alle dipendenze dell’imputato (punto n. 1.), rappresenta un ragionevole dubbio circa la sussistenza del nesso causale tra la condotta dell’imputato stesso e gli eventi lesivi – e come tale impone un esito assolutorio – a meno che non si dimostri che tutte le dosi di amianto inalate nel corso del tempo hanno contribuito ad accelerare la cancerogenesi ed anticipare la morte; analogamente, la possibilità che la cancerogenesi sia stata innescata da una dose minima di amianto, respirata in qualunque momento della vita (punto n. 2), rappresenta un ragionevole dubbio circa la sussistenza del nesso causale (si tratta della cd. teoria della trigger dose), a meno che non si dimostri che tutte le dosi di amianto inalate nel corso del tempo hanno contribuito ad accelerare la cancerogenesi ed anticipare la morte; infine l’impossibilità di escludere l’insorgenza della patologia anche ove fossero state adottate tutte le misure cautelari all’epoca tecnologicamente possibili (punto n. 3.), rappresenta un ragionevole dubbio circa l’evitabilità degli eventi lesivi attraverso la realizzazione della condotta doverosa, a meno che non si dimostri che la riduzione delle fibre inalate avrebbe comunque rallentato il decorso della malattia e ritardato la morte.
Dunque, mentre l’opzione a favore della dose-indipendenza conduce inevitabilmente ad esiti assolutori, quella a favore della dose-dipendenza rappresenta il primo gradino per affermare che – in disparte l’impossibilità di individuare il momento in cui la patologia è insorta, ovvero di stabilire la quantità di fibre idonea a scatenarla – l’esposizione avvenuta alle dipendenze dell’imputato ha rappresentato una concausa dell’evento letale. Solo di primo gradino si può peraltro parlare in quanto, come si vedrà a breve, la legge scientifica che qualifica il mesotelioma come malattia dose-correlata ha natura statistica, e pertanto non è autonomamente in grado di fondare giudizi individuali di causalità penale: gli enunciati in essa contenuti devono infatti essere corroborati dalle circostanze del caso concreto, secondo le cadenze del giudizio bifasico indicato dalle Sezioni Unite nella sentenza Franzese.
2.2. Le contrastanti posizioni assunte dalla giurisprudenza
Nel corso degli ultimi anni la giurisprudenza si è spaccata, tanto in relazione alla selezione della legge scientifica più affidabile tra quella che descrive il mesotelioma come tumore dose-correlato e quella che invece vi ravvisa una patologia dose-indipendente; quanto, nell’ambito delle pronunce che hanno optato per la teoria della dose-dipendenza, con riferimento alla possibilità di passare dal sapere statistico enunciato da quella legge scientifica alla conoscenza del fatto storico.
Al lettore non sarà sfuggito che si tratta proprio dei profili rispetto ai quali la Sezione Quarta ha ravvisato un duplice difetto motivazionale nella sentenza d’appello sul caso Ferrovie Trento Malè: come si vedrà (infra, par. 3 ss), le chiare posizioni assunte, su questi temi, dalla sentenza in commento, potrebbero preludere al superamento dei contrasti giurisprudenziali che ci si accinge ad illustrare.
2.2.1. Le incertezze relative alla scelta della legge scientifica di copertura
Quanto al primo dei due profili di contrasto segnalati, occorre notare che durante i dibattimenti gli esperti si trovano sistematicamente in disaccordo in relazione alla natura dose-dipendente o indipendente del mesotelioma: mentre infatti i consulenti della difesa invocano studi e teorie dai quali emergerebbe che tale patologia, una volta innescata, si sviluppa in maniera del tutto indifferente rispetto ai successivi contatti tra la pleura e l’amianto[7]; i consulenti tecnici del pubblico ministero e delle parti civili, invece, sostengono che il mesotelioma si comporti come ogni altro tumore, ossia segua il cd. modello multistadio della cancerogenesi, il quale descrive il processo di formazione del cancro come un’evoluzione a più tappe, la cui progressione è favorita dalla dose di cancerogeno assorbita, in termini sia quantitativi che temporali[8].
Questi contrasti tra esperti, in un certo modo connaturati alla dialettica processuale, potrebbero essere risolti in maniera univoca se i giudici disponessero di criteri condivisi da utilizzare nella valutazione dell’affidabilità delle leggi scientifiche introdotte nel processo penale[9]: ciò che invece emerge sfogliando le sentenze è proprio l’assenza di un catalogo di criteri ai quali il giudice possa attingere nel momento in cui addentra in un mondo a lui sconosciuto, quello appunto delle leggi scientifiche. Il risultato, con riferimento alla materia che qui si tratta, è che la giurisprudenza di merito opta alternativamente per la teoria della dose-indipendenza o della dose-indipendenza – e dunque perviene a sentenze di assoluzione piuttosto che di condanna – limitandosi, in maniera spesso apodittica, ad affermare la maggiore o minore attendibilità delle diverse opinioni emerse nel dibattimento[10]. La Corte di Cassazione, dal canto suo, ha annullato sia sentenze che aderivano alla teoria della dose-indipendenza, sia pronunce che optavano per la dose-dipendenza, senza però soffermarsi ad indicare con precisione i criteri che devono informare una scelta immune da vizi di illogicità[11].
