ISSN 2039-1676


10 dicembre 2018 |

Contenzione del paziente psichiatrico e sequestro di persona: l’antigiuridicità è esclusa (solo) entro i ristretti confini dello stato di necessità (caso Mastrogiovanni)

Cass., Sez. V, sent. 20 giugno 2018 (dep. 7 novembre 2018), n. 50497, Pres. Fumo, Est. Fidanzia

Per leggere il testo della sentenza, clicca in alto su "visualizza allegato".

 

1. La contenzione meccanica non è atto terapeutico e, se non scriminata dallo stato di necessità, da valutarsi in base a criteri rigorosi, comporta per i sanitari responsabilità per sequestro di persona.

Questo, in sintesi, il principio di diritto alla base della pronuncia qui segnalata, con cui la Cassazione conferma la sentenza di secondo grado che aveva condannato medici e infermieri per il delitto di cui all’art. 605 c.p. commesso ai danni di due pazienti che, ricoverati nel reparto di psichiatria, erano stati legati al letto e così erano rimasti, ininterrottamente, anche per giorni.

Si tratta di una delle rare decisioni di legittimità relative a fattispecie del genere e, probabilmente, di quella che si fa carico di chiarire con il maggior grado di approfondimento i profili di rilevanza penale delle pratiche contenitive.

In termini sistematici, poi, si assiste a un ampliamento delle ipotesi giurisprudenziali di responsabilità del medico per atti compiuti in mancanza di consenso del paziente – inquadrati, in questo caso, tra i delitti (dolosi) contro la libertà individuale; sullo sfondo si staglia il più generale problema degli strumenti giuridici oggi disponibili per la gestione e per la tutela del paziente psichiatrico.

 

2. I fatti oggetto dei giudizi di merito, dotati di una certa risonanza anche mediatica, sono principalmente legati alla vicenda di Francesco Mastrogiovanni. Questi era stato ricoverato il 31 luglio 2009 presso l’ospedale di Vallo della Lucania, in esecuzione di un trattamento sanitario obbligatorio disposto per lo stato di «agitazione psicomotoria, alterazione comportamentale ed etero aggressiva» riscontrato il giorno precedente – quando Mastrogiovanni, colto ad attraversare in auto ad alta velocità un centro abitato, dopo una pericolosa fuga si era infine tuffato in mare per sottrarsi all’inseguimento delle forze dell’ordine.

Poco dopo l’ammissione nel reparto di psichiatria gli erano state applicate ai quattro arti apposite fascette dotate di viti, fissate alle sbarre del letto. Secondo quanto emergeva dai filmati registrati dalle telecamere di sorveglianza, il paziente era rimasto immobilizzato continuativamente, con l’eccezione di pochi minuti, fino al 4 agosto, data del decesso.

Venivano quindi formulati a carico del primario, nonché dei medici e degli infermieri che si erano succeduti in reparto durante i turni di quei giorni, i seguenti capi di imputazione: oltre al sequestro di persona, il delitto di cui all’art. 586 in relazione all’art. 605 e – per i soli medici – il falso ideologico in atto pubblico, contestato per la mancata annotazione in cartella clinica dell’applicazione del regime contenitivo.

La visione dei filmati portava peraltro a muovere l’addebito di sequestro di persona anche per la condotta tenuta da alcuni degli stessi sanitari nei confronti di un altro paziente, Giuseppe Mancoletti, che, dopo aver chiesto il ricovero volontario, aveva sviluppato uno stato febbrile, in concomitanza del quale era stato sottoposto a contenzione protrattasi per quasi un’intera giornata.

Il Tribunale di Vallo della Lucania riteneva responsabili i medici per le diverse imputazioni, mentre assolveva gli infermieri per i reati di cui agli artt. 605 e 586, giudicando operante la scriminante dell’errore su un ordine illegittimo ex art. 51 comma 3, in conseguenza del loro ruolo subordinato[1].

La condanna dei medici veniva confermata dalla Corte d’Appello sul condiviso rilievo, rispetto al delitto di cui all’art. 605 c.p., dell’assenza dei presupposti di alcuna causa di giustificazione, e in particolare delle condizioni previste dall’art. 54 c.p.; era invece riformata la pronuncia di primo grado con riguardo alla posizione degli infermieri, la cui responsabilità veniva fatta discendere da una complessiva rilettura dei loro doveri professionali e dei rapporti funzionali con il personale medico.

Con i ricorsi per cassazione gli imputati censuravano tutte le statuizioni della decisione di secondo grado, deducendo – per quanto qui più rileva – la mancanza di antigiuridicità delle condotte integranti il sequestro di persona e, comunque, la carenza dell’elemento psicologico richiesto dalla norma incriminatrice.

