19 luglio 2018 |
Per la Corte costituzionale non è irragionevole la previsione di un termine di prescrizione per i c.d. disastri colposi uguale a quello delle corrispondenti fattispecie dolose
Corte cost., sent. 18 aprile 2018 (dep. 30 maggio 2018), n. 112, Pres. Lattanzi, Red. Modugno; Corte cost., sent. 22 novembre 2017 (dep. 13 dicembre 2017), n. 265, Pres. Grossi, Red. Modugno
Contributo pubblicato nel Fascicolo 7-8/2018
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1. Con sentenza 112/2018 la Corte costituzionale si pronuncia positivamente, per la seconda volta in pochi mesi, sulla legittimità costituzionale della disciplina della prescrizione in materia di delitti contro la pubblica incolumità e, in particolare, dell’art. 157 co. 6 c.p., nella parte in cui stabilisce che i termini di prescrizione per i delitti colposi di danno (art. 449 c.p.) sono raddoppiati.
Entrambe le ordinanze di rimessione convergevano nel denunciare la violazione dell’art. 3 Cost. ritenendo irragionevole che, in applicazione della regola del raddoppio, le fattispecie colpose oggetto del procedimento principale ricevessero un trattamento punitivo – sul piano dei termini di prescrizione – parificato a quello delle rispettive ipotesi dolose, contrassegnate da un più intenso disvalore.
Nel dichiarare infondate le questioni, la Corte richiama e ribadisce gli approdi interpretativi cui era giunta già nella sentenza 265/2017, quando era stata investita di una questione sostanzialmente analoga, in quanto identica per norma impugnata e per parametro di legittimità, sebbene riferita a un diverso titolo di reato (comunque ricompreso nell’art. 449 c.p.) [1].
Le motivazioni delle due sentenze – a firma dello stesso redattore – risultano in larga misura sovrapponibili e presentano uno sviluppo logico affine. In questa sede, pur ancorando l’esposizione alla pronuncia più recente, si cercherà di far emergere il nucleo concettuale comune ad entrambe le decisioni: sin d’ora si segnalano in particolare, per la loro rilevanza sistematica, le riflessioni che la Corte svolge – sul presupposto esplicito della natura sostanziale della prescrizione – circa a) la ratio dell’istituto e b) i limiti che la discrezionalità del legislatore incontra nel disciplinarne la durata del termine in relazione alle diverse fattispecie.
2. Nella sentenza che si illustra la Corte costituzionale, dopo aver riunito i giudizi, esamina congiuntamente due questioni sollevate dalla Corte d’appello di L’Aquila e dalla Corte di cassazione, IV sezione penale.
In considerazione della natura della norma scrutinata, la ricostruzione in fatto della Corte si concentra sui profili cronologici delle vicende (sostanziali e processuali) dei giudizi principali.
Nel primo procedimento il Tribunale il Teramo aveva condannato due soggetti per il delitto di “frana colposa” (punito ai sensi dell’art. 449, in relazione all’art. 426), accertato come commesso il 17 febbraio 2006;
In sede di impugnazione, la Corte di L’Aquila – trovandosi a verificare l’eventuale decorso dei termini di prescrizione – osservava che l’esito di tale valutazione mutava a seconda che si facesse applicazione della disciplina generale ovvero della previsione derogatoria contenuta nell’art. 157 co. 6 c.p. Infatti:
- in base alla regola posta dall’art. 157 co. 1, i reati di cui all’art. 449, puniti nel massimo con cinque anni di reclusione, si prescriverebbero in sei anni (soglia minima per i delitti), a cui aggiungere l’aumento di un quarto per gli atti interruttivi: pertanto, al tempo in cui si celebrava il giudizio a quibus, il reato era già prescritto (l’ordinanza di rimessione è datata 21 ottobre 2015);
- dispone però l’art. 157 co. 6 che i «termini [ordinari] sono raddoppiati per i reati di cui [tra gli altri] all’art. 449»: posto che allora il tempo necessario a prescrivere può arrivare fino a quindici anni (dodici su cui poi calcolare l’aumento di un quarto ex art. 161 co. 2), il reato per cui si procede non è ancora estinto.
