ISSN 2039-1676


03 aprile 2018 |

La Cassazione e il furto (tentato) di una melanzana: tra tenuità del fatto e patologie della giustizia penale

Osservazioni a margine di Cass., Sez. V, 2.11.2017 (dep. 20.3.2018), n. 12823, Pres. Fumo, Rel. Micheli, ric. Saba

Contributo pubblicato nel Fascicolo 4/2018

1. La sentenza che può leggersi in allegato, depositata dalla Cassazione nei giorni scorsi, annulla senza rinvio, perché il fatto non è punibile ai sensi dell’art. 131 bis c.p., la condanna pronunciata dalla Corte d’Appello di Lecce nei confronti di un uomo per il furto, tentato, di una melanzana prelevata da un campo.  

Il lettore si chiederà: ma è mai possibile che si celebri un processo penale, articolato su tre gradi di giudizio, per il furto, per giunta tentato, di una – una sola – melanzana?  E dopo aver letto la sentenza qui allegata si domanderà ancora: ma è mai possibile che nei primi due gradi di giudizio per quella bazzecola siano state pronunciate altrettante sentenze di condanna?

Al lume della ragione, non è decisamente possibile: de minimis non curat praetor. Eppure dalla realtà giudiziaria, come ben sa chi frequenta le aule di giustizia, affiorano non di rado vicende tanto singolari quanto emblematiche di stati patologici della giustizia penale; vicende, come quella in esame, tanto eclatanti da acquistare rilievo mediatico – in Italia e perfino all’estero – e da indurre un noto giornalista, Luca Telese, a titolare così, senza mezzi termini, un editoriale pubblicato online: “La grandissima vergogna del processo da 8 mila euro per il furto di una melanzana. La lezione feroce alla giustizia italiana”.

 

2. È sin troppo evidente che un fatto di così minima se non nulla rilevanza non può giustificare la celebrazione di un procedimento penale: i relativi costi (compresi quelli per la difesa d’ufficio, enfatizzati dai media) e l’impiego del tempo di giudici e pubblici ministeri, sui quali normalmente grava un enorme carico giudiziario. Così come è evidente, alla luce dei principi che reggono il sistema (proporzione e offensività, in primis) che una condanna penale per il furto di una melanzana, per giunta solo tentato, è inconcepibile. Se così è, allora, come è possibile che un caso come quello in esame possa arrivare davanti a un giudice penale e occupare addirittura la Corte Suprema di Cassazione?

Cercare di dare una risposta a questa semplice domanda significa riflettere sulla patologia del processo penale: sulle cause del sovraccarico e della correlata lentezza. Processi come quello in esame non dovrebbero iniziare e, comunque, dovrebbero finire presto: non davanti alla Corte di Cassazione, cinque anni dopo la sentenza di condanna pronunciata in primo grado.

La vicenda del furto della melanzana è emblematica di quanto sia importante, per la tenuta del sistema, che la rigidità e l’eccessivo rigore delle norme – nel caso di specie, quelle in materia di furto – siano compensate dalla duttilità di chi è chiamato ad interpretarle. Nel caso di specie, a venire in rilievo è un’ipotesi di furto aggravato ex art. 625 c.p. (la melanzana è esposta alla pubblica fede) e, come tale, procedibile d’ufficio. Senonché, considerato il valore della res, evidentemente pari a pochi centesimi, l’archiviazione del procedimento – o comunque l’assoluzione dell’imputato, a procedimento avviato – ben avrebbe potuto essere motivata argomentando nel senso dell’inoffensività della condotta (un nobile argomento giuridico che può venire in soccorso...al buon senso). Senza fare scempio al diritto – e, anzi, richiamando illustri penalisti come Manzini e Antolisei – si può sostenere infatti in una richiesta di archiviazione o in una sentenza di assoluzione, che il furto ha ad oggetto una cosa che, secondo il comune giudizio, è in sostanza economicamente irrilevante: non lo è infatti molto di più rispetto al chicco d’uva citato da Antolisei[1], o ai grani di pepe o al pezzo di legno citati da Manzini[2]. È un’interpretazione, a ben vedere, conforme al principio di proporzione (oltre che a quello di offensività) e, pertanto, costituzionalmente imposta: il minimo valore economico rilevante per i diritto è quello che giustifica l’inflizione della pena comminata per il delitto di furto. Diverso sarebbe, per inciso, se al posto di una sola melanzana venisse in rilievo il furto di più melanzane, per un valore non più irrilevante. In questo caso, pacificamente, il furto sarebbe integrato, secondo l’insegnamento di Manzini, perché sarebbero sottratte “più cose, ciascuna delle quali, considerata in sé, non ha valore giuridicamente rilevante, ma insieme unite hanno un valore giuridicamente considerabile”[3].