2.2.2. I problemi relativi all’accertamento della cd. causalità individuale
Il secondo fattore responsabile dei contrasti giurisprudenziali, è rappresentato dalla natura statistica della teoria multistadio della cancerogenesi, ossia di quella legge scientifica che consente di qualificare il mesotelioma pleurico alla stregua di tumore dose-correlato (si tratta dunque di contrasti intercorrenti tra quelle sentenze che disattendono la ricostruzione difensiva della dose-indipendenza).
Le indagini epidemiologiche invocate dai consulenti dell’accusa dimostrerebbero infatti che, all’aumentare della dose di esposizione all’amianto (per durata o per intensità), si assiste, a livello statistico (ossia nella maggior parte dei casi osservati, ma non in tutti), all’aumentare dei casi di mesotelioma nella popolazione di riferimento, nonché all’accelerazione dei processi di cancerogenesi, e dunque all’anticipazione degli eventi letali[12].
A lungo si è discusso in merito all’utilizzabilità di questa tipologia di conoscenze nel giudizio di causalità penale; nonché, più di recente, in merito alle modalità attraverso le quali deve essere articolato il ragionamento controfattuale che consente di trasferire le conoscenze scientifiche statistiche nell’indagine su un fatto storico.
La giurisprudenza degli anni ’90 – tanto di legittimità, quanto di merito – riteneva che le leggi scientifiche statistiche, comprese quelle con coefficienti medio-bassi, fossero autonomamente in grado di fondare giudizi di causalità[13]. L’affermazione era ricorrente, in particolare, nella materia dei reati omissivi impropri commessi dal medico a danno del paziente, e dal datore di lavoro nei confronti dei propri dipendenti. Si riteneva infatti che, ai fini dell’imputazione causale, fosse sufficiente dimostrare che la condotta del garante aveva aumentato il rischio che l’evento lesivo della vita o della salute si verificasse: un compito senz’altro alla portata delle leggi statistiche, che per definizione evidenziano relazioni di tipo probabilistico. Durante quel decennio, pertanto, si assisté a numerose condanne di datori di lavoro per i decessi provocati dal mesotelioma pleurico[14].
Giova ricordare, poiché il rilievo tornerà utile in seguito, che la teoria dell’aumento del rischio si reggeva su due convinzioni di fondo: da un lato si riteneva che la causalità omissiva, in quanto ipotetica – cioè strutturata come giudizio predittivo – potesse «essere determinata con un grado di attendibilità minore rispetto a quello normalmente raggiunto dalla causalità reale»[15]; dall’altro lato, le aspettative di protezione rafforzata di beni giuridici primari (quali la vita e la salute), collegate all’esistenza di posizioni di garanzia, facevano apparire giustificata l’affermazione di responsabilità penale anche nei casi in cui si accertava che la condotta conforme alla regola cautelare avrebbe avuto soltanto la probabilità, o la possibilità, di evitare l’evento lesivo[16]. Sembra inoltre utile sottolineare come, nella materia della sicurezza sul lavoro (ma il discorso vale anche per la responsabilità medica), l’applicazione della teoria dell’aumento del rischio fosse praticamente automatica: ciò accadeva in quanto la giurisprudenza, valorizzando sul piano della tipicità la componente omissiva insita nel rimprovero di colpa (ossia il mancato rispetto delle cautele doverose), sistematicamente qualificava come omissive le condotte antidoverose dei soggetti garanti – a prescindere da una concreta indagine circa la loro effettiva natura – dando così la stura alla possibilità di imputare l’evento sulla sola base di conoscenze statistiche[17].
Nel 2000, con una brusca inversione di rotta, la Quarta Sezione annullava alcune pronunce di condanna in materia di responsabilità del medico, ritenendo, sulla scorta degli studi di Federico Stella[18], che il nesso condizionalistico potesse essere dimostrato esclusivamente attraverso leggi scientifiche universali o quasi universali[19]. Il medesimo orientamento portava la Cassazione ad annullare, nel 2001, la condanna di un datore di lavoro per alcuni decessi derivati da mesotelioma pleurico, che era stata fondata proprio sull’applicazione della teoria dell’aumento del rischio integrata dalle conoscenze statistiche sull’effetto dose-risposta del cumulo di esposizioni all’amianto[20].