A questa constatazione – che nella prospettiva del giudizio incidentale vale a rendere rilevante la questione – ne segue subito un’altra, derivante dal confronto con la disciplina dei termini di prescrizione applicabile alla fattispecie di natura dolosa del delitto di frana, a cui lo stesso art. 449 c.p. rinvia prevedendone la punibilità a titolo di colpa. Il reato di cui all’art. 426 («inondazione, frana o valanga») non è richiamato dall’art. 157 co. 6 e pertanto, ai sensi dell’art. 157 co. 1, si prescrive nel tempo pari al massimo della pena edittale, che è dodici anni.
Una situazione del tutto analoga si verificava nel secondo procedimento a quo. Il Tribunale di Napoli aveva affermato la responsabilità degli imputati per il delitto di “naufragio colposo” (previsto dal medesimo art. 449, in relazione all’art. 428) cagionato ai danni di un peschereccio a seguito della collisione avvenuta con la nave cisterna di cui erano comandante e timoniere il 29 giugno 2005. Nel gennaio 2016 la Corte di Cassazione sollevava questione di legittimità costituzionale dell’art. 157 co. 6 rilevando che, in applicazione di tale norma: il reato non era ancora estinto, a differenza di quanto sarebbe accaduto in base al co. 1; il termine di prescrizione applicabile alla fattispecie coincideva con quello del naufragio doloso previsto dall’art. 428, anch’esso pari a dodici anni.
In ciascuno dei due procedimenti principali, pertanto, si ricava che la durata del termine di prescrizione del delitto colposo di danno – calcolato con il meccanismo del raddoppio – è esattamente uguale a quella del termine di prescrizione del corrispondente disastro doloso – calcolato tramite la regola generale.
Si noti che ciò si verificava anche nella vicenda alla base della sentenza n. 265/2017, con la differenza che allora veniva in considerazione, quale termine di confronto, la fattispecie di “disastro innominato” doloso di cui all’art. 434 co. 2 (anch’esso punito nel massimo con la reclusione per dodici anni).
3. I rimettenti intendevano quindi censurare l’art. 157 co. 6 in quanto la sua applicazione determinerebbe l’equiparazione nel trattamento di fattispecie disomogenee, risultato in contrasto con il canone di uguaglianza desumibile dall’art. 3 Cost.
A sostegno della non manifesta infondatezza della questione l’argomento essenziale speso nelle due ordinanze ha carattere sistematico e attiene al diverso grado di disvalore che i principi generali assegnano ai fatti di reato, pur identici sul piano oggettivo, a seconda che siano realizzati con dolo o per colpa.
Così come si manifesta nelle cornici edittali, un simile rapporto tra ipotesi più grave e ipotesi meno grave – secondo i rimettenti – dovrebbe necessariamente riflettersi anche sulla durata dei termini di prescrizione; ciò a maggior ragione se, come pacifico nell’ordinamento nazionale, la prescrizione ha natura sostanziale e contribuisce a definire il complessivo regime penale dell’illecito.
Tale tesi sarebbe corroborata da una precedente sentenza di accoglimento della stessa Corte – la n. 143/2014 (Pres. Silvestri, Red. Frigo) – relativa alla medesima norma ora impugnata: in tale occasione era stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 157 co. 6, per contrasto con l’art. 3 Cost., nella parte in cui prevede il raddoppio dei termini di prescrizione con riferimento a una diversa fattispecie di disastro colposo di danno, ossia l’incendio colposo (art. 449, in relazione all’art. 423) [2].
Se il «portato demolitorio» di quella pronuncia non può certo essere esteso anche a ipotesi diverse da quelle oggetto del giudizio di costituzionalità, ad avviso dei rimettenti dovrebbero comunque essere valorizzate le motivazioni alla base della declaratoria di illegittimità: e queste avevano evidenziato proprio l’irragionevolezza di una scelta legislativa (analoga a quella su cui la Corte viene ora sollecitata) per effetto della quale veniva alterata «la scala di gravità delle due figure criminose».