 

3. Si potrebbe essere indotti a pensare che, dopo l’introduzione dell’art. 131 bis c.p. (esclusione della punibilità per particolare tenuità del fatto), l’interprete disponga ora di uno strumento in grado di mettere al riparo il sistema da procedimenti come quello in esame. Non è però sempre così, come mostra proprio la vicenda che ha affrontato la Cassazione. Il codice Rocco, infatti, punisce il furto aggravato ex art. 625 c.p. con la pena della reclusione pari, nel massimo a sei anni: un limite edittale superiore a quello (cinque anni) che individua l’ambito di applicabilità della causa di non punibilità prevista dall’art. 131 bis c.p. (non applicabile, di conseguenza, al furto di un bene di modestissimo valore, esposto alla fede pubblica, realizzato con destrezza o con un mezzo fraudolento, ecc.). L’art. 131 bis prevede infatti, al quarto comma, che per la determinazione del limite di pena detentiva di cinque anni, decisivo per l’applicabilità o meno della causa di esclusione della punibilità, si deve tenere conto delle circostanze ad effetto speciale (come quella di cui all’art. 625, che comporta un aumento di pena, rispetto al furto semplice, superiore a un terzo), mentre non si deve tenere conto del giudizio di bilanciamento con  eventuali concorrenti circostanze attenuanti – come quella del danno patrimoniale di speciale tenuità (art. 62 n. 4 c.p.), riconosciuta nella vicenda in esame.

Si spiega così perché mai nella vicenda in esame la Corte d’Appello di Lecce, chiamata a pronunciarsi (a differenza del Tribunale) dopo l’introduzione dell’art. 131 bis c.p., non abbia applicato la relativa disposizione e abbia invece confermato la condanna pronunciata in primo grado. Senonché la Corte d’Appello, come sottolinea la Cassazione, non si è avveduta che, nel riqualificare il furto come tentato, anziché consumato, ha creato le premesse per l’applicabilità dell’art. 131 bis c.p. Affermando un importante principio di diritto – che sarebbe degno di massimazione – la sentenza annotata sottolinea infatti come, in caso di delitto tentato, ai fini delle determinazione del limite massimo di pena per l’applicabilità dell’art. 131 bis c.p. occorra fare riferimento al massimo edittale della pena detentiva comminata per il delitto tentato, che è un’autonoma figura di reato. Nel caso di specie, applicando la riduzione di un terzo ex art. 56, comma 2 c.p. al massimo edittale della pena del furto aggravato ex art. 625, la pena massima è pari a quattro anni e, pertanto, può trovare applicazione l’art. 131 bis c.p.  

 

4. Questa soluzione, del tutto condivisibile, lascia però aperto il problema: il furto tentato di una melanzana, oggi, non è punibile ai sensi dell’art. 131 bis c.p. (sempre che la condotta non sia abituale)[4]; il furto consumato di una melanzana, invece, è punibile, non trovando applicazione la causa di esclusione della punibilità. È una situazione irragionevole, per evitare la quale, a ben vedere, torna attuale il vecchio argomento di Manzini e Antolisei: il fatto è talmente lieve, nell’ipotesi consumata e, a fortiori, in quella tentata, da potere e dovere essere considerato tout court inoffensivo, piuttosto che non punibile per esiguità dell’offesa.

De jure condito soluzioni diverse, come mostra la stessa sentenza annotata, sono difficilmente percorribili: lo è, in particolare, invocare lo stato di bisogno ai fini di un’improbabile riconoscimento dello stato di necessità o anche solo per ottenere la derubricazione in furto lieve per bisogno ex art. 626, co. 1, n. 2 c.p. (punibile a querela) perché relativo a “cose di tenue valore” e realizzato “per provvedere a un grave e urgente bisogno”, indilazionabile se non sottraendo la cosa (una melanzana?!).

De jure condendo il legislatore, di fronte a casi come quello in esame, dovrebbe riflettere sull’opportunità di mitigare il trattamento sanzionatorio del furto, notoriamente caratterizzato da particolare rigore, come anche di rinunciare alla procedibilità d’ufficio nelle ipotesi di furto aggravato (la riforma del regime di procedibilità di alcuni delitti contro il patrimonio, che sembrerebbe essere alle porte in attuazione della legge Orlando, non riguarda il furto).

In attesa del legislatore, tanto più nell’attuale stagione politica, che si annuncia per nulla incline a smussare le rigidità del sistema, non resta che affidarsi al buon senso di chi, bene o male, è chiamato ad applicare le norme vigenti.

 


[1] F. Antolisei, Manuale di diritto penale. Parte speciale, I, 14 ed., Giuffrè, 2002, p. 271.

[2] V. Manzini, Trattato di diritto penale italiano, vol. 9, I, UTET, 1938, p. 25.

[3] Così V. Manzini, op. loc. cit.

[4] A tal proposito la sentenza annotata precisa, opportunamente, che la nozione di comportamento abituale, agli effetti dell’art. 131 bis c.p., “non può essere assimilata a quella della recidiva”. Le pregresse condanne (per reati diversi) riportate dall’imputato, nel caso di specie, non sono state di ostacolo al riconoscimento della causa di non punibilità.