Il contrasto veniva infine ricomposto dalle Sezioni Unite con la nota sentenza Franzese del 2002[21]. In quella storica pronuncia si afferma che le leggi scientifiche di tipo statistico possono essere utilizzate nel processo penale, ma che ciò non può comportare, nemmeno nell’ambito dei reati omissivi, un abbassamento dello standard probatorio richiesto per l’accertamento della causalità – pena la violazione dei principi costituzionali di legalità (per la trasformazione dei reati di evento dannoso in reati di condotta pericolosa) e di personalità della responsabilità penale (per l’imputazione a taluno di eventi che potrebbe non avere concorso a determinare) – dovendo piuttosto il giudice corroborare le conoscenze statistiche alla luce delle circostanze del caso concreto. A tal fine la Suprema Corte prescrive lo svolgimento di un giudizio bifasico: anzitutto occorre sussumere gli accadimenti concreti in una legge scientifica che individui successioni regolari tra classi di accadimenti di quel tipo (giudizio di cd. causalità generale); in secondo luogo, qualora la legge di copertura abbia natura statistica,occorre verificare – alla luce delle circostanze del caso concreto, ed escludendo altresì l’intervento di autonomi decorsi causali alternativi – se, nel caso di specie, si sia davvero verificata quella correlazione causale che la legge statistica afferma avvenire in una certa percentuale di casi, e, dunque, se sia possa affermare la sussistenza del nesso eziologico “con alto grado di credibilità razionale o probabilità logica” (giudizio di cd. causalità individuale).
L’intervento delle Sezioni Unite ha consentito di superare, per lo meno in giurisprudenza[22], i dubbi in merito all’utilizzabilità delle leggi statistiche all’interno del giudizio controfattuale: pertanto, nell’accertamento della causalità per i decessi derivati da mesotelioma pleurico, la natura statistica della teoria multistadio non può più essere considerata ostativa rispetto al suo utilizzo (diverso, e a monte, è il discorso relativo alla maggiore o minore affidabilità della teoria multistadio rispetto alla teoria della dose-indipendenza: su questo tema, e sui relativi contrasti giurisprudenziali, abbiamo soffermata l’attenzione, evidenziando come attualmente i giudici penali non dispongano di chiari criteri per orientarsi tra le diverse ricostruzioni prospettate dagli esperti).
Tuttora, peraltro, sopravvivono incertezze in relazione allo svolgimento del giudizio bifasico indicato nel 2002 dalle Sezioni Unite, specie con riferimento all’accertamento della cd. causalità individuale. La giurisprudenza, infatti, insiste nella sistematica qualificazione delle condotte del datore di lavoro come omissive, trovandosi così costretta, al momento della verifica del nesso causale, a misurarsi con le già descritte difficoltà che caratterizzano un giudizio controfattuale di tipo prognostico-predittivo[23]: con la differenza che oggi, al contrario di quanto accedeva negli anni ’90, tali difficoltà non possono più essere superate ricorrendo alla teoria dell’aumento del rischio, avendo le Sezioni Unite chiaramente affermato che lo standard dell' "alto grado di credibilità razionale” deve trovare applicazione anche con riferimento alla causalità omissiva.
Di fronte all’obiettiva difficoltà di formulare, sulla sola base delle sopraccitate osservazioni epidemiologiche relative all’andamento dei mesoteliomi, prognosi aventi ad oggetto l’efficacia salvifica delle condotte doverose (beninteso: dotate di alto grado di credibilità razionale), la giurisprudenza reagisce in due direzioni: o assolve l’imputato; oppure, come rileva la stessa Sezione Quarta nella sentenza in commento, aggira il problema attraverso un utilizzo meramente retorico del concetto di probabilità logica: “si propone una qualunque argomentazione causale e si afferma apoditticamente che essa è, appunto, dotata di alta probabilità logica, così eludendo l’esigenza di una ricostruzione rigorosa del nesso causale”[24]. Tanto le sentenze di assoluzione, quanto quelle di condanna, proprio perché adottate in un contesto di sostanziale incertezza, risultano sorrette da motivazioni poco solide, che si limitano a chiamare in causa i tempi di latenza, la quantità di fibre aerodisperse, e le relative affermazioni di periti e consulenti, senza di fatto articolare un ragionamento avente realmente ad oggetto la cd. causalità individuale: il risultato cui si assiste è l’adozione di decisioni di segno opposto in casi tra loro molto simili[25].
3. I principi affermati dalla sentenza della Quarta Sezione nel caso “Ferrovie Trento Malè”
La sentenza in commento prende posizione in relazione a ciascuno dei profili problematici che sono stati messi in luce nel precedente paragrafo. Pare allora opportuno, anzitutto, ricostruire i principi generali affermati dalla Corte, dal momento che il loro valore trascende il caso de qua, costituendo un patrimonio utile per il superamento dei descritti contrasti giurisprudenziali. Successivamente verrà evidenziato in che modo l’applicazione di tali principi ha condotto all’annullamento con rinvio della sentenza della Corte d’Appello di Trento.