Sulla scorta di queste considerazioni, quindi, i giudici a quibus – tanto nella presente vicenda quanto in quella da cui è poi scaturita la sentenza 265/2017 – chiedevano alla Corte di intervenire nuovamente per rimuovere tale «anomalia di carattere sistematico», caducando in parte qua l’art. 157 co. 6 e restituendo i termini di prescrizione dei delitti colposi di danno alla disciplina ordinaria, fonte per questi ultimi di un trattamento più mite di quello delle corrispondenti fattispecie dolose.
4. La Corte costituzionale, come anticipato, affronta nel merito le questioni sollevate, dichiarandole infondate.
Merita puntualizzare da subito come venga condivisa la premessa circa la natura sostanziale dell’istituto della prescrizione; né, si può dire, poteva essere diversamente: la Corte si limita a dare continuità alla propria giurisprudenza consolidata e a richiamare le più significative e meditate prese di posizione sul punto, anche recenti, tra cui spicca l’ord. 24/2017 [3].
Ciò non impedisce, tuttavia, che la ratio decidendi di entrambe le pronunce del 2017 e del 2018 affondi le radici in una riflessione inerente alle funzioni della disciplina in materia di prescrizione. E infatti, escluse le vie sopra menzionate, il percorso che la Corte segue per giungere al rigetto delle questioni si compone dei seguenti passi: a) la dimostrazione della non pertinenza del richiamo alla sentenza n. 143/2014; b) l’analisi dei fini per cui, e dei margini entro i quali il legislatore può plasmare i termini prescrizionali senza varcare il perimetro della ragionevolezza.
5. Anzitutto, attraverso una netta opera di distinguishing, la Corte sgombra il campo dall’equivoco di una possibile contraddizione con il precedente citato.
La declaratoria di illegittimità parziale era stata giustificata dalla necessità di elidere gli “effetti collaterali” derivanti da una norma – appunto quella dell’art. 157 co. 6 – con cui il legislatore stesso in sede di riforma aveva cercato di attenuare il fenomeno di diffusa compressione dei termini di prescrizione conseguente all’entrata in vigore della l. 251/2006 (c.d. ex Cirielli) [4].
In tale contesto, la valutazione della Corte aveva risentito di una indubbia peculiarità, legata alla fattispecie rilevante in quel giudizio di costituzionalità. Per effetto del meccanismo del raddoppio, il termine di prescrizione dell’incendio colposo risultava nettamente superiore a quello dell’ipotesi dolosa (al netto degli aumenti per atti interruttivi, 12 anni contro i 7 ricavabili dalla pena massima dell’art. 423), determinando una sperequazione «vistosa»: in tal caso, infatti, con un’opzione a tutta evidenza irragionevole, risultava addirittura ribaltata la normale scala di gravità tra titolo doloso e colposo.
Pertanto, il dato normativo all’attenzione della Corte nelle sentenze 265/2017 e 112/2018 delinea un assetto ben diverso – dal punto di vista numerico – da quello su cui era intervenuta la sentenza 143/2014: tanto basta per disinnescare il suggestivo argomento del precedente e affermare che le motivazioni alla base della declaratoria di illegittimità non sono applicabili alla vicenda in esame.
Con le parole della Corte: «nella sentenza 143 del 2014 non si [era] in alcun modo prospettata una inderogabile esigenza costituzionale di scaglionare i termini prescrizionali in senso inverso rispetto a quanto la legge n. 251 del 2005 aveva fatto con riguardo al delitto di incendio: nel senso, cioè, che occorra stabilire, senza possibilità di eccezioni, per l’ipotesi colposa un termine diverso e più breve di quello valevole per la versione dolosa del medesimo reato» (così si esprime la sentenza n. 265/2017, citata letteralmente dalla n. 112/2018).
Anche per eventuali opzioni legislative di parificazione dei termini può porsi un problema di legittimità costituzionale, ma esso richiede una distinta valutazione: a ciò la Corte dedica la parte conclusiva delle motivazioni, che in realtà ne costituisce il cuore.
