ISSN 2039-1676


08 febbraio 2019 |

Le contestazioni "in fatto" delle circostanze aggravanti all’attenzione delle Sezioni Unite (con particolare riferimento al delitto di falso in atto pubblico)

Cass. pen., Sez. V, ud. 4 dicembre 2018 (dep. 23 gennaio 2019), n. 3274, Pres. Vessichelli, Rel. Scarlini, ric. Sorge

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1. Con l’ordinanza in oggetto, la Quinta sezione della Corte di cassazione ha rimesso alle Sezioni Unite un quesito che involge la tematica delle contestazioni “in fatto” delle circostanze aggravanti, e più in particolare i limiti (se ve ne sono) che esse incontrano con riferimento alla circostanza speciale prevista dall’art. 476, co. II, c.p. per il delitto di falso (materiale o ideologico) in atto pubblico commesso da un pubblico ufficiale.

Chiariamo subito i termini della questione.

Ai sensi dell’art. 417, lett. b, c.p.p., il pubblico ministero, nel formulare la richiesta di rinvio a giudizio per un determinato fatto, deve enunciare, «in forma chiara e precisa», anche le circostanze aggravanti che intende contestare, «con l’indicazione dei relativi articoli di legge».

Nonostante il particolare rigore espresso dalla disposizione appena richiamata, da tempo la giurisprudenza ammette le c.d. contestazioni “fattuali” delle circostanze aggravanti, non richiedendo né una specifica indicazione delle disposizioni di riferimento, né «altra affermazione esplicita»[1]. Secondo questo granitico orientamento, necessario, e anche sufficiente, per ritenere validamente contestata una determinata circostanza aggravante è che dalla descrizione del fatto storico addebitato all’imputato sia possibile ricavare gli elementi costitutivi della stessa.

Questa impostazione, come si è anticipato, ha fatto sorgere un contrasto giurisprudenziale relativamente alla circostanza aggravante di cui all’art. 476, co. II, c.p., applicabile allorché il delitto di falso commesso dal pubblico ufficiale abbia ad oggetto un atto pubblico facente fede fino a querela di falso. Nel dettaglio, ci si chiede se, allorché l’atto oggetto del falso rientri fra quelli aventi natura “fidefacente”, la suddetta circostanza possa ritenersi validamente contestata in forza della mera indicazione della tipologia di atto, o se, al contrario, l’imputazione debba contenere un quid pluris, e cioè un’espressione che faccia richiamo proprio al suo particolare valore probatorio.

 

2. Anzitutto può essere utile ripercorrere, in breve, la vicenda processuale.

A. S., persona autorizzata dall’autorità giudiziaria a svolgere la funzione di “presentatore” (i.e. di ausiliario del notaio nella procedura finalizzata alla levata del protesto)[2] ai sensi degli artt. 2 ss. l. 12 giugno 1973, n. 349, era stata incaricata da un notaio a presentare tre titoli cambiari presso il domicilio del debitore, al fine di ottenerne il pagamento[3].

Contravvenendo ai doveri del proprio ufficio, la stessa si era limitata a contattare il debitore telefonicamente[4], al contempo attestando falsamente di essersi recata presso il luogo indicato, e di aver ivi ricevuto il rifiuto di pagamento da parte del debitore.

Così, sulla base di tale falsa attestazione, il notaio aveva provveduto a levare protesto ex art. 51 r.d. 5 dicembre 1933, n. 1669.

Dal momento che l’art. 2 l. 12 giugno 1973, n. 349 equipara il presentatore di cui si serve il notaio al pubblico ufficiale[5], il p.m. formulava richiesta di rinvio a giudizio contestando all’imputata la commissione del delitto di “falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici” (art. 479 c.p.).

All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Lanciano condannava l’imputata per il delitto di falso ideologico aggravato, ex art. 476, co. II, c.p., dalla natura “fidefacente” dell’atto pubblico, nonostante l’imputazione formulata dalla pubblica accusa non contenesse un’espressa contestazione di tale aggravante e si limitasse invece ad indicare la tipologia di atto oggetto del falso.

Investita del gravame, la Corte d’Appello de L’Aquila confermava la qualificazione giuridica data al fatto nella sentenza appellata.

L’imputata proponeva quindi ricorso per cassazione, lamentando, fra l’altro, la violazione del diritto di difesa, tutelato dagli artt. 111 Cost. e 6 §1 e §3 CEDU. In particolare, nella prospettiva difensiva, tale lesione sarebbe stata cagionata proprio dalla (ri)qualificazione giuridica operata dai giudici di merito del fatto descritto nell’imputazione, ritenuta in aperto contrasto con i principi affermati in questa materia dalla giurisprudenza della Corte edu e della stessa Corte di cassazione[6].

