ISSN 2039-1676


03 novembre 2017 |

Nunca más: la Corte d’Assise di Roma condanna i vertici dei regimi dittatoriali dell’america latina per l’omicidio di alcuni desaparecidos italiani

Corte d’Assise di Roma, sent. 17 gennaio 2017 (dep. 10 aprile 2017) n. 31079, Pres. Canale

Contributo pubblicato nel Fascicolo 11/2017

Per leggere il testo della sentenza in commento, clicca qui.

 

1. Con la sentenza in epigrafe la Corte d’Assise di Roma ha pronunciato otto condanne all’ergastolo nei confronti di alcune tra le più alte cariche al potere nell’America latina tra gli anni ’70 e ’80, ritenuti responsabili per le morti di numerosi cittadini italiani oppositori al regime, annoverabili tra le fila dei desaparecidos. Accanto alle condanne sono state pronunciate sei sentenze di non luogo a procedere per intervenuta morte di alcuni imputati nelle more del processo, oltre a diciannove assoluzioni nei confronti di soggetti che all’epoca ricoprivano posizioni intermedie all’interno della scala gerarchica, nei confronti dei quali è stato possibile ascrivere, al più, la sola penale responsabilità in merito ai sequestri delle vittime, ormai prescritti.

In attesa di poter ospitare su questa rivista un contributo più puntuale alla sentenza in commento, ricapitoliamo gli aspetti salienti della complessa vicenda.

 

2. I fatti in commento si inseriscono nel contesto della sanguinosa attività di repressione all’opposizione politica portata avanti dai regimi dittatoriali andatisi instaurando nei paesi dell’America latina durante gli anni ’70, che ha trovato massima espressione nella formalizzazione – risalente al novembre 1975, allorché si concludeva a Santiago del Cile la prima riunione interamericana dei servizi nazionali d’intelligence – del c.d. plan Condor. Si tratta di un vero e proprio accordo quadro con il quale i paesi del Cono Sud davano vita ad una stretta collaborazione tra le corrispettive forze di intelligence, al contempo assicurandosi reciproca impunità per le illegalità commesse nell’ambito della feroce persecuzione di ideologie ritenute sovversive.

È in questo contesto che nasce e si sviluppa il tristemente noto fenomeno dei desaparecidos, militanti politici considerati pericolosi in ragione del loro ruolo di spicco all’interno dell’opposizione ovvero in quanto semplici membri della lotta armata, sequestrati dalle forze militari, tenuti prigionieri in centri di detenzione illegali, torturati per ottenere informazioni e, infine fatti “sparire” nel nullarectius, assassinati.

Proprio in relazione ad alcuni di questi episodi criminosi, perpetrati nei confronti di militanti di origini italiane, la procura romana ha chiesto la condanna di 33 persone che all’epoca dei fatti ricoprivano in Cile, Argentina, Uruguay, Bolivia, Brasile, Perù e Paraguay posizioni di vertice (quali capo di stato, ministro degli affari interni ed esterni, comandante militare, capo della polizia e dei servizi segreti). Gli imputati sono stati chiamati a rispondere dei delitti di strage – poi espunta dai capi d’imputazione per un vizio di procedibilità – sequestro di persona a scopo di estorsione e omicidio pluriaggravato, tutti legati dal vincolo della continuazione.

La pubblica accusa ha ritenuto di ascrivere le condotte contestate in capo a tutti gli imputati senza distinzione di sorta tra le varie cariche, né, parimenti, ai singoli contributi prestati in ogni concreto episodio di reato. Invero, sostiene la Procura che la responsabilità per i fatti contestati sarebbe da ripartire egualmente tanto tra chi ha ideato e coordinato un sistema di repressione degli oppositori politici facente manifestamente ricorso a metodi illeciti, quanto tra tutti gli altri soggetti che, a vario titolo, ma comunque a livelli inferiori rispetto ai primi, hanno preso parte a tale repressione. Questo nonostante l’istruttoria dibattimentale – altamente complessa e sostanzialmente indiziaria, basata principalmente sulle testimonianze dei sopravvissuti e dei familiari delle vittime, così come sui documenti ufficiali redatti dalle numerose commissioni d’inchiesta istituite da organismi internazionali – non abbia permesso di accertare al di là di ogni ragionevole dubbio l’identità degli esecutori materiali.

