ISSN 2039-1676


27 aprile 2018 |

"Nemo tenetur se detegere" e procedimento amministrativo davanti alla CONSOB per l’accertamento dell’abuso di informazioni privilegiate: la Cassazione solleva questione di legittimità costituzionale dell’art. 187 quinquiesdecies T.U.F.

Cass. Civ., Sez. II, ud. 13.4.2017 (dep. 16.2.2018), ord. n. 3831, Pres. Petitti, Rel. Cosentino, Bolognesi c. Consob

Contributo pubblicato nel Fascicolo 4/2018

1.  Con l’ordinanza che può leggersi in allegato, la Corte di Cassazione, Sez. II Civile, ha sollevato un’interessante questione di legittimità costituzionale, che pone il problema dell’estensione della garanzia accordata dal principio “nemo tenetur se detegere” al procedimento amministrativo davanti a una pubblica autorità di vigilanza, quando questo sia volto ad accertare la commissione di fatti che, in virtù di un doppio binario sanzionatorio previsto dall’ordinamento, integrano tanto un illecito amministrativo quanto un reato.  

A venire in rilievo, nel caso di specie, è il procedimento davanti alla CONSOB per l’accertamento di un abuso di informazioni privilegiate ex art. 187 bis d.lgs. n. 58/1998 (T.U.F.). Accertato l’illecito amministrativo, la CONSOB ha inflitto le conseguenti sanzioni e ha ravvisato altresì l’illecito amministrativo di cui all’art. 187 quinquiesdecies T.U.F., che sanziona – quando il fatto non integra il delitto di ostacolo all’esercizio delle funzioni delle autorità pubbliche di vigilanza ex art. 2638 c.c. – il fatto di “chiunque non ottempera nei termini alle richieste della Banca d’Italia e della CONSOB ovvero ritarda l’esercizio delle sue funzioni”.

Nel caso di specie, la CONSOB contestava al ricorrente un ingiustificato ritardo di cinque mesi nel presentarsi davanti all’Autorità, per la richiesta audizione, durante la quale non aveva peraltro rilasciato dichiarazioni. Avverso la delibera della CONSOB – che applicava per tale ultimo illecito amministrativo la sanzione amministrativa pecuniaria di € 50.000 – il ricorrente presentava dapprima ricorso davanti alla Corte d’Appello di Roma, che nel rigettare l’opposizione sottolineava come la sanzione fosse stata irrogata per il solo fatto dell’ingiustificato ritardo nella presentazione agli uffici della CONSOB, giudicando irrilevante l’ulteriore circostanza, pure menzionata nella contestazione della CONSOB, del silenzio serbato in audizione.

Avverso la sentenza della Corte d’Appello di Roma veniva proposto ricorso per cassazione eccependo, tra l’altro, l’illegittimità costituzionale dell’art. 187 quinquiesdecies T.U.F., per contrasto con gli artt. 3, 24, 111 e 117 Cost., in relazione all’art. 6 Cedu, nella parte in cui commina una rilevante sanzione amministrativa (da 10.000 a 200.000 Euro) per il soggetto sottoposto ad indagini da parte della CONSOB che ritardi o rifiuti di fornire risposte suscettibili di utilizzazione in sede penale e comunque in sede di applicazione di gravi sanzioni amministrative.

Secondo il ricorrente, in particolare, la sanzione inflitta per l’illecito amministrativo di cui all’art. 187 quiquiesdecies T.U.F. è incompatibile con il principio “nemo tenetur se detegere”, anche in considerazione del fatto che le dichiarazioni rese nell’ambito dell’audizione davanti all’Autorità stessa devono essere trasmesse al Pubblico Ministero qualora vengano ravvisati gli estremi di una condotta penalmente rilevante (art. 187 decies, comma 2 T.U.F.).