6. La Corte, come detto, muove dal presupposto della natura sostanziale della disciplina in materia di prescrizione.
Ne discende una generale istanza di proporzione tra la gravità del reato e il tempo necessario a prescrivere: di essa si ha traccia sia nel sistema previgente, organizzato per “fasce” edittali, sia in quello attuale, dove opera il criterio della pena massima della singola figura criminosa.
Si tratta tuttavia – osservava la Corte già nella sentenza 143/2014 – di una correlazione solo tendenziale: in assenza di uno specifico vincolo costituzionale, deve riconoscersi al legislatore un certo spazio di libertà nell’introdurre deroghe alla regola generale modificando la durata dei termini, vuoi nel senso di innalzarli o di ridurli rispetto alle coordinate individuate tramite riferimento al disvalore del reato.
Se ne ha conferma in una serie di norme – della cui legittimità costituzionale non si è mai dubitato – che prevedono, per due o più fattispecie, termini di prescrizione non proporzionali al rapporto tra le pene delle medesime. In particolare, per quanto riguarda le ipotesi di equiparazione, è possibile rammentare che il già richiamato criterio in vigore prima della riforma del 2005 comportava che un unico termine si applicasse a tutti i reati rientranti in una stessa fascia di gravità edittale, circostanza che poteva verificarsi anche per la forma dolosa e colposa di uno stesso fatto di reato (così accadeva proprio per i delitti di incendio ex artt. 423 e 449). Ancora oggi, del resto, il tempo necessario a prescrivere è identico per quei reati puniti con pene che, pur diverse a seconda della versione dolosa o colposa, in entrambi i casi si collocano al di sotto della soglia minima prevista dall’art. 157 co. 1: casi del genere si riscontrano anche nei delitti contro l’incolumità pubblica, come ad esempio – segnala la sent. 265/2017 – nei rapporti tra omissione o rimozione colposa di cautele contro gli infortuni sul lavoro ex art. 451 e corrispondente fattispecie dolosa prevista dall’art. 437 co. 1 [5].
Ciò è costituzionalmente legittimo, afferma ora la Corte, perché, in generale, «a differenziare la fattispecie dolosa da quella colposa, assicurando la proporzionalità del trattamento sanzionatorio al disvalore del fatto, provvede la pena».
Quanto alla durata dei termini di prescrizione, invece, si tratta di valutare la ragionevolezza delle scelte discrezionali del legislatore anche alla luce di elementi ulteriori rispetto a quelli che fondano la diversa gravità dei due titoli di imputazione soggettiva.
7. Per verificare il rispetto del parametro costituzionale rilevante, ossia l’art. 3, diviene allora cruciale tenere conto delle finalità che la disciplina in materia di prescrizione può perseguire nell’ambito della reazione punitiva statale.
Con una preziosa opera di chiarificazione e sintesi della propria giurisprudenza, la Corte ritiene di poter essenzialmente ricondurre l’istituto della prescrizione come causa estintiva del reato a una duplice ratio: da un lato sta il progressivo affievolirsi nel tempo dell’allarme sociale destato dall’illecito; dall’altro lato, ponendosi nella prospettiva del reo, vi è il maturare in capo a costui di un diritto all’oblio per il fatto commesso.
Dato questo fondamento, vi sono almeno due elementi – prosegue la Corte – che possono rendere ragionevole un allungamento dei termini di prescrizione in relazione ad alcuni tipi o classi di reati: i) la sussistenza di un allarme sociale così intenso da determinare «una “resistenza all’oblio” […] più che proporzionale all’energia della risposta sanzionatoria»; ii) la complessità delle attività probatorie necessarie, in sede di indagini preliminari o in giudizio, per accertare il reato nelle sue componenti oggettiva e soggettiva.
Tali giustificazioni non valevano per il trattamento prescrizionale che l’art. 157 co. 6, nella parte poi dichiarata illegittima, finiva per prevedere con riguardo all’incendio colposo; o meglio, entrambe risultavano del tutto inadeguate a sostenere uno squilibrio tanto macroscopico quale il sovvertimento di un ben determinato rapporto di disvalore tra fattispecie.