 

3. La Cassazione procede alla ricostruzione della principale questione giuridica – i presupposti di liceità della contenzione – affrontando anzitutto il problema della natura di tale pratica, per escludere che possa ricondursi alla categoria degli “atti medici” (pp. 44-45).

Si tratta di una verifica imposta, come osservato dalla Corte, dai principi enunciati dalla nota pronuncia Giulini delle Sezioni unite del 2008[2], secondo la quale in presenza di tale qualificazione – dipendente dalla oggettiva finalità terapeutica, diagnostica o quantomeno palliativa dell’atto considerato – la condotta del sanitario beneficerebbe di una causa di giustificazione avente diretto fondamento negli artt. 2 e 32 Cost.

Nella contenzione, però, nonostante la provenienza soggettiva dal personale medico, non è possibile ravvisare «una finalità curativa, né [essa] produce materialmente l’effetto di migliorare le condizioni di salute del paziente». Neppure, contrariamente alla prospettiva sostenuta in alcuni ricorsi, può sostenersene la liceità per il solo fatto che essa risulti strumentale rispetto all’esecuzione di atti medici propriamente detti, come la cura farmacologica.

La funzione svolta, infatti, come ribadito più volte in motivazione, è quella di mero presidio «di tipo “cautelare”» che, per la intrinseca invasività della libertà individuale e dell’integrità fisica, richiede di cercare altrove i presupposti della sua legittimità.

 

4. A tal proposito la Cassazione richiama una serie di dati normativi (pp. 46-47) da cui deve desumersi, per un verso, l’estraneità della contenzione allo strumentario delle pratiche mediche ordinarie, per l’altro, una serie di condizioni minime al cui rispetto ne deve essere subordinata la liceità.

All’art. 60 del c.d. regolamento sui manicomi (risalente al 1909) sono succedute, in particolare, la legge sull’ordinamento penitenziario (l. 354/1975, di cui in particolare l’art. 41) e, pochi anni più tardi, la c.d. legge Basaglia (l. 180/1978), che nell’abrogare indirettamente la citata disposizione regolamentare ne ha comunque convalidato l’impianto ispiratore, contribuendo anzi a disegnare un sistema ancor più garantistico dei diritti del paziente psichiatrico, in contrapposizione al precedente modello custodialistico; un criterio interpretativo ancor più stringente discende poi dagli artt. 13 e 32 Cost.[3].

I parametri espressi dalle norme citate convergono quindi nel senso di far ritenere che la contenzione, come forma di coercizione fisica, risponda a una logica di extrema ratio: cosicché, anche nel contesto sanitario, può ammettersene l’uso soltanto in situazioni straordinarie e limitatamente al tempo necessario per fronteggiarle.

Non persuade, invece, il richiamo dei ricorrenti all’art. 5 lett. e) Cedu, trattandosi di previsione non pertinente, in quanto la «detenzione regolare dell’alienato», dalla stessa legittimata, non copre le ipotesi di totale immobilizzazione della persona, per le quali semmai occorre valutare la violazione del divieto di trattamenti inumani e degradanti stabilito dall’art. 3 della Convenzione.

 

5. L’incompatibilità il principio sopra enucleato vale a confutare l’argomento, invero suggestivo, per cui la liceità della contenzione potrebbe discendere in via automatica dall’applicazione del consolidato orientamento giurisprudenziale che pone a carico dello psichiatra una posizione di garanzia di particolare latitudine, gravandolo tanto di obblighi di protezione che di controllo rispetto al paziente. Si è sostenuto infatti che l’obbligo del medico di impedire condotte auto ed etero-aggressive, considerato dall’angolo visuale dell’adempimento del dovere, consentirebbe di ritenere scriminati gli atti che egli compie per neutralizzare il rischio degli eventi che è tenuto a prevenire. Osserva tuttavia la Cassazione (p. 48) che, al contrario, per la natura dei beni in gioco, sono gli stessi obblighi di protezione (e, se del caso, di custodia) del medico a trovare un limite nella eccezionalità delle condizioni entro cui è lecito ricorrere alla contenzione.

 

6. L’istituto idoneo a convogliare sul piano tecnico tale esigenza di eccezionalità come filtro di liceità è, secondo la Cassazione, la causa di giustificazione dello stato di necessità.