 

2.  La Corte di Cassazione ha da un lato ritenuto rilevante la questione di legittimità costituzionale sollevata dal ricorrente in relazione agli artt. 24, 111 e 117 Cost., con riferimento all’art. 6 Cedu, e, dall’altro lato, ha rilevato d’ufficio la questione in relazione ad ulteriori parametri, ravvisando un contrasto altresì con gli artt. 117 Cost., in riferimento all’art. 14, comma 3, lett. g) del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966 e in relazione agli artt. 11 e 117 Cost., con riferimento all’art. 47 CDFUE. Viene così chiesto alla Corte Costituzionale di vagliare la parziale illegittimità costituzionale dell’art. 187 quinquiesdecies T.U.F., “nella parte in cui sanziona la condotta consistente nel non ottemperare tempestivamente alle richieste della CONSOB o nel ritardare l’esercizio delle sue funzioni anche – questo è il punto – “nei confronti di colui al quale la medesima CONSOB, nell’esercizio delle sue funzioni di vigilanza, contesti un abuso di informazioni privilegiate”.

Prima di considerare i diversi parametri invocati dalla Corte di Cassazione a sostegno della non manifesta infondatezza della questione, va sottolineato come i giudici di legittimità, in punto di motivazione sulla rilevanza della questione, diano conto:

a) della irrilevanza dello ius superveniens, con riferimento ad alcune modifiche alla disciplina dell’art. 187 quinquiesdecies T.U.F. intervenute dopo la commissione del fatto (con la l. n. 221/2012 e con il d.lgs. n. 129/2017), atteso che dette modifiche hanno riguardato l’estensione della disposizione nei confronti della Banca d’Italia, nonché il trattamento sanzionatorio;

b) dell’impossibilità di seguire la via dell’interpretazione conforme a Costituzione: “la potenza semantica del pronome indefinito ‘chiunque’ non consente di pervenire ad una interpretazione (orientata in senso conforme alla Costituzione, alla CEDU ed alla CDFUE) che escluda dall’ambito applicativo di detta disposizione il soggetto che ostacoli le funzioni di vigilanza esercitate dalla CONSOB (rendendosi inottemperante alle richieste di quest’ultima, o ritardando in altro modo il relativo esercizio) in relazione a condotte di abuso di informazioni privilegiate a lui stesso ascritte”. Detto altrimenti, potendo l’autore dell’illecito essere ‘chiunque’, tra i soggetti attivi rientra anche la persona sottoposta ad accertamenti da parte della CONSOB in quanto sospettata di avere commesso un abuso di informazioni privilegiate, che nell’ambito del T.U.F. è configurato sia come illecito amministrativo (art. 187 bis) sia come reato (art. 184).

 

3. La non manifesta infondatezza della questione viene argomentata dall’ordinanza annotata con un’apprezzabile sforzo argomentativo, chiamando in causa principi e fonti tanto nazionali quanto sovranazionali.

Sotto il primo profilo viene in rilievo la prospettata violazione degli artt. 24 e 111 Cost.

3.1. Diritto di difesa (art. 24 Cost). La Cassazione sottolinea come l’illecito ex art. 187 quinquiesdecies T.U.F. (inserito dalla l. n. 62/2005) sanziona l’inottemperanza all’obbligo di cooperare con la CONSOB all’esercizio delle proprie funzioni di vigilanza e ricorda – richiamando la giurisprudenza costituzionale (Corte cost. n. 291/2002 e n. 361/1998) – che “il diritto di non collaborare alla propria incolpazione deve ritenersi un corollario del diritto di difesa”.

La S.C. si preoccupa quindi di superare una possibile obiezione, ravvisabile nella circostanza che l’art. 24, comma 2 Cost. riconosce l’inviolabilità del diritto di difesa “in ogni stato e grado del procedimento”, cioè in sede giurisdizionale. Nondimeno, secondo la S.C., l’attività della CONSOB, pur avendo natura amministrativa e non giurisdizionale, “deve ritenersi coperta dalla previsione dell’art. 24 Cost.”. Due sono le ragioni addotte in tal senso: una fa leva sul possibile pregiudizio che la collaborazione con la CONSOB può recare all’interessato, in un possibile parallelo procedimento penale; l’altra si fonda invece sulla ritenuta natura sostanzialmente penale, alla luce dei criteri Engel, delle sanzioni per l’illecito di insider trading ex art. 187 bis T.U.F.   