Le stesse ragioni, al contrario, sono idonee a escludere una violazione dell’art. 3 Cost. a fronte dell’effetto di equiparazione dei termini che l’art. 157 co. 6 determina rispetto ai delitti all’esame della Corte nelle due sentenze più recenti – frana, naufragio e anche disastro innominato.
Fatti di tal genere a livello di elemento materiale – per definizione condiviso dalle rispettive versioni dolose e colpose – generano un uniforme oltre che intenso allarme sociale, sempre più avvertito nella coscienza pubblica anche alla luce delle conseguenze a lungo termine che vi si ricollegano. La Corte sul punto richiama, come esempio di tale sensibilità, la recente l. 68/2015, con la quale il legislatore, attraverso tra l’altro la previsione di una autonoma norma incriminatrice, aveva inteso potenziare la risposta penale nei confronti di fatti di macro-danneggiamento ambientale fino ad allora ricondotti proprio alla fattispecie di cui all’art. 434. Considerazioni analoghe la sent. 112/2018 ritiene di poter agevolmente estendere alle fattispecie di cui agli artt. 426 e 428, in considerazione della comune appartenenza al genus dei “disastri” – nozione appunto elaborata dalla giurisprudenza anche costituzionale sulla base di caratteristiche oggettive, a prescindere dalla componente psicologica [6].
Anche sul versante delle ragioni di ordine probatorio la verifica della Corte ha esito positivo: ciò sia perché, visto quanto precede, per ciascuna coppia di fattispecie l’accertamento del fatto tipico presenta il medesimo grado di difficoltà, dovendosi peraltro tenere conto della normale lungolatenza degli effetti dannosi di tali illeciti; sia perché, anche avendo riguardo all’elemento soggettivo, la complessità delle attività istruttorie necessarie per fondare un addebito a titolo di colpa può ritenersi sostanzialmente equivalente a quella riscontrata nell’accertamento della responsabilità dolosa.
8. In conclusione, la Corte ritiene di dover evocare ancora una volta il contesto in cui si colloca la disposizione impugnata. In particolare, invita a tener conto, attraverso una valutazione comparativa con l’assetto esistente, dello scenario alternativo con cui il legislatore si è idealmente confrontato al momento di introdurre l’art. 157 co. 6: in mancanza di questa norma, il nuovo criterio di calcolo previsto dalla riforma del 2005 avrebbe comportato la drastica riduzione dei termini di prescrizione dei disastri colposi da dieci a sei anni, che diventava un vero e proprio dimezzamento (da quindici a sette e mezzo) considerando i mutati aumenti per gli atti interruttivi.
La Corte sembra quindi voler rimarcare che attraverso la norma impugnata il legislatore perseguiva un fine legittimo: se nel fare ciò – come visto – non vi è stato sconfinamento dello spazio di discrezionalità consentito, la natura del suo sindacato preclude alla Corte di sostituire alla scelta del legislatore una scelta diversa solo perché ritenuta “migliore” (più opportuna) di quella.
Si tratta di una considerazione che rimane implicita nella sent. 112/2018, mentre viene portata alla superficie – sempre in fine – nella sent. 265/2017. La soluzione normativa ai problemi di coordinamento tra termini di prescrizione dei disastri, dolosi e colposi, ante e post riforma, al più «può essere motivo di critica sul piano politico-criminale», rientrando tra le molte in astratto disponibili e tutte costituzionalmente legittime.
Questa riflessione suggella il percorso argomentativo compiuto. L’esito, come anticipato, è nel senso che non è irragionevole la scelta del legislatore di contrastare la riduzione dei termini di prescrizione delle fattispecie scrutinate anche se realizzata attraverso un meccanismo che rende tali termini uguali a quelli delle corrispondenti ipotesi dolose.
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9. Alcune rapide osservazioni finali, destinate principalmente a precisare la portata delle sentenze della Corte.
9.1. Anzitutto, le motivazioni non consentono di sostenere la legittimità dell’art. 157 co. 6 rispetto a tutte le ipotesi di disastro colposo diverse dall’incendio colposo.