La sentenza provvede quindi a specificare, in relazione alle ipotesi di contenzione del paziente psichiatrico, alcuni dei presupposti di operatività dell’art. 54 c.p. (pp. 49-51): i) l’attualità del pericolo preclude un utilizzo della contenzione «in via “precauzionale”», dovendosi fondare su riscontri obiettivi – ricavati da un «costante monitoraggio del paziente» e da una valutazione completa dell’evoluzione del quadro clinico – idonei a far ritenere, secondo la scienza medica, quantomeno imminente un’offesa all’incolumità personale; ii) la proporzionalità della contenzione – una volta accertata l’inefficacia di misure alternative – deve intendersi sia in senso cronologico, da commisurarsi quindi alla durata del pericolo (o meglio, della sua attualità), sia in termini di intensità, dovendo il medico valutare la possibilità di immobilizzare solo alcuni arti.

Una prima concretizzazione di questi parametri è offerta dall’applicazione che ne è stata fatta, nel caso di specie, dalla Corte di Appello, e che la Cassazione ritiene di dover condividere, tenuto conto anche dell’inammissibilità dei motivi tesi a sollecitare una diversa ricostruzione in fatto.

 

6.1. Per quanto riguarda Mancoletti (pp. 51 ss.), l’insussistenza dei requisiti di cui all’art. 54 può cogliersi palesemente nella circostanza per cui, in base alle registrazioni video, egli non si era dimostrato aggressivo o irrequieto, e d’altra parte, secondo l’attendibile testimonianza dello stesso paziente, non aveva opposto alcun rifiuto alla terapia. – precisa la Cassazione – la guarigione dalla polmonite, avvenuta grazie ai farmaci lui somministrati durante il tempo in cui era rimasto immobilizzato a letto, sarebbe argomento sufficiente per invocare la liceità della condotta alla luce dei principi sanciti in Giulini, dovendosi ribadire che all’evidenza la contenzione (comunque superflua nel caso di specie) risulta di per sé priva di alcun effetto terapeutico.

 

6.2. Gli estremi dello stato di necessità non sono integrati neppure nella più complessa vicenda che ha coinvolto Mastrogiovanni (pp. 54 ss.). Ciò vale sia per l’originaria applicazione dei dispositivi di contenzione, sia per il loro successivo mantenimento.

Sul primo fronte, infatti, si ricava dal diario clinico che già poco dopo l’ammissione in reparto l’iniziale agitazione del paziente era stata efficacemente compensata per via farmacologica; totalmente avulsa dal contesto terapeutico risulta invece la finalità di eseguire un prelievo delle urine richiesto dalle forze dell’ordine per accertamenti legati alla guida spericolata del giorno precedente, trattandosi di una specifica esigenza investigativa che l’ordinamento non consente di soddisfare in via coattiva (salva ovviamente la rilevanza penale del rifiuto).

Anche la successiva agitazione psicomotoria del paziente, poi, non consente di ritenere scriminato il protrarsi della contenzione quando, come nel caso di specie, sia possibile accertare – in base a una serie di riscontri quali il diario clinico, i filmati e i rilievi autoptici – che tale comportamento non è stato manifestazione del riacutizzarsi della patologia psichiatrica, ma deve viceversa ricondursi proprio «al perdurare della costrizione meccanica divenuta insopportabile, al caldo e all’insofferenza per la posizione innaturale in cui i legacci costringevano il malato, con il conseguente istintivo quanto inutile tentativo di forzarli per riacquistare la capacità di movimento» (p. 56).

Un ulteriore corollario del principio di extrema ratio si trae quindi dall’affermazione per cui la contenzione non può ritenersi giustificata dal solo riferimento ai possibili effetti collaterali degli psicofarmaci (quali manifestazioni di aggressività o rischi di cadute da ipotensione), a prescindere da un pericolo attuale per l’incolumità personale da ricavarsi ancora una volta da dati clinici concreti (ad es., i valori pressori): si finirebbe altrimenti per sdoganare l’impiego della pratica contenitiva in chiave precauzionale e dunque, vista la normale prevedibilità di tali effetti, per ammetterla come «metodica abituale di trattamento della malattia psichiatrica» (p. 58).

 

7. Nel caso in esame l’esonero da responsabilità per sequestro di persona non può essere riconosciuto neppure sul piano dell’elemento soggettivo, che i ricorrenti chiedevano di configurare in termini di colpa.

Un errore sulla sussistenza degli estremi dello stato di necessità, rilevante ex art. 59 co. 4 c.p., è stato escluso dalla sentenza impugnata sulla base di due argomenti principali: in primo luogo, la mancata annotazione in cartella clinica, da parte di tutti i medici avvicendatisi nelle visite al paziente, di qualsiasi riferimento allo stato di contenzione; in secondo luogo, la circostanza per cui, sia dall’esame degli imputati che dagli altri atti difensivi, tra cui le impugnazioni, era emerso – fin dal lessico utilizzato – come all’interno del reparto la contenzione fosse considerata la prassi, «una sorta di protocollo tacito applicato in maniera indistinta» – venendo appunto descritta dagli stessi ricorrenti come “protocollo terapeutico/assistenziale” o “terapia meccanica”.

