ISSN 2039-1676


25 giugno 2018 |

Sui meccanismi di composizione dei contrasti tra diritto interno e diritto dell'UE: nuovo fermento nella giurisprudenza (per ora extrapenale) a seguito di Corte cost. n. 269/2017

Cass., Sez. lavoro, sent. 24 aprile 2018 (dep. 30 maggio 2018), n. 13678, Pres. Bronzini, Rel. Leone; Corte cost., 7 novembre 2017, n. 269, Pres. Grossi, Rel. Cartabia

Contributo pubblicato nel Fascicolo 6/2018

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1. La pronuncia che può leggersi in allegato, nonostante non coinvolga nel merito questioni di diritto penale, si segnala alla nostra attenzione per costituire un’ulteriore tappa nel dibattito sulla definizione dei meccanismi di composizione dei contrasti tra diritto interno e diritto dell’Unione europea; dibattito rinfocolato recentemente dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 269/2017. A seguito di tale pronuncia si è infatti ravvivato un nuovo fermento su queste tematiche nella giurisprudenza di legittimità che, crediamo, potrà coinvolgere in futuro anche i giudici penali.

Anche i penalisti ‘non iniziati’ hanno oramai acquisito una certa confidenza con le principali questioni di metodo rilevanti in materia, avendo chiaro l’insegnamento costante della Consulta secondo cui, ove la legge interna collida con una norma dell’Unione europea, il giudice, fallita qualsiasi ricomposizione del contrasto su base interpretativa, applica direttamente la disposizione dell’Unione dotata di effetti diretti.

La sentenza n. 269/2017 della Corte costituzionale, con un ormai famoso obiter, ha fatto tuttavia un passo in avanti, indicando ai giudici comuni la via da seguire nel particolare caso in cui il sospetto conflitto riguardi una disposizione nazionale e, allo stesso tempo, i diritti e principi sanciti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea (c.d. Carta di Nizza) e dalla nostra Costituzione. In queste ipotesi di “doppio contrasto”, la Corte ha sancito che, anche qualora la disposizione europea sia dotata di effetti diretti, deve sempre essere sollevata questione di legittimità costituzionale, dando così priorità al proprio giudizio erga omnes condotto «alla luce dei parametri interni (ex artt. 11 e 117 Cost.) ed eventualmente di quelli europei, secondo l’ordine di volta in volta appropriato».

Dal canto suo la Cassazione (Sez. lavoro), nella pronuncia oggetto della nostra attenzione, – decidendo una questione che coinvolgeva il sospetto conflitto di una norma interna con l’art. 21 (Non discriminazione) della predetta Carta – ha colto l’occasione “per dire la sua”, fornendo la propria lettura della sentenza n. 269/2017. I giudici di legittimità infatti pur trovandosi dinnanzi, ci pare, ad un caso parzialmente diverso – non un’ipotesi di “doppia pregiudizialità”, ma il sospetto contrasto tra una norma interna e il solo art. 21 della Carta di Nizza – si sono posti in dialogo con la sentenza n. 269/2017 chiedendosi se la via ivi delineata potesse trovare applicazione anche nel caso sottoposto al loro vaglio. Si tratta dunque di due decisioni di grande interesse, che si stagliano nel più vasto ambito della relazione tra le fonti e del dialogo tra le Corti, e che – ci sembra – delineano più precisamente la trama dei rapporti tra il diritto dell’Unione e quello nazionale, nel nuovo quadro venutosi a creare in seguito all’adozione del Trattato di Lisbona.

 

2. Al fine di meglio chiarire i termini della questione, conviene prendere le mosse proprio dalla sentenza n .269 del 2017 della Corte costituzionale.

Tale decisione – che pure non riguarda questioni di diritto penale – origina da due ordinanze della Commissione provinciale tributaria di Roma aventi ad oggetto la normativa (art. 10, co. 7 ter e 7 quater l. n. 287/1990) che prevede un contributo obbligatorio a favore della Autorità garante della concorrenza e del mercato (AGCM) da parte degli imprenditori con fatturato superiore ai cinquanta milioni di euro, con un limite massimo per tale contributo pari a cento volte la misura minima. A detta dei giudici rimettenti la disposizione impugnata violerebbe gli artt. 3 e 53, co. 1 e 2 Cost., in relazione ai principi di uguaglianza e capacità contributiva.