Se infatti la decisione è strettamente collegata alla verifica di una relazione di uguaglianza tra termini di prescrizione, occorre chiarire che nell’ambito dei delitti contro la pubblica incolumità si danno ulteriori ipotesi in cui – previa applicazione del meccanismo del raddoppio – il delitto colposo si prescrive in un tempo più lungo del delitto doloso.
Di qui ad esempio si comprende la preoccupazione della Corte, nel percorso verso la declaratoria di infondatezza, di avallare l’opzione interpretativa in base alla quale i giudici rimettenti avevano ritenuto che, nel caso di specie, il fatto di naufragio coinvolgesse una «nave adibita al trasporto di persone» (da intendersi per ragioni logiche come passeggeri, e non solo membri dell’equipaggio): diversamente, ricondurre il fatto al co. 2 dell’art. 449 avrebbe implicato la previsione di un termine di prescrizione di venti anni (pena massima, raddoppiata ex art. 157 co. 6) contro i dodici dell’ipotesi dolosa.
In casi del genere appare prevedibile, in applicazione dei principi ricavabili dal combinato disposto delle tre sentenze qui esaminate, che in futuro si possa pervenire a una declaratoria di illegittimità.
Qualche dubbio potrebbe semmai nutrirsi per l’ipotesi in cui il termine previsto per il delitto colposo sia superiore, ma solo in misura ridotta, a quello del delitto doloso: è il caso delle fattispecie di pericolo comune c.d. indiretto, che, nell’ipotesi in cui il disastro si verifichi e la condotta base di danneggiamento sia dolosa, sono punite nel massimo con la reclusione di dieci anni (cfr. artt. 427 co. 2, 429 co. 2, 431 co. 2). L’identità del fatto tipico, tuttavia, dovrebbe indurre anche in questi casi a ritenere irragionevole ogni disparità trattamentale.
9.2. È anche interessante sottolineare, in prospettiva, ciò su cui la Corte non si pronuncia.
Resta estranea al giudizio di legittimità costituzionale la scelta legislativa di includere determinate fattispecie nell’ambito applicativo dell’art. 157 co. 6 e di escluderne altre, in astratto comparabili alle prime: ciò sebbene in un obiter della sent. 265/2017 si legga che il non aver esteso il meccanismo del raddoppio ai «delitti colposi contro la salute pubblica» (art. 452, che si riferisce ai delitti contro la pubblica incolumità mediante frode) «resta nell’ambito degli apprezzamenti discrezionali, insuscettibili di sindacato».
Ancora, nonostante il richiamo alla l. 68/2015, la sent. 112/2018, al pari di quanto già da altri osservato per la sent. 265/2017 [7], lascia impregiudicato ogni profilo di legittimità costituzionale dello stesso art. 157 co. 6 nella parte in cui richiama l’intero nuovo titolo (VI-bis) dei delitti contro l’ambiente, così sottoponendo al raddoppio dei termini sia le ipotesi dolose (artt. 452-bis e quater) sia quelle colpose (artt. 452-quinquies).
9.3. Una maggiore valenza sistematica può invece riconoscersi alle considerazioni svolte in materia di natura e funzioni della prescrizione come istituto generale.
Le motivazioni della Corte consentono di individuare una posizione ben definita, che in questa sede ci si limita a schematizzare.
In primo luogo, la riaffermata dimensione sostanziale dell’istituto – dato acquisito, anzi, presupposto – «non vale a cancellare l’eterogeneità della sua funzione rispetto a quella della pena», afferma la sent. 265/2017 condividendo la tesi sostenuta dall’Avvocatura dello Stato e implicitamente accolta anche nella sent. 112/2018.
In quest’ottica, il diritto all’oblio del singolo può – come riconosciuto anche dalla sent. 115/2018 – entrare in un giudizio di bilanciamento con l’interesse dello Stato all’effettività della risposta punitiva.
Nell’ambito di tale giudizio, i parametri che si aggiungono o, come in questo caso, che si contrappongono alla gravità del reato sono rappresentati dall’allarme sociale destato dal fatto e dalla complessità delle attività richieste per accertare il fatto.