Entrambi gli elementi sintomatici rivelano, anche a giudizio della Cassazione (pp. 65 ss.), la chiara consapevolezza dei sanitari di agire in una situazione di fatto priva dei connotati di eccezionale necessità che, anche nel contesto di un trattamento sanitario obbligatorio, sono richiesti per giustificare, ai sensi dell’art. 54, il ricorso alla contenzione.

Non rileva, invece, la finalità perseguita dai medici: una volta considerato che la “incompatibilità ontologica con il dolo” vale soltanto per gli atti sanitari contrassegnati da una funzione terapeutica da valutarsi in base a criteri oggettivi, non può che ricordarsi come il delitto di cui all’art. 605 sia punito a titolo di dolo generico, a prescindere dalle intenzioni soggettive che animano l’agente.

 

8. Merita infine attenzione la posizione adottata dalla sentenza in esame sull’estensione dell’addebito di responsabilità per sequestro di persona anche a carico degli infermieri, esclusa dal Tribunale in forza dell’art. 51 comma 3 e affermata dalla Corte d’Appello.

La Cassazione (pp. 70 ss.) accoglie l’impostazione del giudice di secondo grado, fondata, come accennato, sulla valorizzazione degli obblighi gravanti sul personale infermieristico. Il modello della subordinazione gerarchica ai medici non risulta sostenibile alla luce della l. 251/2000 che, all’art. 1 co. 1, dopo aver sancito un principio di «autonomia professionale» per gli infermieri, richiama, per individuarne le funzioni, il codice deontologico di categoria: con particolare riferimento alla contenzione, viene così attribuita piena giuridicità ai doveri ivi prescritti di verifica delle condizioni, formali e sostanziali, che la legittimano (art. 30: «l’infermiere si adopera affinché il ricorso alla contenzione sia un evento straordinario, sostenuto da prescrizione medica o da documentate valutazioni assistenziali), nonché ai doveri di protezione del paziente e di segnalazione all’autorità competente in caso di «maltrattamenti o privazioni» (art. 33).

Per la sussistenza del dolo, quantomeno eventuale, si afferma che, a fronte del diffuso impiego in reparto della contenzione fuori dalle relative condizioni di liceità, gli infermieri con il loro contegno omissivo «hanno accettato il rischio della inesistenza della stessa prescrizione medica e della conseguente illegittima privazione […] della libertà», così ponendosi al di fuori della sfera di operatività dell’art. 59 co. 4.

La condanna degli infermieri – osserva la Cassazione, con un’interessante nota processuale – trova dunque fondamento in una diversa ricostruzione in diritto della vicenda, e non in una lettura difforme dei dati fattuali offerti dalle prove dichiarative, il che esclude che la mancata rinnovazione istruttoria contrasti con il principio sancito dalle Sezioni unite Dasgupta.

 

9. Concludendo l’esame dei ricorsi, la Cassazione ritiene fondati i motivi relativi alla condanna ex art. 586 c.p. (pp. 78 ss.): nonostante il reato debba ormai ritenersi prescritto, viene annullata con rinvio – ai soli effetti civili – la sentenza impugnata, che si era erroneamente discostata dalle conclusioni raggiunte dal consulente tecnico del pubblico ministero circa la causa prossima del decesso (morte elettrica da cardiopatia aritmogena) e comunque aveva omesso di individuare una valida legge di copertura che permetta di ricondurre detta causa, a sua volta, alla condotta base dolosa (la contenzione).

Viene invece confermata la condanna dei medici per il delitto di falso ideologico con riferimento alla mancata annotazione in cartella clinica della contenzione (p. 81 ss.), in base al principio per cui – sebbene il tenore letterale dell’art. 479 sembrerebbe deporre altrimenti – rientrano nella fattispecie anche condotte omissive, quando «un’attestazione incompleta […] attribuisca al tenore dell’atto un senso diverso, così che l’enunciato venga ad assumere nel suo complesso un significato contrario al vero o negativo dell’esistenza di dati rilevanti»[4]. Dati tra cui deve senz’altro includersi la contenzione, che, pur estranea a finalità terapeutiche, costituisce un fatto clinico significativo nella complessiva vicenda assistenziale, la cui annotazione tutela tra l’altro gli stessi sanitari in caso di successiva verifica delle condizioni per il suo legittimo impiego.