3.1. I criteri per la scelta della legge di copertura in contesti di incertezza scientifica
I giudici di legittimità dedicano un’ampia parte della motivazione all’illustrazione dei criteri ai quali deve attenersi il giudice nella scelta della legge scientifica di copertura, al fine di non incorrere in censure di incompletezza o illogicità argomentativa.
La scelta non desta particolari problemi allorché la validità di un enunciato scientifico sia pacifica nel panorama della letteratura specialistica; ovvero nel caso in cui si contendano il campo più teorie delle quali una soltanto risulti attendibile e ragionevolmente argomentata, mentre tutte le altre presentino le sembianze di mere congetture.
Proprio in quest’ultima categoria la Corte di Cassazione sembra far ricadere la teoria della trigger dose[26]. Anzitutto essa si è rivelata essere fondata sulla distorsione e decontestualizzazione degli studi del massimo studioso della materia, il prof.Selikoff[27]. In ogni caso, prosegue la Cassazione, anche ammettendo che l’inalazione di una piccola dose di amianto non sia completamente priva di rischio teorico, resta il fatto che tale rischio è “infinitamente più grave tra i soggetti esposti”: “dunque il confronto è tra un’ipotesi esplicativa che postula un rischio minimo, teorico, virtuale; ed un ipotesi che dà corpo ad un rischio davvero altissimo plasticamente condensato nelle fibre patogene che vorticano nell’aria spinte dai getti d’aria e dai colpi di scopa. In una situazione di tale genere il realismo della giurisprudenza correttamente seleziona l’ipotesi eziologica conferente al caso concreto, accreditando quella che fa perno sull’esposizione lavorativa” (grassetti aggiunti, anche nelle successive citazioni).
La distinzione tra junk e good science si fa invece più complessa allorché gli esperti intervenuti nel processo prospettino ricostruzioni tra loro contrastanti, ma tutte astrattamente plausibili. E’ proprio questo il caso, ad avviso della Cassazione, delle due ipotesi avanzate in relazione all’eziologia dose-dipendente o dose-indipendente del mesotelioma.
In tali situazioni il giudice deve valutare le diverse teorie scientifiche emerse attraverso tre autonome verifiche, delle quali deve dare puntualmente conto in sede di motivazione. Anzitutto deve prendere in esame gli studi che sorreggono ciascuna teoria, al fine di valutarne “l’affidabilità metodologica”. Ciò avviene esaminando: “le basi fattuali sulle quali essi [gli studi] sono condotte. L’ampiezza, la rigorosità, l’oggettività della ricerca. Il grado di sostegno che i fatti accordano alla tesi. La discussione critica che ha accompagnato l’elaborazione dello studio […]. L’attitudine esplicativa dell’elaborazione teorica”. In secondo luogo, rivolgendo lo sguardo alla persona dell’esperto incaricato di veicolare il sapere scientifico nel processo penale (sia egli il perito o il consulente di una parte), il giudice deve ponderarne “l’integrità delle intenzioni”, considerandone “l’identità, l’autorità indiscussa, l’indipendenza […] le finalità per le quali si muove”. Infine – tenuto conto che “l’esperto, per quanto autorevole e coinvolto personalmente nell’attività di studio e ricerca costituisce solo una voce che, sebbene qualificata, esprime un punto di vista personale, scientificamente accreditato ma personale; ed offre quindi una visione forse incompleta del tema” – il giudice è chiamato a collocare ciascuna delle teorie prospettate durante il processo nel quadro del dibattito scientifico internazionale, al fine di selezionare, tra le tante, quella “sulla quale si registra un preponderante, condiviso consenso”.
3.2. L’accertamento del nesso di causalità tra l’esposizione ad una sostanza tossica e l’evento lesivo
La Quarta Sezione afferma a chiare lettere che nel campo delle malattie professionali derivate da esposizione a sostanze patogene la condotta del datore di lavoro ha natura commissiva: la circostanza che un dipendente venga addetto a lavorazioni pericolose è infatti la conseguenza di scelte aziendali relative alla organizzazione del lavoro e alla tipologia di attività produttiva svolta. La qualificazione in termini omissivi, che come visto è ricorrente nella giurisprudenza di legittimità e di merito, scaturisce, ad avviso della Quarta Sezione, dalla confusione tra la condotta omissiva tout court (la quale, dal punto di vista fenomenico, è un nulla, ed acquista rilievo solo alla luce della violazione di un obbligo di attivarsi) e la componente omissiva che è sempre insita nel rimprovero di colpa (componente che può connotare anche le condotte attive, nella misura in cui esse non adottano le misure cautelari prescritte, ma che di certo non vale a trasformarle in omissive: si pensi a chi attraversa un incrocio senza rispettare il semaforo rosso). Si tratta di un orientamento già espresso in alcuni importanti precedenti della stessa Cassazione, ed avallato da una parte della dottrina[28].