3.1.1. Anzitutto, come si è già sottolineato, l’accertamento da parte di CONSOB delle violazioni amministrative connesse all’abuso di informazioni privilegiate “è potenzialmente prodromico all’instaurazione di un procedimento penale per il delitto di cui all’art. 184 T.U.F.”, gravando sulla stessa Autorità, ex art. 187 decies, comma 2 T.U.F., l’obbligo di trasmissione alla Procura della Repubblica della documentazione raccolta nello svolgimento dell’attività di accertamento, nel caso in cui emergano elementi che facciano presumere la esistenza di un reato. Osserviamo in proposito che, considerata la pressoché completa sovrapponibilità delle fattispecie legali dell’insider trading-illecito amministrativo e dell’insider trading-reato, ne consegue che la prospettiva di una segnalazione alla Procura della Repubblica, all’esito dell’accertamento amministrativo, può dirsi fisiologica ogni qual volta ricorrano gli estremi dell’illecito; sicché, a ben vedere, il procedimento davanti alla CONSOB rappresenta l’anticamera di un possibile procedimento penale (ancor più a fronte della procedibilità d’ufficio per il reato di cui all’art. 184 T.U.F., in un sistema, come il nostro, in cui vige il principio dell’obbligatorietà dell’azione penale e l’omessa denuncia di reato da parte del pubblico ufficiale è penalmente sanzionata ex art. 361 c.p.).

Ricorrendo alla tecnica del distinguishing, la Corte di Cassazione sottolinea d’altra parte come sarebbe inconferente richiamare, in senso contrario all’operatività della garanzia dell’art. 24 Cost., la sentenza n. 33/2002 con la quale la Corte Costituzionale, in relazione al procedimento tributario, ha escluso che comporti una violazione del diritto di difesa la disposizione (art. 51, comma 2, n. 2 d.P.R. n. 633/1972) che consente agli uffici dell’IVA di procedere ad accertamenti fiscali anche attraverso la convocazione e l’audizione dei contribuenti. In quella diversa sede il contribuente si trova di fronte all’alternativa tra l’avvalersi del diritto al silenzio di cui usufruisce in sede penale e il fornire elementi che potrebbero giovargli in sede tributaria, ma nuocergli in quella penale e la scelta di ricorrere o meno al silenzio in sede di accertamento fiscale, secondo la Corte Costituzionale, si risolverebbe in una strategia difensiva, ferme restando le garanzie previste per l’eventuale procedimento penale. Diversamente, nel caso dell’accertamento davanti alla CONSOB, per l’illecito di insider trading, l‘alternativa è tra fornire alla CONSOB elementi che potrebbero pregiudicare il dichiarante in sede penale (in caso di avvio del relativo procedimento) o il rendersi responsabile dell’illecito di cui all’art. 187 quinquiesdecies, che punisce la mancata cooperazione con l’Autorità amministrativa stessa. Osserviamo tuttavia, a tal proposito, che, come si legge nella citata sentenza della Corte Costituzionale, anche in sede tributaria sono previste sanzioni amministrative (di ben più modesto importo: da 250 a 2000 Euro) per la “inottemperanza all'invito a comparire e a qualsiasi altra richiesta fatta dagli uffici o dalla Guardia di finanza nell'esercizio dei poteri loro conferiti” (art. 11, comma 1, lett. c) D.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471). Senonché, secondo la Corte Costituzionale, “la sanzione amministrativa pecuniaria collegata, in sede tributaria, alla inottemperanza all'invito a comparire per esibire documenti o per fornire dati, notizie e chiarimenti rilevanti ai fini dell'accertamento, e ad altre richieste degli uffici (art. 11, comma 1, lettera c del d.lgs. 18 dicembre 1997, n. 471) attiene esclusivamente agli obblighi che gravano sul contribuente nell'ambito del procedimento tributario, e non può trovare applicazione per il solo fatto che il contribuente abbia omesso di fornire giustificazioni delle operazioni risultanti dalla documentazione bancaria, suscettibili in ipotesi di contrastare la presunzione di imponibilità delle operazioni medesime” (era quest’ultimo il profilo rilevante nel giudizio a quo).