 

3. Venendo ora al merito, tra le fondamentali premesse dalle quali muove la sentenza in commento, preminente rilievo viene attributo proprio all’assodata esistenza del plan Condor, così come assodate sono l’identificazione della sua principale finalità nella soppressione di oppositori politici e, parimenti, la riconducibilità delle morti oggetto del procedimento proprio a tale sistema. In tale senso, afferma la sentenza, parlano non solo le fonti storiche, ma anche il comune senso logico, dal momento che per portare avanti operazioni repressive di così larga scala e, per di più, a carattere transnazionale, si rendeva necessario un consenso espresso delle più alte cariche ai vertici dei paesi coinvolti.

In particolare, tutto l’impianto della sentenza si fonda sulla distinzione tra le responsabilità ascrivibili in capo alle figure di vertice e quelle eventualmente attribuibili ai quadri intermedi, da valutarsi all’interno della struttura gerarchizzata propria dei regimi militari nel contesto – ed a sostegno – dei quali sono state portate avanti le repressioni contestate. Caratteristica, questa, che comporta l’applicazione di principi differenziati rispetto a quanto riscontrabile nell’ambito di associazioni mafiose o terroristiche, in riferimento alle quali la giurisprudenza maggioritaria ritiene necessaria la prova di un effettivo contributo causale al singolo delitto-fine anche per i vertici, non essendo possibile inferirlo automaticamente dalla sola posizione apicale ricoperta dall’agente.

 

4. Quanto ai primi, la sentenza conclude nel senso che siano stati proprio i vertici politici e militari a dare vita a quello che viene definito un vero pactum sceleris il cui obiettivo principale era quello di eliminare, laddove necessario anche fisicamente, chiunque si fosse opposto ai regimi dittatoriali, schierandosi a sostegno di ideologie ritenute sovversive (tra le file dei desaparecidos si annoverano principalmente militanti di movimenti o partiti di sinistra, quali il MLN, il PVD e il GAU uruguaiani, il PST argentino, l’ELN boliviano; un caso a sé, nel procedimento di specie, è quello del cittadino italo-cileno Juan Josè Montiglio Murua, parte della guardia presidenziale di Salvador Allende, i cui membri, a seguito del golpe dell’11 settembre 1973, furono fucilati su ordine di Pinochet).

Proprio in forza di ciò, non solo tali soggetti risultano coinvolti negli omicidi politici nel ruolo di ideatori, e dunque mandanti, ma, talvolta, emerge anche un loro contributo causale di tipo materiale ai singoli episodi contestati.

A tal proposito, la Corte ha ritenuto puntuale il richiamo effettuato dalla pubblica accusa al precedente “Suarez Mason”, relativo alla scomparsa di alcuni cittadini italo-argentini. In questa pronuncia la stessa Corte d’Assise di Roma aveva avuto modo di affermare che proprio la natura sistematica e generalizzata dell’attività di repressione ne rendeva direttamente responsabili i comandanti ideatori e promotori, dai quali per primi erano promanate le direttive volte all’eliminazione dei sovversivi[1].

Osserva la Corte che, proprio sulla scorta di tali considerazioni, anche nel caso di specie i vertici dei paesi aderenti al plan Condor devono essere ritenuti a pieno titolo concorrenti con gli autori materiali dei fatti di sequestro, tortura e omicidio dei desaparecidos, dal momento che tali reati non possono certo considerarsi “frutto di eccessi ai quali potrebbero essersi abbandonate schegge impazzite delle forze armate”. Piuttosto, si inseriscono all’interno di quel sistema di repressione pianificato sin dagli esordi ed in esecuzione del quale sono stati senz’altro ripartiti precisi ordini da parte dei superiori gerarchici – il cui coinvolgimento, in alcuni casi, risulta addirittura cristallizzato nella firma apposta in calce a documenti con i quali gli stessi si assumevano la piena responsabilità di tutte le eventuali violazioni di diritti umani commesse nell’ambito di quella spietata repressione politica.