La qualificazione in termini commissivi della condotta del datore di lavoro presenta rilevanti conseguenze sul piano della causalità, e in particolare consente di superare le incertezze manifestate dalla giurisprudenza nell’accertamento della cd. causalità individuale.
Tali incertezze, come visto, sono il corollario della (erronea) qualificazione in termini omissivi della condotta del datore di lavoro: scaturiscono infatti dalla struttura predittiva del giudizio controfattuale di causalità omissiva, il quale, consistendo in una prognosi circa l’efficacia salvifica della condotta conforme alle norme cautelari, mal si concilia – specie allorché si abbiano a disposizione soltanto leggi statistiche – con l’esigenza di raggiungere una prova del nesso eziologico dotata di “alto grado di credibilità razionale”.
Una volta qualificata la condotta del datore di lavoro come attiva, invece, l’imputazione oggettiva dell’evento lesivo avviene attraverso il paradigma controfattuale della causalità commissiva, ossia attraverso un giudizio avente natura esplicativa: si accerta, cioè, se non è possibile eliminare mentalmente l’esposizione alla sostanza tossica, senza che l’evento lesivo venga meno, o si verifichi in un momento successivo. Qualora si abbiano a disposizione soltanto leggi scientifiche statistiche, questo tipo di giudizio consente di corroborare l’ipotesi probabilistica attraverso il meccanismo dell’esclusione dei decorsi causali alternativi, così giungendo ad un giudizio di reale probabilità logica: l’esposizione alla sostanza tossica potrà dirsi, con alto grado di credibilità razionale, condicio sine qua non dell’evento lesivo, allorché sia ragionevolmente possibile escludere l’intervento di altri decorsi causali (in particolare: altre sostanze tossiche o precedenti esposizioni alla medesima sostanza tossica) che siano stati autonomamente capaci di provocare la malattia.
3.3. Il giudizio di evitabilità dell’evento lesivo (o secondo nesso tra colpa ed evento)
Nei reati commissivi, osserva la Cassazione, la verifica in ordine alla evitabilità dell’evento lesivo attraverso la condotta alternativa lecita trova la sua corretta collocazione nella sua sede naturale, ossia l’accertamento della colpa (la dottrina è solita infatti parlare di secondo nesso tra colpa ed evento[29]). Il giudizio di evitabilità, infatti, non adempie alla funzione di imputare l’evento dal punto di vista fenomenico, bensì a quella di verificare l’attitudine della condotta prescritta dalla norma cautelare ad evitare l’evento medesimo: si tratta dunque di una verifica che, a rigore, appartiene al giudizio di colpa – non essendo rimproverabile chi non poteva impedire l’evento nemmeno conformandosi alle norme cautelari – e che si sovrappone alla causalità solo nell’ambito dei reati omissivi, in ragione della già evidenziata struttura predittiva del loro paradigma controfattuale.
Da queste considerazioni di fondo discendono importanti conseguenze sul piano dello standard probatorio richiesto al fine dello svolgimento del giudizio di evitabilità: infatti, evidenzia con lucidità la sentenza in commento, mentre nei reati omissivi “il problema dell’evitabilità dell’evento è in primo luogo un problema causale, che si carica quindi del connotato di ragionevole certezza proprio della causalità condizionalistica”, nei reati commissivi “la collocazione dell’indagine [sull’evitabilità] nell’ambito della colpa attribuisce con ragione e senza difficoltà rilievo ad enunciati probabilistici. L’evitabilità si configura allorché, a seguito del giudizio controfattuale vi è una significativa, non trascurabile probabilità che l’evento sarebbe venuto meno. L’aggettivazione può cambiare: si parla, a seconda delle sfumate opinioni, di tendenziali, serie, concrete, apprezzabili possibilità di evitare l’evento. Ciò che conta però, ai fini del presente giudizio, è che si è comunque ben lontani dalle problematiche riguardanti la certezza propria di un connotato obiettivo dell’illecito quale il nesso casuale tra condotta ed evento.”
E’ peraltro evidente, benchè la Corte non lo affermi espressamente, che anche il giudizio di evitabilità deve essere svolto sulla scorta di una legge scientifica di copertura affidabile, selezionata attraverso i medesimi criteri indicati dalla Corte in relazione al tema della causalità.
3.4. L’annullamento con rinvio della sentenza della Corte d’Appello di Trento
La Quarta Sezione ritiene che la Corte d’Appello abbia fatto un corretto utilizzo dei principi descritti nei precedenti paragrafi allorché ha accertato, con esito positivo, il nesso di causalità tra l’evento letale e l’intera esposizione all’amianto subita dalla vittima presso la Ferrovie Trento Malè.