 

* * *

 

10. Come anticipato in premessa, casi di contenimento meccanico del paziente in contesti sanitari non sono stati portati di frequente all’attenzione della giurisprudenza di legittimità, tanto che la stessa Cassazione in motivazione menziona un unico precedente, del 2015[5].

In tale occasione era stata confermata l’assoluzione dei medici dall’imputazione di sequestro di persona in forza dell’art. 54, riconoscendosi che la contenzione, peraltro realizzata in modo da consentire una qualche minima libertà di movimento, si era resa necessaria per impedire al paziente, ricoverato in regime di t.s.o., di strapparsi la flebo attraverso cui gli veniva somministrata la terapia e di aggredire il personale che lo assisteva[6]. La sentenza, anche se succintamente motivata, mostrava già una ratio decidendi analoga alla presente per quanto concerne l’individuazione della scriminante applicabile e la sua rigorosa interpretazione.

Ciò che invece caratterizza in maniera pregnante la pronuncia in esame e che più sollecita riflessione sembra piuttosto il ragionamento svolto sulla natura delle misure contenitive e – questione in parte collegata – sull’operatività (negata) di diverse cause di giustificazione.

 

11. Rinviando per una visione d’insieme dei profili penali della contenzione medica, nelle sue varie forme, a contributi che hanno affrontato il tema con ben altro grado di approfondimento[7], possiamo qui procedere a evidenziare alcuni punti salienti.

Anzitutto, può discutersi del valore del richiamo alla sentenza delle Sezioni unite Giulini, più volte citata in senso adesivo in motivazione.

È utile ricordare che le stesse Sezioni unite hanno sì elaborato compiutamente la tesi del fondamento costituzionale della liceità degli atti medici, ma hanno risolto la specifica questione loro devoluta sulla base di un diverso criterio: per escludere la responsabilità del medico per gli atti compiuti in assenza di un valido consenso del paziente si è più radicalmente negata la riconducibilità di tali condotte, in caso di esito clinico fausto, al paradigma oggettivo dei reati astrattamente ipotizzabili per fattispecie del genere, cioè lesioni personali e violenza privata[8].

Sotto questo profilo, però, non pare che un’indagine circa il perimetro di tipicità dell’art. 605 possa portare a esiti assolutori, almeno in fattispecie analoghe a quella all’esame della Cassazione, che neppure accenna al problema (stante anche il difetto di impugnazioni sul punto). L’ipotesi in astratto non è peregrina, perché la particolare rilevanza del bene protetto dalla norma non è di per sé incompatibile con interpretazioni restrittive della stessa, come dimostra l’esistenza di un certo dibattito sul punto, perlopiù rispetto a fatti commessi in danno di neonati[9]. Semmai, muovendo dalla tesi tradizionale che fa riferimento al criterio delle “libere volizioni cinetiche”[10], potrebbe ipotizzarsi – ma la prospettiva richiederebbe una specifica analisi – che non sussista un’offesa al bene protetto laddove il medico agisca in coincidenza delle manifestazioni più acute della patologia psichiatrica; ovvero, in casi di minore gravità, potrebbe valutarsi l’applicabilità dell’art. 610 (si pensi all’immobilizzazione del paziente per il solo tempo necessario a procurarsi un accesso venoso per somministrare un sedativo)[11].

 

12. Si è visto poi che qualificare la contenzione come atto privo di finalità terapeutica consente alla Cassazione di escludere la c.d. scriminante costituzionale che invece assiste l’attività medico-chirurgica.

Ancora una volta, però, deve rilevarsi come la qualifica delle normali modalità di agire dei professionisti sanitari come “atti medici” non sia dato decisivo per l’esonero da responsabilità neppure stando al ragionamento delle Sezioni unite Giulini. Per un verso, come detto, l’esito assolutorio è motivato sul difetto di tipicità; per altro verso, occorre confrontarsi con la condivisibile osservazione secondo la quale richiamare la natura dell’atto per giustificarne tout court la liceità rischia di rappresentare una variante della tesi dell’auto-legittimazione dell’attività medica, che lascia scoperto il nodo sostanziale del problema – ossia le sue concrete condizioni di legittimità – e pertanto, come autorevolmente osservato, non risolve i casi dubbi[12].

Ora, volendo prescindere da dispute nominalistiche, come è innegabile che l’immobilizzazione del paziente non abbia, in sé, effetti curativi, così pare difficile escludere che, nell’ambito dell’assistenza al malato psichiatrico, essa possa svolgere un ruolo strumentale al trattamento medico complessivo. Non sempre, non per tutti i pazienti, con gradi di invasività variabile a seconda delle circostanze del caso concreto, prima fra tutte le caratteristiche della patologia: ma si tratta, appunto, una volta stabilito che la coazione fisica sul corpo del paziente integri un fatto tipico (ex artt. 605 o 610), di individuare di volta i limiti entro cui ciò possa ritenersi lecito[13].