Chiarito questo punto, le sentenze in esame elaborano ulteriormente il tema sotto un duplice aspetto.
Da un lato, la gravità del reato non solo costituisce un fattore da bilanciare, ma consente di individuare un limite, almeno tendenziale, alla discrezionalità legislativa, che nel modulare i termini di prescrizione non potrebbe mai spingersi fino all’estremo di invertire i rapporti di disvalore tra fattispecie che si ricavano dai principi generali e si manifestano nelle pene edittali.
Dall’altro lato, anche le menzionate ragioni di ordine probatorio possono essere da sole sufficienti a giustificare la previsione di termini derogatori a quelli ordinari: si tratta di un’affermazione contenuta nella sent. 265/2017, non ripetuta né smentita dalla successiva sent. 112/2018, che stimola a riflettere su come un istituto di cui si predica pacificamente la natura sostanziale possa subire condizionamenti di disciplina in virtù di esigenze strettamente processuali.
[1] La pubblicazione della sentenza 265/2017 è posteriore all’emanazione delle due ordinanze di rimessione che hanno portato alla sentenza 112/2018, le quali dunque non hanno potuto tenere conto della posizione già espressa dalla Corte in occasione della prima pronuncia.
[2] La sentenza 143/2014 è illustrata da N. Recchia, È irragionevole il raddoppio del termine prescrizionale previsto per l’incendio colposo, in questa Rivista, 18 giugno 2014, e successivamente analizzata da Id., Le declinazioni della ragionevolezza penale nelle recenti decisioni della Corte costituzionale, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 2/2015, nella specifica prospettiva delle dinamiche del giudizio ex art. 3 Cost.
[3] La sentenza 115/2018, che conclude la vicenda Taricco, non era stata ancora pubblicata al tempo in cui si è tenuta la camera di consiglio della sent. 265/2017 e quella della presente sent. 112/2018, come evidente dalla numerazione progressiva delle decisioni della Corte. Oggi con tale sentenza può ribadirsi che «un istituto che incide sulla punibilità della persona, riconnettendo al decorso del tempo l’effetto di impedire l’applicazione della pena, nel nostro ordinamento giuridico rientra nell’alveo costituzionale del principio di legalità sostanziale enunciato dall’art. 25, secondo comma, Cost. con formula di particolare ampiezza».
[4] Nel caso dell’incendio colposo il combinarsi del nuovo criterio di calcolo del termine e della nuova percentuale di aumento per gli atti interruttivi avrebbe comportato il passaggio da un termine di quindici anni (dieci per la “fascia” di appartenenza più un possibile aumento fino alla metà) a un massimo di sette anni e mezzo (sei, in quanto reato sotto soglia, più un quarto).
[5] Qualcosa di analogo si può notare anche per i rapporti tra i «delitti colposi di pericolo» di cui all’art. 450 (che punisce con la reclusione fino a due anni le condotte colpose con cui taluno «fa sorgere o persistere il pericolo di un disastro») e le corrispondenti fattispecie (di pericolo comune c.d. indiretto) che incriminano condotte dolose di danneggiamento da cui deriva il pericolo di un disastro (in specie, artt. 427, 429, 431 e 432, che per il caso in cui il disastro non si verifichi comminano una pena massima di cinque o sei anni).
[6] Notoriamente, per recuperare determinatezza alla nozione di “altro disastro” contenuta nell’art. 434, Corte cost. n. 327/2008 aveva fatto astrazione dalle singole norme che prevedono delitti contro la pubblica incolumità per estrapolarne un concetto generale di disastro come “manifestazione di pericolo comune” contraddistinta – in breve – da: i) un elemento dimensionale (evento dirompente di proporzioni straordinarie anche se non immani); ii) una proiezione offensiva (effetti diffusi potenzialmente lesivi della vita o dell’incolumità fisica di un numero indeterminato di persone).
[7] E. Cottu, La prescrizione dei reati ambientali: efficacia, coerenza, ragionevolezza?, in Dir. pen. cont. – Riv. trim., 1/2018, p. 288-289.