Anzitutto i giudici hanno individuato una legge scientifica di copertura sulla cui validità – abbiamo già evidenziato (v. supra, par. 2.1.) – non vi sono dubbi nella comunità scientifica: quella che stabilisce la correlazione tra l’esposizione all’amianto e l’insorgenza del mesotelioma. Dopodiché hanno correttamente eseguito il giudizio di causalità individuale: alla luce della vita professionale ed extraprofessionale della vittima, infatti, hanno escluso che la stessa fosse venuta a contatto con altri fattori di rischio autonomamente in grado di provocare il mesotelioma (quali l’erionite e le radiazioni ionizzanti), oppure con altre esposizioni all’amianto di entità significativa. Quest’ultimo passaggio della motivazione dimostra l’importanza di selezionare i possibili decorsi causali alternativi sulla sola base di leggi scientifiche affidabili: una volta rifiutata la cd. teoria della trigger dose (v. supra, par. 3.1.) è evidente che le uniche “altre esposizioni all’amianto” alle quali si può dare rilievo nel giudizio controfattuale sono quelle di non trascurabile entità.
È invece con riferimento al rapporto di causalità tra la successione nel tempo di esposizioni all’amianto e l’accelerazione della cancerogenesi (profilo centrale nel processo de quo – lo si ricorda – in ragione della pluralità di imputati, ciascuno dei quali aveva rivestito la posizione di garanzia durante una porzione dell’intero periodo in cui la vittima aveva lavorato presso la FTM) che i giudici della Cassazione hanno riscontrato due vizi nelle motivazioni d’appello.
Anzitutto, sotto il profilo della scelta della legge scientifica di copertura, la Cassazione reputa “inappagante” la motivazione resa a favore della natura dose-correlata del mesotelioma: infatti, nonostante nel dibattimento fossero emerse opinioni profondamente contrastanti su quel tema, la sentenza d’appello si è limitata a motivare l’opzione a favore di una delle ricostruzioni prospettate richiamando le opinioni degli esperti intervenuti, senza prendere in considerazione – come invece avrebbe dovuto – l’affidabilità metodologica dei diversi studi, l’integrità delle intenzioni degli stessi esperti, nonché il complessivo quadro del sapere scientifico disponibile.
In secondo luogo la Corte d’Appello ha completamente omesso di accertare la cd. causalità individuale, ossia la reale sussistenza, nel caso concreto, dell’effetto acceleratore che la legge di copertura stabilisce solo a livello probabilistico. I giudici di merito, infatti, hanno ritenuto – sulla base di studi epidemiologici, indagini biomolecolari, evidenziazioni sperimentali – di avere a disposizione “se non una legge universale […] un sapere scientifico idoneo senz’altro, alla luce della sentenza Franzese […] a far ritenere provata con elevato grado di credibilità razionale la necessaria correlazione tra il periodo di esposizione all’amianto e gli effetti nocivi”. Tali affermazioni mettono, secondo la Cassazione, plasticamente in luce “l’impropria sovrapposizione di probabilità statistica e probabilità logica e, soprattutto, l’utilizzazione della categoria concettuale della probabilità logica in chiave alogica, quale strumento retorico per enunciare apoditticamente l’esistenza di una relazione condizionalistica in realtà non dimostrata”.
I giudici di legittimità osservano infatti che, “per ciò che attiene ai segni dell’accelerazione, il quadro probatorio è vuoto”, ed aggiungono, col proposito di meglio chiarire quale sia l’itinerario probatorio da percorrere in sede di rinvio, che “il carattere probabilistico della legge potrebbe condurre alla dimostrazione del nesso condizionalistico solo ove fossero note informazioni cronologiche e fosse provato, ad esempio, che il processo patogenetico si è sviluppato in un periodo significativamente più breve rispetto a quello richiesto nei casi in cui all’iniziazione non segua un’ulteriore esposizione. Analogamente potrebbe argomentarsi ove fossero noti i fattori che nell’esposizione protratta accelerano il processo ed essi fossero presenti nella concreta vicenda processuale”.
Alla luce di tali censure la Corte annulla le condanne e rinvia la causa ad altra sezione della Corte d’Appello, la quale – muovendo dal presupposto, già oggetto di accertamento in maniera immune da vizi, che la malattia letale è effettivamente insorta presso gli stabilimenti Ferrovie Trento Malè – dovrà procedere alle seguenti verifiche:
“1. Se presso la comunità scientifica sia sufficientemente radicata, su solide ed obiettive basi una legge scientifica in ordine all’effetto acceleratore della protrazione dell’esposizione dopo l’iniziazione del processo carcinogentico.
2. Nell’affermativa, occorrerà determinare se si sia in presenza di legge universale o solo probabilistica in senso statistico.
3. Nel caso in cui la generalizzazione esplicativa sia solo probabilistica occorrerà chiarire se l’effetto acceleratore si sia determinato nel caso concreto alla luce di definite e significative acquisizioni fattuali.
4. Infine, per ciò che attiene alle condotte anteriori all’iniziazione […] si dovrà appurare se, alla luce del sapere scientifico, possa essere dimostrata una sicura relazione condizionalistica rapportata all’innesco del processo carcinogenetico”.