 

13. Il problema pare dunque correttamente inquadrato sul piano delle cause di giustificazione.

Si escluda che nelle ipotesi di cui si discute possa venire in rilievo il consenso dell’avente diritto, che ipotizziamo non possa essere fornito validamente dall’incapace (né, per ragioni di urgenza, da un legale rappresentante). L’assunto è che il paziente non sia in grado di esprimere una volontà che possa considerarsi autentica, non solo sotto forma di assenso (che farebbe venir meno il bisogno della coazione), ma neppure sotto forma di dissenso: altrimenti, secondo un principio consolidato in giurisprudenza e oggi recepito a livello positivo dalla l. 219/2017, la scelta libera e consapevole di rifiutare le cure impone al medico un verso e proprio dovere di astensione, ostacolo che non questi potrebbe superare invocando l’art. 54 anche laddove sia a rischio la vita del paziente (diverso il discorso laddove il pregiudizio incomba sull’incolumità fisica altrui).

La prima questione riguarda allora, essenzialmente, i rapporti tra art. 54 e art. 51, sub specie di adempimento del dovere. La Cassazione oggi nega che quest’ultima scriminante possa invocarsi per conferire assoluta liceità a qualsiasi intervento contenitivo, per quanto posto in essere da un soggetto pacificamente investito di obblighi di protezione e controllo, a prescindere dal rispetto delle condizioni di necessità fissate in sentenza. Ciò vale anche (cfr. pp. 46 e 67) laddove la doverosità della condotta del medico sia ulteriormente qualificata dalla circostanza di essere attuativa di un t.s.o. (disciplinato dagli artt. 33-35 l. 833/1978): questo consente di imporre al paziente determinati trattamenti sanitari, ma poiché tra questi – secondo la logica più volte esposta – non rientra la contenzione, esse è lecita solo laddove risulti indispensabile alla cura.

Una tale conclusione risulta, in termini generali, acquisita in dottrina, che ricorda come ai fini dell’operatività dell’art. 51 debba sempre compiersi una valutazione di oggettiva strumentalità della condotta all’adempimento dell’obbligo e, comunque, un giudizio di bilanciamento con l’interesse protetto dalla norma incriminatrice violata[14].

Nondimeno, pare importante sottolineare che tale lettura non dovrebbe far ombra al dato (riconosciuto dagli stessi giudici di legittimità) per cui, nei limiti in cui la condotta è giustificata dallo stato di necessità, l’intervento del medico è da ritenersi anche doveroso alla luce della particolare qualifica soggettiva rivestita e della natura dell’attività svolta, cui si ricollegano i noti obblighi di impedimento[15] – non gravanti sul comune cittadino, la cui azione sarebbe scriminata dal solo art. 54.

Per quanto riguarda più da vicino i confini dei presupposti legittimanti la contenzione, a fronte dell’esaustiva trattazione da parte della Cassazione una notazione specifica merita l’insistenza sul requisito di attualità del pericolo, integrato quando la lesione all’integrità fisica (del paziente o di terzi) quantomeno appare imminente, e non soltanto possibile né meramente probabile. Un simile rigore costituisce comprensibile ammonimento agli operatori e indicazione metodologica agli interpreti, nell’auspicata ottica di extrema ratio che dovrebbe regolare il ricorso alle misure contenitive; tuttavia, al di là delle formule lessicali impiegate, la valutazione circa la sussistenza di tale presupposto fattuale non potrà che essere svolta dai medici, sulla base di un insostituibile sapere tecnico-scientifico la cui natura – specie laddove a dati biologici si aggiungano variabili comportamentali – risulta intrinsecamente probabilistica[16]. E lo stesso dovrebbe dirsi, oltre che per le scelte riguardanti l’an della contenzione, per quelle relative alle concrete modalità (anche temporali) del loro utilizzo.

 

14. Pur alla luce di queste precisazioni, l’art. 54 sembra in grado – attraverso la sinergia di conoscenze cliniche e prudente applicazione pretoria – di condurre a soluzioni ragionevoli ed eque: due pronunce di legittimità non sono certo statisticamente significative, ma dimostrano come la causa di giustificazione in esame possa rappresentare uno strumento coerente dal punto di vista tecnico e al tempo stesso idoneo ad adeguarsi alle specificità del caso concreto, senza imporre un esito rigidamente predeterminato.