 

3. Rilevato che la questione di diritto sottoposta al loro esame è tuttora al centro di un contrasto giurisprudenziale, peraltro alimentato anche da recentissime pronunce, i giudici di legittimità hanno deciso di rimettere il ricorso alle Sezioni Unite ai sensi dell’art. 618 c.p.p., formulando il seguente quesito: «se possa essere ritenuta in sentenza, dal giudice, la fattispecie aggravata del reato di falso in atto pubblico, ai sensi dell’art. 476, comma secondo, cod. pen., qualora la natura fidefacente dell’atto considerato falso non sia stata esplicitamente contestata ed esposta nel capo di imputazione»[7].

Sul tema si rinvengono infatti due contrapposti orientamenti, entrambi espressi dalla Quinta sezione della Corte di cassazione.

 

4. Secondo un primo filone giurisprudenziale, il giudice potrebbe affermare la responsabilità penale per la fattispecie di falso in atto pubblico aggravata ex art. 476, co. II, c.p. soltanto qualora la «natura fidefacente» dell’atto asseritamente falso sia stata «esplicitamente contestata ed esposta nel capo di imputazione», o, quantomeno, sia stata indicata «con sinonimi e formule equivalenti o attraverso il richiamo all’art. 476 c.p., comma 2»[8].

Al di fuori di questi casi, l’imputato potrebbe essere ritenuto responsabile solo della fattispecie delittuosa non aggravata (art. 476, co. I, c.p.), e non vi sarebbe alcuno spazio per una diversa definizione giuridica del fatto da parte del giudice, in quanto tale riqualificazione determinerebbe una «violazione irrimediabile del diritto di difesa»[9]. Conclusione, questa, cui si perverrebbe considerando che la Corte edu, in particolare nella nota sentenza Drassich c. Italia dell’11 dicembre 2007, ha ricordato come l’imputato abbia diritto ad essere tempestivamente e dettagliatamente informato non solo dei fatti materiali che gli vengono addebitati, ma anche della qualificazione giuridica ad essi attribuiti.

Stando a questa ricostruzione, dunque, i margini per una contestazione “in fatto” dell’aggravante de qua – seppur non azzerati – risulterebbero particolarmente ristretti. Non sarebbe infatti sufficiente la mera indicazione dell’atto oggetto del reato, quand’anche esso fosse riconducibile al novero di quelli facenti fede fino a querela di falso, essendo in ogni caso necessario quantomeno «l’uso di formule linguistiche chiaramente evocative della peculiare efficacia dell’atto»[10].

Peraltro, secondo una delle pronunce che si inserisce in tale filone, tale limite alla contestazione “in fatto” dell’aggravante in analisi deriverebbe proprio dalla sua natura, in quanto circostanza delineata dal legislatore sulla base di una «qualificazione giuridica» (i.e. l’efficacia probatoria dell’atto oggetto del falso). Al contrario, stando a questa giurisprudenza, «il perimetro all’interno del quale può collocarsi una valida contestazione in fatto» risulta più ampio quando si tratti di circostanze delineate «dalla norma sulla base di elementi fattuali»[11]. In tal caso, infatti, la mera indicazione di questi ultimi nell’imputazione consentirebbe al giudice di riconoscere la sussistenza della circostanza stessa, senza che si renda necessario l’uso di particolari espressioni implicanti un rinvio alla disposizione di riferimento.

 

5. Diversamente, al metro del secondo orientamento, l’aggravante di cui all’art. 476, co. II, c.p. risulterebbe correttamente contestata “in fatto” ogni qualvolta la natura fidefacente possa inferirsi dalla «tipologia dell’atto»[12] indicato nell’imputazione quale oggetto del falso. In altre parole, tale indicazione consentirebbe di per sé al giudice di pronunciare sentenza di condanna per la fattispecie aggravata del delitto in esame, senza incorrere in alcun modo in una violazione del principio di correlazione tra imputazione e sentenza (art. 521 c.p.p.).

A sostegno di tale ricostruzione si richiama quella consolidata giurisprudenza – ritenuta in linea con i dicta provenienti da Strasburgo – secondo cui, da un lato, la contestazione di una circostanza aggravante non richiede né l’indicazione della relativa disposizione di legge, né «alcuna indispensabile formula specifica espressa o particolare enunciazione letterale», e, dall’altro, il diritto di difesa dell’imputato può dirsi rispettato ogni qualvolta egli «sia posto nelle condizioni di espletare pienamente la propria difesa sugli elementi di fatto integranti l’aggravante»[13]. Sicché l’indicazione, nell’imputazione, di un atto avente carattere fidefacente quale oggetto del reato, consentirebbe all’imputato di confrontarsi con gli elementi integranti l’aggravante di cui all’art. 476, co. II, c.p. e di comprendere che essa è inclusa nella contestazione mossagli. Conseguentemente, la qualificazione operata dal giudice al momento della decisione non potrebbe essere vista quale “atto a sorpresa”[14].