Ne deriva, prosegue la Corte nel suo ragionamento, che a tali soggetti deve essere ascritta una piena corresponsabilità per i singoli omicidi, anche se materialmente realizzati da soggetti diversi, attesa la struttura unitaria propria del reato concorsuale, nel senso che “gli atti dei singoli concorrenti sono nello stesso tempo considerati loro propri e comuni anche agli altri, sicché ciascuno ne risponde interamente” allorché siano contestualmente riscontrate, come avvenuto nel caso di specie, tanto la connessione causale tra i comportamenti tenuti dai singoli agenti, quanto il collegamento finalistico che lega i comportamenti stessi.

Né vale ad escludere la configurazione dei delitti di omicidio il mancato ritrovamento dei cadaveri, posto che l’estensione di massa del fenomeno dei desaparecidos, unitamente al numero ormai elevato di anni trascorsi senza che nessuno sia più ricomparso, rendono manifestamente illogica ogni eventuale prospettazione che ne neghi l’avvenuta uccisione per mano dei regimi dittatoriali saliti al potere in quel periodo storico.

Oltretutto, afferma la sentenza, in molti casi l’assenza del cadavere può risultare in parte compensata, dal punto di vista probatorio, dall’intensità del movente, posto che alcune delle vittime rivestivano un ruolo di spicco all’interno dei movimenti di opposizione ai regimi ­– o, quantomeno, tale ne era la considerazione agli occhi dei loro persecutori. Invero, la sentenza si sofferma ampiamente sul punto, definendo la causale omicidiaria come “chiave di lettura degli altri elementi di prova”, al punto che il coinvolgimento in un delitto può essere desunto anche a partire dalla sola causale “quando questa, per la sua specificità, converge in una direzione univoca”.

Viene quindi ravvisata in capo ai vertici militari l’aggravante della premeditazione, sia quanto alla sua componente cronologica, sia quanto a quella psicologica. Invero, afferma la sentenza, la sussistenza di tale circostanza risulta senz’altro provata proprio in relazione al già richiamato plan Condor, entro il quale, gettate le “basi per una vera e propria pianificazione delle uccisioni di massa”, la repressione degli oppositori politici ha trovato attuazione.

Altrettanto provata risulta, poi, l’aggravante dell’aver adoperato sevizie e aver agito con crudeltà verso le persone; in questo senso la Corte richiama quanto in precedenza statuito sul punto nella sentenza Astiz, in riferimento ai c.d. “voli della morte” argentini, laddove è stata ritenuta “manifestazione autonoma e ulteriore di estrema crudeltà la privazione deliberata perfino del conforto di una tomba”[2] per i parenti delle vittime.

 

5. Diametralmente opposto è il risultato al quale perviene la Corte per quanto attiene ai soggetti intermedi nella catena di comando.

La sentenza muove dalla constatazione che l’istruttoria difficilmente ha permesso di identificare gli esecutori materiali degli omicidi di cui ai capi d’imputazione, a differenza di quanto riguarda gli autori dei sequestri e delle torture. Invero, i soggetti in questione, che, di fatto, erano contemporaneamente “membri dell’associazione per delinquere, creata dai loro rispettivi capi, e dipendenti statali provenienti dalle legittime istituzioni piegate ai fini criminali dell’associazione divenuta, con la forza della tirannia, governo del paese”, ricoprivano – quantomeno generalmente, posto che non è improbabile ipotizzare che in molti casi i ruoli di esecutore materiale e di mandante coincidessero – posizioni medio-basse nel sistema gerarchico militare, trovandosi a dover dare esecuzione agli ordini impartiti loro dai superiori.

Ciò non vale, tuttavia, ad integrare la causa di giustificazione dell’adempimento di un dovere di cui all’art. 51 c.p. La Corte condivide in questo senso il consolidato orientamento giurisprudenziale, richiamato dalla stessa pubblica accusa, a rigore del quale la scriminante in parola non trova applicazione laddove l’ordine impartito dal superiore gerarchico abbia per oggetto la commissione di un reato che ecceda i compiti del servizio svolto. Tanto più che, in una simile ipotesi, non solo il subordinato può legittimamente rifiutare l’esecuzione dell’ordine, ma, anzi, il dovere si ribalta, pretendendosi dallo stesso proprio il mancato adempimento della direttiva illecita impartita, insieme al dovere di avvisarne prontamente i superiori[3]. Circostanza, osserva la sentenza, indubbia nel caso di specie, atteso che non può certo essere posta in discussione la dimensione di illegalità entro la quale venivano perpetrati i crimini connessi al plan Condor, realizzati, per di più, “nella massima segretezza proprio per non disseminare di prove il criminale percorso delle giunte militari e dei loro gregari”.