 

3. Nella prima delle due ordinanze il giudice a quo ha ritenuto di invertire l’esame delle questioni proposte dal ricorrente – che in principalità aveva chiesto di non applicare le norme impositive del contributo per contrasto con la normativa comunitaria (artt. 49, Diritto di stabilimento e 56, Libertà di prestazione dei servizi TFUE) in materia – stimando «più aderente al sistema giuridico complessivo» scrutinare prima la conformità della disciplina al diritto interno e la sua aderenza ai principi costituzionali. Nella seconda ordinanza, in senso contrario, il giudice rimettente ha viceversa ritenuto necessario delibare preliminarmente la richiesta delle parti di non applicare le disposizioni oggetto di censura per supposto contrasto con la libertà di stabilimento (art. 49 TFUE) e con la libertà di prestazione di servizi (art. 56 TFUE), ricordando come la Corte costituzionale abbia più volte avuto occasione di affermare che il contrasto con il diritto dell’Unione europea, «attendendo all’operatività della norma oggetto degli incidenti di costituzionalità, investe la rilevanza delle questioni, onde di esso ogni giudice, nel sollevarle, deve farsi carico (..) a pena di inammissibilità delle questioni medesime».

Questo diverso antinomico approccio dei giudici a quo nel “maneggiare” il diritto dell’Unione ha offerto alla Corte costituzionale l’occasione per precisare quali siano «i limiti entro i quali la previa valutazione del contrasto con il diritto dell’Unione europea debba ritenersi imposta al giudice a quo a pena di inammissibilità delle questioni sollevate». Per meglio dire, la sentenza n. 269/2017 diventa l’occasione per ricapitolare quanto andato consolidandosi sin ora nella giurisprudenza della Consulta in materia di meccanismi di composizione dei contrasti tra diritto interno e diritto dell’Unione europea e per indicare ai giudici comuni – è questo il punto di novità – quale sia la procedura da seguire nell’ipotesi in cui la questione sottoposta alla loro attenzione coinvolga, oltre ai principi sanciti dalla nostra Costituzione, anche quelli enunciati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione (c.d. Carta di Nizza).

 

4. La Corte esordisce ribadendo quanto sinora costantemente affermato per i casi in cui il giudice nazionale si trovi a dover far applicazione di una norma interna di cui si sospetta l’incompatibilità con il diritto dell’Unione europea.

a) Qualora si tratti di “disposizione europea” direttamente efficace – conformemente ai principi affermati dalle celebri sentenze Simmenthal[1] e Granital[2] – «spetta al giudice nazionale comune valutare la compatibilità comunitaria della normativa interna censurata, utilizzando, se del caso, il rinvio pregiudiziale della Corte di giustizia, e nell’ipotesi di contrasto provvedere egli stesso all’applicazione della norma comunitaria in luogo della norma nazionale». In questo caso dunque, «ove la legge interna collida con una norma dell’Unione europea, il giudice – fallita qualsiasi ricomposizione del contrasto su base interpretativa, o se del caso, attraverso il rinvio pregiudiziale – applica direttamente la disposizione dell’Unione europea dotata di effetti diretti».

b) Al contrario, nel caso di contrasto con una norma priva di efficacia diretta, nell’impossibilità di risolvere tale antinomia in via interpretativa, il giudice comune deve sollevare questione di legittimità costituzionale, spettando poi alla Corte la decisione sul se annullare la disposizione interna in contrasto con il diritto dell’Unione europea. In altre parole, il giudice a quo non deve delibare preventivamente i profili di incompatibilità con il diritto dell’Unione, toccando alla Corte costituzionale anche questa valutazione.