Per contro, sotto il profilo dell'accertamento della colpa, i giudici di legittimità hanno ritenuto la sentenza d’appello immune da vizi con riferimento alla verifica dell’evitabilità dell’evento lesivo attraverso la realizzazione di una condotta alternativa lecita. Infatti, osserva la Corte, essendo emerso nel corso del processo che esiste un rapporto probabilistico tra l’aumento della dose di amianto inalata e l’anticipazione dell’evento letale, ed essendo evidente che l’adozione delle misure cautelari tecnologicamente possibili avrebbe avuto quanto meno l’effetto di ridurre l’inalazione di fibre, si può ragionevolmente concludere che la condotta prescritta avrebbe avuto una “significativa, non trascurabile probabilità” di ritardare la morte della vittima.
[1] App. Trento, 24.10.2008, Cozzini e altri, in Corr. Merito, 2009, 1114, con nota di FOLLA.
[2] Il Tribunale di Trento, con sentenza del 9.11.2007, aveva assolto tutti gli imputati con la formula “perché il fatto non costituisce reato”. Pur riconoscendo che la patologia era effettivamente insorta a causa dell’amianto respirato presso gli stabilimenti della FTM, il giudice aveva ritenuto che non sussistessero profili di responsabilità penale né in capo ai membri del C.d.A., i quali avevano delegato l’organizzazione del lavoro ai due direttori di esercizio succedutisi in quegli anni; né in capo al direttore di esercizio in carica dal 1976 al 1982 (l’unico ad essere imputato, dal momento che il suo predecessore era già deceduto), non essendo stato dimostrato il nesso causale tra l’evento letale e quella porzione di esposizione all’amianto avvenuta durante il periodo in cui egli aveva rivestito la carica. A sostegno di quest’ultima affermazione la sentenza svolgeva due considerazioni: il fatto che gli esperti intervenuti nel dibattimento avessero collocato l’insorgenza del mesotelioma nei primi anni in cui la vittima aveva inalato le fibre di amianto, e dunque in un momento antecedente a quello in cui l’imputato aveva assunto l’incarico; nonché il fatto che i medesimi esperti, pur avendo riconosciuto l’esistenza di una legge statistica che individua una relazione tra il cumulo di esposizioni all’amianto e l’accelerazione del decorso patologico, non erano stati in grado di dire se tale effetto acceleratore si fosse effettivamente verificato nel caso di specie.
[3] GRIECO, Lineamenti di medicina del lavoro, 1999, p. 181; RIBOLDI, Il rischio da amianto, in FOA' - AMBROSI, Medicina del lavoro, 2003, 355ss.
[4] In giurisprudenza l’espressione compare, ad esempio, nella nota sentenza della Corte d’Appello di Venezia sul caso Macola, cfr. App. Venezia, 15.1.2001, Riv. trim. dir. Pen. econ,, 2001, p. 443.
[5] Per una recente disamina delle problematiche connesse alla responsabilità penale da amianto, v. MASERA L., Danni da amianto e diritto penale, in archiviodpc.dirittopenaleuomo.org. Un panorama delle più delicate questioni civili e penali che emergono in questa materia si può trovare nei seguenti lavori collettanei: MONTUSCHI L. – INSOLERA G. (a cura di), Il rischio da amianto, questioni sulla responsabilità civile e penale, 2006, Bononia University Press; DI AMATO A., La responsabilità penale da amianto, Giuffrè, 2003.
[6] Nella letteratura internazionale, cfr., per tutti, SELIKOFF, Asbestos and disease, New York, 1978, 262. V. inoltre MOLLO F., La causalità biomedica nei tumori professionali. Il problema del raccordo con la causalità giuridica, Relazione al convegno Lavoro e sicurezza. Un binomio irriducibile, Trento, 2002, 15; GRIECO, Lineamenti di medicina del lavoro, 1999, 181.
[7] Tra gli studi più citati in tal senso: CHIAPPINO - NICOLI, Mesotelioma: aspetti medico-legali, in MINOIA, SCANSETTI, PIOLATTO, MASSOLA, L’amianto: dall’ambiente di lavoro all’ambiente di vita. Nuovi indicatori per futuri effetti, 1997; FOA' - COLOSIO, Amianto: aspetti medici con storia degli impieghi industriali ed evoluzione dei livelli espositivi e degli aspetti normativi, in AA.VV., Rischio amianto. Contribuzione aggiuntiva. Responsabilità dell’impresa, diretto da SPAGNUOLO VIGORITA, 1997, 42.
[8] In questo senso, BARONE-ADESI E AL., International Journal of Cancer, 18.2.2008; TERRACINI, CARNEVALE, MOLLO, Amianto ed effetti sulla salute: a proposito del più recente dibattito scientifico giudiziario, in Foro it., 3, 2009, 148 ss; MIRABELLI - MAGNANI, Il rischio di mesotelioma della pleura in relazione all’epoca di prima esposizione, al profilo temporale di esposizione, alla dimensione delle fibre e alla predisposizione genetica, 2007.