3.1.2. Per altro verso, come anticipato, la Cassazione ritiene che le sanzioni per l’insider trading ex art. 187 bis T.U.F. (patrimoniali, inclusa la confisca, e interdittive) abbiano natura sostanzialmente penale sulla base dei noti criteri Engel elaborati dalla giurisprudenza della Corte EDU (analogamente alle sanzioni per le manipolazioni del mercato, ex art. 187 ter T.U.F., la cui natura sostanzialmente penale è stata riconosciuta dalla Corte EDU con la sentenza Grande Stevens): ne conseguirebbe pertanto, l’applicabilità dell’art. 24, comma 2 Cost., la cui garanzia “trova piena corrispondenza nel complesso delle analitiche previsioni contenute nel terzo comma dell’art. 6 Cedu”.

3.2. Sotto il profilo della garanzia del giusto processo (art. 111 Cost.), dopo avere sottolineato come al procedimento amministrativo sia connessa una fase giurisdizionale, nel caso di impugnativa, la Cassazione ravvisa un contrasto con il principio della parità delle parti, rispetto al quale sembra incompatibile il dovere di collaborare con la CONSOB.

3.3. Analoghe considerazioni, secondo la Cassazione, possono d’altra parte svolgersi nella prospettiva del diritto convenzionale all’equo processo (art. 6 CEDU), rilevante rispetto all’art. 117 Cost. La S.C. richiama a tal proposito alcune decisioni della Corte EDU che affermano il diritto a non contribuire alla propria incriminazione. Il riferimento espresso è in particolare al § 52 di Chambaz c. Svizzera (5 aprile 2012) – decisione in materia tributaria – nel quale si legge quanto segue: “La Cour rappelle que même si l’article 6 de la Convention ne les mentionne pas expressément, le droit de garder le silence et le droit de ne pas contribuer à sa propre incrimination sont des normes internationales généralement reconnues qui sont au cœur de la notion de procès équitable consacrée par l’article 6 § 1. En particulier, le droit de ne pas contribuer à sa propre incrimination présuppose que les autorités cherchent à fonder leur argumentation sans recourir à des éléments de preuve obtenus par la contrainte ou les pressions, au mépris de la volonté de l’« accusé » (voir Funke précité ; John Murray c. Royaume-Uni, 8 février 1996, § 45,Recueil 1996-I ; Saunders c. Royaume-Uni, 17 décembre 1996, §§ 68-69, Recueil 1996-VI ; Serves c. France, 20 octobre 1997, § 46, Recueil 1997-VI ; J.B. c. Suisse, précité, § 64)”.

3.4. D’altra parte, osserva sempre la Cassazione, un ulteriore possibile profilo di contrasto con l’art. 117 Cost. sarebbe ravvisabile in relazione all’art. 14, comma 3, lett. g) del Patto internazionale sui diritti civili e politici adottato a New York il 16 dicembre 1966, che pure afferma il principio nemo tenetur se detegere riconoscendo che ogni individuo accusato di un reato ha il diritto a non essere costretto a deporre contro se stesso o a confessarsi colpevole”. Nel caso di specie, afferma la Corte, sarebbe possibile un’estensione analogica della disposizione pattizia (non è chiaro se sulla scorta della natura sostanzialmente penale dell’accusa di abuso di informazioni privilegiate da parte della CONSOB, ovvero per via del carattere potenzialmente prodromico a un procedimento penale, proprio del diverso procedimento davanti alla CONSOB).

3.5. Last but not least, la Cassazione, dopo aver ricordato come la disciplina in materia sia stata introdotta, nel 2005, in attuazione di obblighi comunitari (e che, pertanto, si verte in materia che rientra nel campo d’applicazione del diritto UE), prospetta il contrasto con gli artt. 11 e 117 Cost. in relazione all’art. 47 CDFUE (“Diritto a un ricorso effettivo e a un giudice imparziale”). Secondo la S.C., in particolare, il secondo comma di tale disposizione sarebbe sovrapponibile al primo comma dell’art. 6 CEDU e riconoscerebbe il diritto a non autoincriminarsi; con la conseguenza che, ai sensi dell’art. 52, comma 3 CDFUE, occorrerebbe inoltre fare riferimento alla richiamata giurisprudenza della Corte EDU (nonché a quella sulla nozione di ‘materia penale’) anche in rapporto al “nemo tenetur se detegere” comunitario.