c) Fin qui niente di nuovo, ma al quadro delineato la Corte aggiunge ora – spingendosi oltre il petitum del giudice rimettente – un importante tassello, specificando quale debba essere la via che il giudice comune deve seguire, nel caso in cui la norma interna sia sospettata di incompatibilità tanto con riferimento ai principi affermati dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, quanto con riguardo a quelli della Costituzione. Questa precisazione s’impone, si legge, alla luce delle trasformazioni che hanno riguardato il diritto dell’Unione e il sistema dei rapporti con gli ordinamenti nazionali dopo l’entrata in vigore del Trattato di Lisbona che, tra l’altro, ha attribuito effetti giuridici vincolanti alla Carta di Nizza equiparandola ai Trattati (art. 6, paragrafo 1, Trattato sull’Unione europea). Se seguissimo lo schema appena delineato nei punti a) e b), ne discenderebbe che il giudice nazionale dovrebbe disapplicare la norma interna eventualmente in contrasto con le disposizioni self-executing della Carta, ovvero, in caso di disposizione non direttamente applicabile, sollevare questione di legittimità costituzionale per violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, Cost. La Corte si allontana tuttavia da questa impostazione e decide di seguire una strada diversa[3].

La ragione di questa diversità di percorso risiede nel fatto che, a parere dei giudici costituzionali, la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea costituisce parte del diritto dell’Unione ed è «dotata di caratteri peculiari in ragione del suo contenuto di impronta tipicamente costituzionale». In altre parole, i principi e i diritti enunciati nella Carta si sovrappongono a quelli garantiti dalla Costituzione, tanto che non è certo difficile pensare all’ipotesi in cui la violazione di un diritto della persona infranga, allo stesso tempo, sia le garanzie presidiate dalla Costituzione italiana, sia quelle codificate dalla Carta dei diritti dell’Unione. In questi casi di “doppio contrasto”, ovvero quando la questione coinvolge il sospetto conflitto tra una norma interna e i diritti affermati dalla Carta di Nizza oltre che dalla Costituzione, si ritiene che vada data priorità al giudizio erga omnes della Corte costituzionale, «la quale giudicherà alla luce dei parametri interni (ex artt. 11 e 117 co. 1 Cost.) ed eventualmente di quelli europei, secondo l’ordine di volta in volta appropriato». E ciò, si precisa, «anche in virtù del principio che situa il sindacato accentrato di costituzionalità delle leggi a fondamento dell’architettura costituzionale (art. 134 Cost.)» e «al fine di assicurare che i diritti garantiti dalla citata Carta dei diritti siano interpretati in armonia con le tradizioni costituzionali».

 

5. D’altra parte, secondo i giudici costituzionali, è stata la stessa Corte di giustizia europea a stabilire che – in controversie che sollevano questioni di c.d. “doppia pregiudizialità”, in cui emergono cioè profili di incompatibilità con le norme dell’Unione e di illegittimità costituzionale – il “diritto europeo” non osta «al carattere prioritario del giudizio di costituzionalità di competenza delle Corti costituzionali nazionali, purché i giudici ordinari restino liberi di sottoporre alla Corte di giustizia, «in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria; di adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione; di disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione»[4]. Alla luce di tutte queste considerazioni, la Corte conclude affermando il principio secondo cui, nel caso in cui una legge interna sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, e ci si situi nell’ambito di rilevanza comunitaria, deve essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE.

 

6. In conclusione e tornando al caso concreto, la Corte costituzionale sottolinea come la Commissione tributaria rimettente, nella prima delle due ordinanze, non avesse dedotto la violazione di disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, ma di due articoli dei Trattati: gli artt. 49 e 56 TFUE. Si tratta dunque di norme di diretta efficacia che – secondo i principi sopraesposti – obbligavano il giudice a quo a fare lui, per primo, la valutazione di compatibilità della disposizione interna censurata rispetto al diritto dell’Unione scelto come parametro. Mancando questo vaglio, la questione sollevata dalla prima ordinanza viene di conseguenza dichiarata inammissibile. Tale ragione di inammissibilità non sussiste invece per la seconda ordinanza, nella quale il giudice a quo ha invece ritenuto «necessario delibare preliminarmente la richiesta delle parti di non applicare le disposizioni oggetto di censura per supposto contrasto con la libertà di stabilimento (art. 49 TFUE) e con la libertà di prestazione di servizi (art. 56 TFUE)». Ciò permette alla Corte di proseguire nella valutazione del merito della questione che si concluderà tuttavia con un giudizio di non fondatezza.