Né, d’altra parte, può essere legittimamente invocata l’esimente dello stato di necessità di cui all’art. 54 c.p., stante la mancata emersione, quantomeno a livello di verità processuale, di situazioni nelle quali gli esecutori materiali si siano trovati nell’assoluta impossibilità di dissociarsi dalle condotte criminose.

Cionondimeno, afferma la Corte, per poter ascrivere in capo ai soggetti intermedi anche la responsabilità per le morti dei lori prigionieri, non si può prescindere dalla prova di un loro contributo causale effettivo in merito alla fattispecie di omicidio, un quid pluris che non può dirsi assorbito in una sorta di presunzione assoluta, ma deve trovare riscontro, di volta in volta, negli elementi probatori emersi in seno al processo. In definitiva, non basta a fondare la responsabilità dei soggetti in parola la mera considerazione del ruolo da loro ricoperto all’interno del sistema – in ossequio a quel principio, più volte riaffermato dalla giurisprudenza di legittimità, che respinge la responsabilità da posizione o da riscontro d’ambiente, non ritenendosi di per sé sufficiente a fondare un addebito di colpevolezza la sola appartenenza al sodalizio criminoso.

In questi termini, pertanto, la mera adesione degli imputati al sistema di repressione degli oppositori politici, unitamente all’apporto da loro prestato alla gestione dei centri di detenzione clandestina, ancorché accertati, non bastano a ritenere configurato, al di là di ogni ragionevole dubbio, un concorso nel delitto di omicidio, difettandone la prova di un contributo causale – morale o materiale che sia – ulteriore. Diversamente opinando, osserva la Corte, si finirebbe per ricadere in un’ipotesi di responsabilità oggettiva, in assenza di riscontri di fatto specifici e individualizzanti per ciascun soggetto coinvolto.

Invero, la sentenza si sofferma ampiamente in punto di responsabilità concorsuale, rilevando preliminarmente come il legislatore abbia preferito alla descrizione astratta della condotta tipica concorsuale il criterio dell’orientamento causale. Dal che deriva la necessità di verificare che la responsabilità del concorrente sia fondata su una specifica condotta e non su qualsivoglia diversa forma di coinvolgimento nei fatti poi sfociati nella commissione dell’illecito penale. A tal proposito la Corte chiarisce come non vada confusa “l’atipicità della condotta criminosa concorsuale, pur prevista dall’art. 110 c.p., con l’identificazione probatoria circa le forme concrete del suo manifestarsi nella realtà”[4] e che, pertanto, oggetto di prova ai sensi dell’art. 187, comma 1 c.p.p., dovrà essere “una specifica condotta ad efficienza causale accertata (e descritta)”. Pur trattandosi di un tipo di prova che, al pari di altre, può anche essere desunta da quanto già appreso circa il funzionamento interno del gruppo criminale di appartenenza, questa deve sempre trovare appoggio su inferenze affidabili e precise, che si risolvano in una vera e propria impossibilità di concepire la commissione del reato nell’assenza del coinvolgimento in esame.

Ebbene, ritengono i giudici di merito che nel caso di specie il quadro indiziario non presenti quei caratteri di gravità, precisione e concordanza necessari per poter supportare una sentenza di condanna. Per la quasi totalità degli imputati l’istruttoria ha permesso di giungere a ritenere provato, al più, il solo coinvolgimento nei sequestri – ormai prescritti – e nelle torture. Nessun elemento chiaro e univoco è, invece, emerso in riferimento ad una loro diretta e volontaria partecipazione negli omicidi, posto che spesso i prigionieri, a un certo punto della loro detenzione, venivano sottratti alla sfera di controllo degli aguzzini e “trasferiti” altrove, talvolta liberati, più spesso sottoposti a processi farsa dinnanzi alla giustizia militare o direttamente eliminati.

La Corte respinge, pertanto, l’assunto della pubblica accusa secondo cui il dolo omicidiario sarebbe necessariamente ricompreso entro l’elemento soggettivo proprio del sequestro di persona, attesa, in questo tipo di reato, l’inevitabile prevedibilità dell’evento morte, la cui probabile verificazione sarebbe accettata da tutti i concorrenti quantomeno a titolo di dolo eventuale. Invero, nelle ipotesi in esame, stando alla ricostruzione fornita dalla sentenza, le sevizie venivano inflitte al “solo” fine di estorcere informazioni, mentre non è possibile escludere che alla “sparizione” delle vittime “provvedessero, con modalità preordinate con congruo anticipo e su vasta scala, altre articolazioni del potere repressivo”.