La dimensione comunitaria della questione viene d’altra parte ulteriormente sviluppata dall’ordinanza in esame sottolineando come l’anzidetto principio (il “nemo tenetur se detegere” comunitario) – affermato da una disposizione immediatamente attributiva di un diritto e che pertanto avrebbe per la S.C. efficacia diretta – risulti difficilmente compatibile con le disposizioni, pure presenti nel diritto UE e attuate dal legislatore italiano nel 2005, introducendo l’art. 187 quinquiesdecies T.U.F., che fanno obbligo agli stati membri di dotare le autorità di vigilanza, nel settore del market abuse, di strumenti e poteri idonei a garantire l’efficacia della loro azione. Il riferimento è, in particolare, all’art. 14, comma 3 della Direttiva 2003/6/CE, che prevede “sanzioni da applicare per l’omessa collaborazione alle indagini” da parte delle autorità stesse (analoga disposizione, sottolinea la Corte, è contenuta nell’art. 30, comma 1, lett. b Regolamento sugli abusi di mercato n. 596/2014, non applicabile nel caso di specie, ratione temporis).

3.5.1. La via da seguire per accertare il contrasto dell’art. 187 quinquiesdecies T.U.F. con il diritto UE è oggetto dell’ultima parte dell’articolata motivazione dell’ordinanza della S.C., che sottolinea come, se i profili di illegittimità costituzionale fossero limitati all’illegittimità comunitaria ex art. 117 Cost., in rapporto all’art. 47 CDFUE si potrebbe e dovrebbe seguire la via dell’applicazione diretta di tale disposizione e, conseguentemente, si dovrebbe disapplicare l’art. 187 quiquiesdecies T.U.F. in relazione ai fatti commessi da persone alle quali si addebita l’abuso di informazioni privilegiate. Eventualmente, osserva la S.C., previo rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia UE, alla quale andrebbe sottoposto il quesito sulla compatibilità dell’art. 47 CDFUE con una disposizione che sanzioni la mancata collaborazione con la CONSOB da parte del soggetto al quale la CONSOB ascriva illeciti amministrativi relativi all’abuso di informazioni privilegiate.  

Senonché nel caso di specie ricorrerebbe per la S.C. “un’ipotesi di c.d. doppia pregiudizialità”, poiché l’art. 187 quiquiesdecies T.U.F. è oggetto di dubbi di legittimità costituzionale tanto in rapporto a diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a diritti garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’UE. In altri termini, si versa per la S.C. in un’ipotesi in cui davanti al giudice si presentano due strade alternative:

a) disapplicare la disposizione in contrasto con il diritto UE (previo eventuale rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia, per chiarire la portata del diritto UE e accertare la correttezza della disapplicazione del diritto interno);

b) sollevare una questione di legittimità costituzionale, in presenza di concorrenti profili di illegittimità rilevanti nella dimensione nazionale.