Ciò che forse può risultare inappagante è proprio la mancanza di definizione a priori del confine tra lecito e illecito.

Dal punto dei medici, in relazione alla prevedibilità della sanzione, non si scorge soluzione migliore della implementazione di un sistema di linee guida, che richiede però un parallelo percorso di maturazione da parte della stessa giurisprudenza nell’attitudine verso l’ineliminabile complessità dei casi clinici di cui si tratta; sotto questo profilo rimane peraltro aperta, sebbene “a valle”, la possibilità per il giudice di valorizzare l’art. 59 co. 4, normalmente messo fuori gioco dalla punibilità a titolo di colpa dei delitti contro l’incolumità individuale.

Dal punto di vista del paziente, in relazione a possibili garanzie preventive contro ingerenze nella sfera della libertà personale, chi più ha studiato il tema propugna da tempo la necessità di una legge ad hoc che disciplini casi e modi della contenzione nonché le forme di controllo da parte dell’autorità giudiziaria, al fine di soddisfare la duplice riserva, di legge e di giurisdizione, prevista dall’art. 13 Cost.[17]. La tesi si apprezza senz’altro per l’intento di rafforzare i presidi a tutela di un bene cui la stessa Carta fondamentale dimostra di attribuire un rilievo peculiare. Tuttavia, su un piano più strettamente pragmatico, non è agevole immaginare i) quanto ai presupposti per l’applicazione delle misure contentive, che una legge possa prevedere condizioni più analitiche di quelle risultati dalla già rigorosa interpretazione giurisprudenziale dell’art. 54, senza sconfinare nella normazione tecnica di dettaglio (una sorta di codificazione delle linee guida); ii) quanto alle garanzie procedurali, che un giudice (diverso dal medico, “giudice tecnico” del caso clinico) possa dare un provvedimento autonomo in tempi sufficientemente rapidi per rispondere in modo efficace alla situazione di necessità. Una prova empirica di questo non secondario problema può ritrovarsi nel fatto che casi di urgenza (nel senso di imminente lesione dell’incolumità fisica del paziente o di terzi) – niente affatto straordinari, ma comunque imprevedibili, e destinati a essere affrontati con il solo art. 54 – si pongono inevitabilmente anche in situazioni gestite attraverso l’articolato e garantistico regime del t.s.o., sia nella fase prodromica alla sua approvazione sia durante il suo svolgimento.

 

15. Le condivisibili preoccupazioni cui questa dottrina intende dar voce sembrano emergere in tutta la loro serietà nei casi in cui la necessità di prendere in carico il paziente psichiatrico pericoloso, per sé e per gli altri, diventi per così dire strutturale. La questione dovrebbe quindi essere analizzata in primis nel contesto della riflessione sulla disciplina e sul concreto funzionamento delle nuove REMS, tenuto conto che, a livello fenomenologico, «la contenzione meccanica è la risposta del servizio a un problema di gestione del paziente»[18]: una risposta patologica – come dimostra in tutta la sua drammaticità il caso di specie – che però, alla luce delle cause che la determinano, dovrebbe trovare argine primariamente sul piano delle misure organizzative interne al sistema sanitario (in stretto coordinamento con l’apparato giudiziario), piuttosto che su quello della repressione penale.

 

 


[1] Trib. Vallo della Lucania, sent. 30 ottobre 2012 (dep. 27 aprile 2013), Giud. Gurzo, pubblicata in questa Rivista, 12 giugno 2013, con nota di G. Dodaro, Morire di contenzione nel reparto psichiatrico di un ospedale pubblico: la sentenza di primo grado sul caso Mastrogiovanni.

[2] Cass., Sez. un., 18 dicembre 2008 (dep. 21 gennaio 2009), n. 2437, Pres. Gemelli, Est. Macchia, ric. Giulini et al. (che può leggersi a questo link).

[3] Nonostante la generica menzione dell’art. 32, il richiamo al «divieto di violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana» focalizza il riferimento sul comma 2 della disposizione costituzionale.

[4] Il principio, come precisa la Cassazione, è consolidato nella giurisprudenza di legittimità: la più recente pronuncia conforme risulta Cass., Sez. V, sent. 4 novembre 2014, n. 48755, Rv. 261295.

[5] Cass., Sez. V, sent. 14 aprile 2015 (dep. 6 luglio 2015), n. 28704, Pres. Lombardi, Est. De Marzo.

[6] Era stata pubblicata in questa Rivista, 25 febbraio 2014, la decisione di primo grado (GIP Cagliari, sent. 17 luglio 2012), con nota di G. Dodaro, Il nodo della contenzione in psichiatria tra gestione della sicurezza, diritti del paziente e “inconscio costituzionale”.