 

7. Dato conto di quanto affermato dalla sentenza n. 269/2017, torniamo alla pronuncia della Cassazione dalla quale abbiamo preso le mosse.

La decisione riguarda una controversia lavorativa nella quale un pilota d’aereo che svolgeva un’attività “classificata”, ovvero attività di copertura dei servizi segreti, lamentava di essere stato licenziato illegittimamente al compimento del sessantesimo anno d’età. Il datore di lavoro, da parte sua, resisteva in giudizio adducendo la regolarità del licenziamento in virtù di una normativa specifica – riservata a tale tipo di funzione – che stabilisce, per quei particolari piloti d’aereo, la cessazione automatica del rapporto di lavoro al raggiungimento di suddetto limite di età (Dpcm 9 settembre 2008). A sostegno della sua doglianza il ricorrente denunciava, tra l’altro, la violazione del Regolamento UE n. 1178/2011 che stabilisce che «solo con il raggiungimento del sessantacinquesimo anno di età il titolare di una licenza di pilotaggio non può operare come pilota di aereo commerciale». La S.C. è stata allora chiamata a valutare se la disposizione del richiamato Regolamento, espressamente riferita alle ipotesi di trasporto aereo commerciale, possa assumersi a regola generale applicabile anche ai piloti che svolgono attività c.d. “classificata”. In subordine, nel caso in cui, invece, il Regolamento non dovesse essere ritenuto applicabile ratione materie alla fattispecie in esame, la Corte di Cassazione s’interroga sulla possibilità che la normativa nazionale possa porsi in contrasto con la Direttiva n. 78/2000 (“Quadro generale per la parità di trattamento in materia di occupazione e di condizioni di lavoro”) e con l’art. 21 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea che, al paragrafo 1, vieta qualsiasi forma di discriminazione fondata, tra le altre cose, sull’età.

I giudici di legittimità, trovandosi a dover applicare una norma interna sospettata di contrasto – tra l’altro – con una norma della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, si pongono in dialogo con la pronuncia della Consulta, affermando, tuttavia, di non aver l’obbligo di attenersi alla sentenza n. 269/2017, poiché «le sue affermazioni sono espresse in un "obiter" non vincolante per il Giudice comune, essendo contenute in una decisione di inammissibilità per un profilo e di rigetto per il resto». Si sottolinea inoltre come in ogni caso la Corte costituzionale – anche nelle ipotesi in cui una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta di Nizza – abbia fatto salvo il potere del giudice ordinario di disporre rinvio pregiudiziale ai sensi dell'art. 267 del TFUE. A detta dei giudici di legittimità, dunque, il dialogo, senza intermediari, con la Corte di Giustizia risulta essere, nella presente ipotesi, «lo strumento più diretto ed efficace per accertare la compatibilità del diritto interno con le disposizioni dell'Unione ed i principi posti a tutela dei diritti fondamentali, stante la chiara prevalenza degli aspetti concernenti il contestato rispetto del diritto dell'Unione sui profili nazionali». È questo, tuttavia, come abbiamo già sottolineato, un caso diverso rispetto a quello oggetto della sentenza n. 269/2017, poiché qui si profila la violazione del solo diritto dell’Unione, e non un’ipotesi di “doppia pregiudizialità”.

 

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8. Difficile azzardare in questo breve contributo un commento che sappia cogliere tutte le potenziali implicazioni, sul complesso scenario dei rapporti tra le fonti, di quanto affermato dalla Consulta e dalla Corte di cassazione. Una cosa ci sembra tuttavia chiara anche ad una primissima lettura: nella sentenza n. 269/2017 la Corte costituzionale sembra voler persuadere i giudici comuni che, quando le questioni coinvolgono i diritti della persona tutelati sia dalla Costituzione che dalla Carta di Nizza, anche se le disposizioni di quest’ultima sono direttamente applicabili, meglio si fa a voler dare priorità al giudizio erga omnes della Corte costituzionale. E ciò, ci sembra, per una ragione di maggior effettività di tale scrutinio accentrato, che fa in modo che la norma interna eventualmente giudicata non conforme venga espunta dall’ordinamento.