Al tempo stesso, anche qualora si dovesse ritenere che alcune delle morti siano state conseguenza diretta delle torture inflitte, la possibilità di pervenire a una condanna degli imputati risulterebbe esclusa dall’intervenuta prescrizione. Infatti, non essendo più ravvisabile l’aggravante della premeditazione che, in quanto circostanza autonoma, muta la specie di pena prevista per il delitto di omicidio, viene meno quel riferimento all’ergastolo necessario per superare la causa di estinzione del reato in parola, trattandosi di crimini commessi quasi quarant’anni fa.

 

***

 

6. Non è questa la sede per una riflessione critica sulla sentenza qui riportata, che affronta nodi cruciali della dogmatica del concorso di persone del reato meritevoli di più attenta considerazione. Ci limitiamo a un solo cenno relativo a una questione apparentemente trascurata – o data quasi per scontata – dalla Corte: quella cioè attinente alla giurisdizione italiana rispetto ai fatti di causa.

La sentenza si limita, in via preliminare, a respingere le eccezioni sollevate dalla difesa, fugando ogni dubbio circa la ravvisabilità in capo alle vittime della cittadinanza italiana, che “non viene meno con la doppia cittadinanza” – si tratta, infatti, di figli di cittadini italiani, nati all’estero. Al contempo, viene ricordato come sia intervenuta rituale e tempestiva richiesta di procedimento da parte del Ministro della giustizia.

Alla luce di queste precisazioni, dunque, si potrebbe già ragionevolmente concludere che la Corte abbia ritenuto radicata la propria competenza a giudicare i fatti ai sensi dell’art. 8 c.p., laddove, in deroga al principio di territorialità, viene estesa l’applicabilità della legge penale italiana agli stranieri che abbiano commesso in territorio estero un delitto politico – conclusione che, del resto, trova conferma nella lettura dei capi d’imputazione, dove vi è espressa menzione di tale norma.

In particolare, proprio per l’attenzione riposta dalla Corte al requisito della cittadinanza italiana, l’ipotesi di riferimento è verosimilmente la seconda indicata nel terzo comma dell’art. 8: per diritto politico dovrà intendersi, tra l’altro, “ogni delitto che offende un diritto politico del cittadino”.

Non è chiaro, tuttavia, quale sia l’esatto contenuto dei diritti c.d. “oggettivamente” politici, né la sentenza fornisce alcuna spiegazione in tal senso. Si può comunque ritenere che la Corte abbia fatto propria l’ampia lettura che di tale nozione la giurisprudenza ha dato sino ad ora. In particolare, la Corte di Cassazione si è spinta fino ad annoverare tra i diritti politici ogni diritto fondamentale garantito “dalla nostra Carta Costituzionale e da norme internazionali recepite nel nostro ordinamento giuridico, come il diritto alla vita, il diritto alla libertà personale, il diritto di associazione, il diritto di manifestare le proprie idee, ecc.”[5]. Interpretazione, questa, che va ben oltre quanto tradizionalmente inteso per diritto politico del cittadino, circoscritto dalla dottrina a quello in qualche modo funzionale all’elezione dei propri rappresentanti o alla formazione della volontà dello Stato[6].

È evidente però che l’adozione di una lettura così vasta di diritto politico finisce, di fatto, per svuotare il concetto di ogni capacità selettiva, estendendolo ad ogni reato che offenda pressoché qualsiasi diritto del cittadino, compreso il patrimonio (riconosciuto come diritto fondamentale dal diritto internazionale dei diritti umani); con la conseguenza, probabilmente paradossale, di dover qualificare come “delitto oggettivamente politico” anche un furto commesso a danno di un cittadino italiano in qualsiasi paese del mondo, in deroga al criterio di territorialità su cui, almeno in linea di principio, si basano le norme dettate dal codice penale in materia di giurisdizione italiana.