[9] Per una disamina, anche con taglio comparatistico, dei problemi connessi alla scelta tra junk science e good science, v. MASERA L., Accertamento alternativo ed evidenza epidemiologica nel diritto penale, 2007, Giuffrè, p. 3 ss.; STELLA F., Giustizia e modernità, III ed., 2003, Giuffrè, 431 ss.
[10] A favore della natura dose-dipendente, v. tra le più recenti, Trib. Gorizia 20.7.2008, caso Italcantieri; Trib. Cuneo 20.12.2008, caso Michelin; Trib. Bari 16.6. 2009, caso Fibronit; Trib. Mantova, 14.1.2010, Belelli, tutte in archiviodpc.dirittopenaleuomo.org; a favore della natura dose-indipendente v. Trib. Chiavari 13 marzo 2003, Orlando e altri, confermata da App. Genova 10 marzo 2005, in Corr. Merito 2005, 1184, con nota di MASERA; GIP Milano, 4 giugno 2007, caso Ansaldo, in Foro Ambrosiano 2007, p. 315, con nota di BACCAREDDA BOY.
[11] Ha annullato la sopraccitata sentenza genovese, che come visto aderiva alla teoria della dose-indipendenza, Cass. sez. IV, 22.11.2007, n. 5117, Orlando, in Dir. e Pratica Lav., 2008, 13, 832; ha invece annullato un pronuncia che aderiva alla teoria della dose-dipendenza, Cass. pen. sez. IV, 10.6.2010, n. 38991, caso Montefibre, in archiviodpc.dirittopenaleuomo.org.
[12] Nella letteratura scienfica più recente, v. MAGNANI C., FERRANTE D., BARONE-ADESI F., BERTOLOTTI M., TODESCO A., MIRABELLI D., TERRACINI B., Cancer risk after cessation of asbestos exposure: a cohort study of Italian asbestos cement workers, in Occup. Environ. Med. 65:164-70, 2008.
[13] Cfr., ex multis, Cass. pen., 12 luglio 1991, Silvestri, in Foro it. 1992, II, 363; nella giurisprudenza di merito, proprio con riferimento ad un caso di mesotelioma pleurico, è paradigmatica Pret. Torino, 9 febbraio 1995, imp. Barbotto Beraud, in Riv. it. dir. proc. pen. 1997, 1447 ss, con nota di PIERGALLINI.
[14] Con riferimento al caso della Eternit di Casale Monferrato, v. Trib. Casale Monferrato, 30.10.1993, Giannitrapani e al., in Riv. crit. Dir. Lav., 1994, 697 ss: la condanna viene confermata in sede d’appello, nonché, salvo i proscioglimenti in punto di prescrizione, da Cass. pen. sez. IV, 31.10.1996, n. 512, id., 1997, 657 ss.; Pret. Torino, 2.6.1998, Camposano e al., Riv. crit. dir. lav. 1998, 1066 ss: condanna confermata in sede d’appello e parzialmente da Cass. pen., sez. IV, 30.3.2000, n. 5037, in Foro it., 2001, II, 278, con nota di GUARINIELLO; Pret. Padova, 3.6.1998, Macola e al., in Riv. trim. dir. pen. econ., 1998, 721 ss., confermata da App. Venezia, 15.1.2001, id., 2001, 439 ss., a sua volta confermata da Cass. pen. sez. IV, 11.7.2002, n. 988 (sulla quale v. anche infra, nota n. 23); Pret. Bergamo, 3.4.1997, Covili e al., in Foro it., II, 484 ss, quest’ultima confermata in appello ma annullata dalla Cassazione con una sentenza del 2001 che sposa la teoria della “certezza prossima al 100%”, sulla quale si dirà tra un attimo.
[15] In ambito omissivo, infatti, la causalità si risolve in una prognosi consistente nell’accertare se la condotta alternativa lecita avrebbe o meno impedito l’evento. Tale carattere predittivo del giudizio controfattuale omissivo è all’origine dell’impossibilità di raggiungere lo stesso grado di certezza che caratterizza la causalità commissiva, il cui giudizio controfattuale ha invece natura esplicativa, poiché consiste nell’accertare se l’azione è stata o meno condicio sine qua nondell’evento (per il confronto tra le due tipologie di causalità, v. VIGANO' F., Riflessioni sulla cd. causalità omissiva in materia di responsabilità medica, in Riv. it. dir. proc. pen., 2009, pp. 1679 ss; e in BARTOLI (a cura di), Responsabilità penale e rischio nelle attività mediche e d’impresa, Firenze University Press, 2010, pp. 217 ss;; nonché MASERA L., Il modello causale delle Sezioni Unite e la causalità omissiva, in Dir. p