 

9. Diversi sono tuttavia i quesiti che affiorano dalla lettura della pronuncia n. 269/2017. Ad un primo interrogativo sembra dare risposta la sentenza di legittimità oggetto della nostra attenzione. Leggendo la decisione della Corte costituzionale viene da chiedersi, infatti, se il “meccanismo” di composizione dei conflitti delineato dalla Consulta possa operare anche nel caso in cui un contrasto coinvolga la norma interna e le sole disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea: in altre parole, ci si domanda se in presenza di profili di sospetta incompatibilità con le sole disposizioni della Carta di Nizza, il giudice comune sia tenuto a dar priorità, anche in questo caso, ad un vaglio preliminare della Consulta. A tale quesito la Corte di cassazione sembra rispondere negativamente. In un caso come quello in oggetto, dove viene in rilevo il contrasto tra una norma interna e le sole disposizioni della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, i giudici di legittimità ritengono di dover dialogare direttamente con la Corte di giustizia, sollevando il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE. E ciò, ci pare, ragionevolmente. Sia perché – a detta della sent. n. 269/2017 – tale opzione è riservata in ogni caso al giudice comune, sia perché sarebbe difficile sostenere la necessità del vaglio accentrato costituzionale, anche in caso di sospetto contrasto tra una disposizione interna e le sole norme europee, alla luce, ci sembra, dell’impossibilità per la Consulta di rivendicare la priorità del suo giudizio anche in questo ambito.

Ma la decisione in esame non è la prima che si pone in dialogo con la sent. n. 269/2017. Sempre la Cassazione ha già avuto modo di reagire alle indicazioni ivi contenute, sottoponendo alla Corte costituzionale, in una complessa ordinanza di rimessione riguardante l’art. 187 quinquiesdecies T.U.F.[5], un ulteriore quesito. Si sono chiesti i giudici di legittimità quali poteri residuino in capo al giudice nazionale nel caso in cui la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale, per violazione dei diritti affermati dalla Carta di Nizza e dalla Costituzione, superi il vaglio della Corte. Nella pronuncia n. 269/2017 vengono ribadite alcune affermazioni della Corte di giustizia[6] secondo cui i giudici nazionali sono sempre liberi «di disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione». Proprio circa la corretta interpretazione della locuzione “per altri profili”, la Cassazione ha rivolto alla Corte costituzionale l’invito a precisare se il potere del giudice comune di disapplicare una norma interna che abbia superato il vaglio di legittimità costituzionale (anche sotto il profilo della conformità alla Carta di Nizza) sia limitato a profili diversi da quelli esaminati dalla Corte Costituzionale o, al contrario, si estenda anche al caso in cui, secondo il giudice comune, la norma interna contrasti con la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in relazione ai medesimi profili che la Corte Costituzionale abbia già esaminato[7].

Quello della sentenza n. 269/2017 è dunque un primo affondo nei confronti di una tematica complessa sulla quale, non dubitiamo, la Corte costituzionale e i giudici comuni avranno presto occasione di tornare, anche – eventualmente – in materia penale.

 

 


[1] Corte giust. UE, 9 marzo 1978, C-106/77, Simmenthal.

[2] Corte cost., sent. 5 giugno 1984, n. 170.

[3] Cfr. C. Chiariello, Il valore costituzionale della Carta di Nizza: un problema ancora aperto anche alla luce della sentenza n. 269/2017 della Corte costituzionale, in www.giurcost.org, 2018, fasc. II.

[4] Si richiama il testo di Corte giust. UE, sez. V, 11 settembre 2014, C-112/13, A c. B e Altri. Nesso stesso senso Corte giust. UE, grande sezione, 22 giugno 2010, C-188/10, Melki e C-189/10, Abdeli.

[5] Cfr. Cass. Civ., Sez. II, 13 aprile 2017 (dep. 16 febbraio 2018), ord. n. 3831, Pres. Petitti, Rel. Cosentino, Bolognesi c. Consob.

[6] Cfr. supra nota n. 4.

[7] Cfr. G.L. Gatta, “Nemo tenetur se detegere” e procedimento amministrativo davanti alla Consob per l’accertamento dell’abuso di informazioni privilegiate: la Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 187 quinquiesdecies T.U.F., in questa Rivista, 27 aprile 2018.