Sul punto appare pertanto più che mai opportuna un’approfondita riflessione da parte della dottrina e della stessa giurisprudenza, che la sentenza qui pubblicata non ha contribuito – purtroppo – ad impostare.

 

 


[1] Cfr. II Corte d’Assise di Roma, 6 dicembre 2000, n. 1402/93 R.G. G.I.P., Foro it. 2002, II, p. 564 e ss.

[2] Corte d’Assise di Roma, 14 marzo 2007, n. 9241.

[3] Così, ex multis, Cass. pen., Sez. V, 25 novembre 2008, n. 6064, CED Cass. pen. 2009.

[4] La sentenza riprende così il principio già espresso in Cass. pen., S.U., 30 ottobre 2003, n. 45276, Rv.226101; Cass. pen., Sez. I, 28 novembre 2007, n. 4060, Rv. 239196; Cass. pen., Sez. I, 17 gennaio 2008, n. 5631, Rv. 238648; Cass. pen., Sez. I, 18 febbraio 2009, n. 10730, Rv. 242849; Cass. pen., Sez. I, 28 febbraio 2014, n. 14684, Rv. 259603.

[5] Cass. pen., Sez. I, 28 aprile 2004, n. 23181, in Cass. pen. 2006, 4, p. 1470 e ss. (si tratta della sentenza di Cassazione relativa al già menzionato caso Suarez). I fatti alla base di tale sentenza sono, per altro, del tutto similari a quelli oggetto della pronuncia in commento: si trattava infatti, secondo le parole della Corte, di “delitti di oggettiva gravità, commessi in danno di cittadini italiani residenti in Argentina, in esecuzione di un preciso piano criminoso diretto all'eliminazione fisica degli oppositori al regime senza il rispetto di alcuna garanzia processuale e al solo scopo di contrastare idee e tendenze politiche delle vittime, iscritte a sindacati, o partiti politici o ad associazioni universitarie”. Nel caso di specie tali delitti sono stati ricondotti entro i confini dell’articolo 8 c.p. in quanto idonei ad offendere non solo i diritti politici del cittadino – nel senso sopra precisato – ma anche interessi politici dello Stato “che ha il diritto ed il dovere di intervenire per tutelare i propri cittadini”.

[6] Cfr. Fiandaca G. – Musco E., Diritto penale, Parte generale, Bologna, 2014, p. 146; Marinucci G. – Dolcini E., Manuale di diritto penale, Parte generale, VI edizione aggiornata da E. Dolcini e G. L. Gatta, Milano, 2017, p. 139; F. Mantovani, Diritto penale, Parte Generale, Padova, 2015, p. 892; T. Padovani, Diritto Penale, XI edizione, Milano, 2017, p. 75; F. Antolisei, Manuale di diritto penale, Parte generale, Milano, 2003, p. 115; Romano M., Commentario sistematico del codice penale, vol. I, Milano, 2004, p. 121; S. Aprile, commento all’art. 8 c.p., in., Marinucci G. – Dolcini E., (a cura di), Codice penale commentato, Milanofiori, Assago, 2015, p. 265; P. Nuvolone, Delitto politico e diritto d’asilo, I Pen, 1970, p. 172; G. Vassalli, Il delitto politico commesso all’estero, in Aa.Vv., Il delitto politico: dalla fine dell’ottocento ai giorni nostri, Quaderno III di Critica del diritto, 1984, p. 388 e ss. Invero, è opinione ormai comune in dottrina che tale nozione di delitto politico debba essere circoscritta al solo specifico ambito delineato dall’art. 8 c.p., dunque in materia di estensione della giurisdizione penale italiana. A seguito dell’emanazione della Carta Costituzionale, infatti, una diversa lettura ne è richiesta in rapporto ad istituti quali l’estradizione, art. 26 Cost., e il diritto di asilo, art. 10 Cost.: ambiti nei quali, come evidente, le esigenze sentite sono ben diverse – se non addirittura contrapposte – rispetto a quella di cui all’art. 8 c.p. (in questo senso si veda, ex multis, M. Pelissero, Reato politico e flessibilità delle categorie dogmatiche, Napoli, 2000, p. 44 e ss. “[viene in evidenza] l’incapacità del parametro normativo di pervenire ad una nozione unitaria di reato politico, in quanto la specificità degli istituti, in cui tale illecito di categoria compare, ne condiziona l’ambito di applicazione”).