A tal riguardo la S.C. osserva come, prima di una recente sentenza della Corte Costituzionale (n. 269/2017), la strada indicata, nella giurisprudenza della Consulta, fosse la prima (disapplicazione). La sentenza 269 del 2017 ha invece indicato la seconda strada: “di fronte a casi di ‘doppia pregiudizialità’ – vale a dire di controversie che possono dare luogo a questioni di illegittimità costituzionale e, simultaneamente, a questioni di compatibilità con il diritto dell’Unione –, la stessa Corte di giustizia ha a sua volta affermato che il diritto dell’Unione «non osta» al carattere prioritario del giudizio di costituzionalità di competenza delle Corti costituzionali nazionali, purché i giudici ordinari restino liberi di sottoporre alla Corte di giustizia, «in qualunque fase del procedimento ritengano appropriata e finanche al termine del procedimento incidentale di controllo generale delle leggi, qualsiasi questione pregiudiziale a loro giudizio necessaria»; di «adottare qualsiasi misura necessaria per garantire la tutela giurisdizionale provvisoria dei diritti conferiti dall’ordinamento giuridico dell’Unione»; di disapplicare, al termine del giudizio incidentale di legittimità costituzionale, la disposizione legislativa nazionale in questione che abbia superato il vaglio di costituzionalità, ove, per altri profili, la ritengano contraria al diritto dell’Unione (tra le altre, Corte di Giustizia dell’Unione Europea, quinta sezione, sentenza 11 settembre 2014, nella causa C-112/13 A contro B e altri; Corte di Giustizia dell’Unione Europea, grande sezione, sentenza 22 giugno 2010, nelle cause C-188/10, Melki e C-189/10, Abdeli)”. In linea con questi orientamenti, la Corte Costituzionale ha ritenuto che “laddove una legge sia oggetto di dubbi di illegittimità tanto in riferimento ai diritti protetti dalla Costituzione italiana, quanto in relazione a quelli garantiti dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea in ambito di rilevanza comunitaria, debba essere sollevata la questione di legittimità costituzionale, fatto salvo il ricorso al rinvio pregiudiziale per le questioni di interpretazione o di invalidità del diritto dell’Unione, ai sensi dell’art. 267 del TFUE”.

Nel sollevare la questione di costituzionalità la S.C. prospetta, qualora la disposizione sospettata di illegittimità costituzionale superasse il vaglio della Corte Costituzionale, l’eventualità di attivare il rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE (ove già non attivato dalla Corte Costituzionale nel giudizio incidentale) e di “dare al diritto dell’UE un’applicazione conforme alla decisione conseguentemente adottata dalla Corte di Giustizia”. In vista di tale evenienza, la S.C. – con un quesito la cui portata va evidentemente ben oltre la questione specifica – chiede alla Corte Costituzionale di precisare se il potere del giudice comune di disapplicare una norma interna che abbia superato il vaglio di legittimità costituzionale (anche sotto il profilo della conformità alla CDFUE) sia limitato a profili diversi da quelli esaminati dalla Corte Costituzionale o, al contrario, si estenda anche al caso in cui (secondo il giudice comune o la Corte di Giustizia UE, dal medesimo adita) la norma interna contrasti con la CDFUE in relazione ai medesimi profili che la Corte Costituzionale abbia già esaminato (senza attivare essa stessa il rinvio pregiudiziale).

 

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Come è evidente, l’ordinanza della Corte di Cassazione, qui segnalata, pone alla Corte Costituzionale una questione dalle rilevanti implicazioni – i limiti entro i quali può ritenersi legittima una norma che sanzioni la mancata collaborazione con l’autorità amministrativa nell’accertamento di fatti che integrano sia illeciti amministrativi sia reati – che, in ragione del rilievo comunitario del “nemo tenetur se detegere” ai sensi dell’art. 47 CDFUE – ne trascina dietro un’altra dalle implicazioni forse ancor più rilevanti, sul piano del diritto costituzionale ed europeo, che nel post Taricco chiama ancora in causa la tematica dei rapporti e del dialogo tra le Corti, con la quale, ormai, anche il penalista ‘non iniziato’ comincia ad avere confidenza.

La nostra Rivista seguirà la vicenda e sarà pronta ad ospitare contributi di approfondimento, tanto sul versante della garanzia del privilege against self incrimination (della sua operatività nel contesto di procedimenti amministrativi, anche con riferimento al profilo, che potrebbe risultare decisivo, dei limiti alla trasmigrazione e all’utilizzabilità nel procedimento penale degli elementi acquisiti in sede amministrativa), quanto sul versante dei rapporti tra diritto interno e ordinamento comunitario.  

 

Postilla: segnaliamo ai lettori che l'ordinanza qui annotata solleva un'ulteriore questione di legittimità costituzionale, che riguarda la confisca ex art. 186 sexies T.U.F. Tale ulteriore questione sarà oggetto di un'apposita segnalazione e di un approfondimento in un contributo di prossima pubblicazione su questa Rivista [n.d.r.: clicca qui per leggere il contributo preannunciato, che è poi stato pubblicato il 2 maggio 2018].