[7] In particolare primo riferimento è l’articolato contributo di G. Dodaro, Il problema della legittimità giuridica dell’uso della forza fisica o della contenzione meccanica nei confronti del paziente psichiatrico aggressivo o a rischio suicidiario, in Riv. it. med. leg., 2011, 6, p. 1483 ss.; una efficace sintesi delle principali criticità extra-penali ed extra-giuridiche collegate al tema si trova in G. Dodaro, L. Ferrannini, Contenzione meccanica in psichiatria. Introduzione a Focus, in Riv. it. med. leg., 2013, 1, p. 167 ss.

[8] Si tratta di una pronuncia che, sebbene oggetto di critiche specie per l’interpretazione oggettiva fornita della nozione di “malattia” ex art. 582 e per l’indiretta svalutazione del consenso del paziente nella relazione terapeutica, si è vista riconoscere il pregio di aver ristabilito il corretto ordine logico nell’indagine sugli elementi del reato, in precedenza spesso sovvertito nei casi concernenti la responsabilità per c.d. atti arbitrari: cfr. F. Viganò, Omessa acquisizione del consenso informato del paziente e responsabilità penale del chirurgo: l’approdo (provvisorio?) delle Sezioni unite, in Cass. pen., 2009, 5, p. 1811 ss.

[9] In un caso di sottrazione di neonato, una risalente pronuncia del Tribunale di Pavia (17 luglio 1984) aveva escluso la sussistenza dell’art. 605, sull’argomento per cui il neonato – «non disponendo di alcuna capacità di esplicare efficacemente la propria volontà in relazione alla libertà personale, la quale implica la facoltà di muoversi autonomamente nello spazio» – non potrebbe essere privato di ciò che non possiede. La sentenza era stata sottoposta a una critica serrata da parte di T. Padovani, Il sequestro di persona e l’identificazione della libertà tutelata, in Riv. it. dir. e proc. pen., 1985, p. 605 ss., a sua volta oggetto delle obiezioni di F. Viganò, Art. 605, in C. Piergallini, F. Viganò, M. Vizzardi, A. Verri, Delitti contro la persona. Libertà personale, sessuale e morale; domicilio e segreti, in Trattato di diritto penale diretto da G. Marinucci – E. Dolcini, Cedam 2015, p. 3 ss., il quale sostiene l’applicabilità, in fattispecie analoghe, del solo art. 574 c.p.

[10] Criterio riassunto in F. Viganò, Art. 605, cit., p. 3-4.

[11] Così se ritiene configurabile il delitto di violenza privata, anziché il sequestro di persona, quando la limitazione della libertà sia funzionale «rispetto alla coercizione a una singola e determinata condotta e non si protragga oltre il tempo necessario a tale fine» (F. Viganò, Art. 605, cit., p. 27).

[12] Così F. Viganò, Profili penali del trattamento chirurgico eseguito senza il consenso del paziente, in Riv. it. dir. e proc. pen., 2004, 1, p. 167-168, che a sua volta rinvia alle illuminanti osservazioni già formulate da F. Grispigni, La liceità giuridico-penale del trattamento medico-chirurgico, in Riv. dir. e proc. pen., 1914, p. 16.

[13] Prova ne sia che, nel definire la nozione di “atto medico” – cui, in ipotesi, si ricollega l’assenza di rilevanza penale del fatto – o, al contrario, quella di “contenzione” penalmente illecita, si tende a indicare una serie di caratteristiche che finiscono per descrivere nient’altro che i requisiti di operatività di una causa giustificazione.

[14] Una sintesi si trova in F. Viganò, sub art. 51, in Codice penale commentato, a cura di E. Dolcini – G.L. Gatta, Milano, 2015, n. 69.

[15] In questo senso pare potersi leggere, con una cauta limitazione alle forme di coercizione più blande, anche G. Dodaro, Il problema della legittimità giuridica, cit., p. 1502 ss.

[16] Non si intende qui neppure accennare il dibattito circa lo statuto epistemologico della psichiatria e i suoi controversi rapporti con il canone “evidence based” che caratterizza la scientificità della medicina moderna: sul tema si rimanda in prima battuta a C. Cupelli, La colpa dello psichiatra. Rischi e responsabilità tra poteri impeditivi, regole cautelari e linee guida, in questa Rivista, 21 marzo 2016, spec. 14 ss.

[17] Questa la tesi sostenuta da G. Dodaro, Il problema della legittimità giuridica, cit., p. 1495 ss., e ripresa anche nei successivi lavori citati alle note precedenti.

[18] G. Dodaro, Il problema della legittimità giuridica, cit., p. 1490.