 

6. Ripercorsi i termini del contrasto appena illustrato, i giudici di legittimità concludono richiamando alcune disposizioni riguardanti il ruolo rivestito dall’imputata, nonché l’efficacia probatoria dell’atto dalla stessa posta in essere.

Quanto al primo profilo, viene in rilievo l’art. 2 l. 12 giugno 1973, n. 349 che, come già detto (v. supra §2), equipara il presentatore di cambiali delegato dal notaio al pubblico ufficiale.

Quanto al secondo, invece, la Corte osserva che, ai sensi dell’art. 4 della medesima legge, l’atto di protesto «fa piena prova, ai sensi dell’articolo 2700 del codice civile» anche dei «fatti che il presentatore riferisce avvenuti in sua presenza o da lui compiuti» (e non è un caso che esso debba essere sottoscritto anche dal presentatore).

Tali coordinate normative hanno indotto i giudici di legittimità a domandarsi se all’imputata non dovesse apparire «evidente»[15] la natura “fidefacente” dell’atto oggetto del falso, proprio alla luce di quelle norme che era tenuta a conoscere in considerazione della propria qualifica.

 

***

 

7. Anzitutto, ci sembra necessario prendere le mosse da una precisazione. Nelle pronunce che alimentano il contrasto giurisprudenziale in esame, numerosi sono i richiami alla giurisprudenza della Corte di Strasburgo e, più in particolare, ai principi affermati nella nota sentenza Drassich c. Italia[16]. Tuttavia, diversamente da quanto tali richiami potrebbero indurre a pensare, il contrasto giurisprudenziale in esame ha solo indirettamente a che fare con l’estensione del potere del giudice – ai sensi dell’art. 521, co. I, c.p.p. – di dare al fatto una definizione giuridica diversa da quella enunciata nell’imputazione, potere che, soprattutto a seguito degli impulsi provenienti da Strasburgo, è al centro di articolate riflessioni dottrinali[17]. La riqualificazione giuridica del fatto ex art. 521, co. I, c.p.p. – istituto espressione del principio jura novit curia – entra infatti in gioco allorché il giudice, accertato che il fatto storico sia identico a quello contestato, ritenga che il titolo di reato sia diverso da quello indicato nell’imputazione. Al contrario, nessuno spazio di operatività possiede tale disposizione allorché il p.m. abbia correttamente individuato il titolo di reato corrispondente al fatto descritto nell’imputazione, omettendo però di contestare una circostanza aggravante. Del resto, l’art. 417 c.p.p. impone che la richiesta di rinvio a giudizio contenga anche l’enunciazione delle circostanze aggravanti, mentre l’art. 517 c.p.p. aggiunge che queste, ove emergano nel corso dell’istruzione dibattimentale, debbano essere oggetto di contestazione “suppletiva”. Al giudice, dunque, è precluso affermare la sussistenza di una circostanza aggravante non contestata dal p.m., e l’inosservanza di tale preclusione determina la nullità della sentenza «nella parte relativa […] alla circostanza aggravante» (art. 522, co. II, c.p.p.).

Tanto premesso, si tratta allora di comprendere quando una circostanza aggravante possa ritenersi validamente contestata all’interno dell’imputazione.

 

8. Come si è già detto, da tempo la giurisprudenza ritiene sufficiente una “contestazione fattuale” delle circostanze aggravanti (v. supra §1), ricorrente allorché i relativi elementi costitutivi siano ricavabili dalla descrizione del fatto contenuto nell’imputazione.

A titolo esemplificativo, può essere richiamato un caso in cui la Cassazione ha ritenuto validamente contestata “in fatto” la circostanza aggravante dell’abuso di prestazione d’opera (art. 61, n. 11, c.p.) a fronte di un’imputazione che, nel descrivere la condotta di un soggetto accusato di appropriazione indebita, faceva riferimento ai suoi plurimi rifiuti di restituire l’attrezzatura di lavoro al titolare della ditta che lo aveva licenziato[18]. In un’altra occasione, si è affermato che l’indicazione dell’identità della vittima nella persona del padre dell’imputato integrasse una valida contestazione dell’aggravante di cui all’art. 576, n. 1, c.p. (omicidio commesso nei confronti dell’ascendente)[19].

Questa impostazione giurisprudenziale, per quanto granitica, detta una regula juris dai contorni piuttosto incerti, e che, a nostro avviso, necessita di attente riflessioni “ritagliate” su singole fattispecie e, dunque, insuscettibili di essere generalizzate. Proprio verso questa direzione “atomistica” sembra muoversi l’ordinanza qui commentata, che, come si è detto, concerne unicamente la circostanza aggravante di cui all’art. 476, co. II, c.p.

 

9. Volgendo lo sguardo agli argomenti proposti dai due contrapposti orientamenti giurisprudenziali sopra richiamati, la sensazione è che l’impostazione più permissiva – la quale ritiene sufficiente la mera indicazione, nel capo di imputazione, di un atto che faccia piena prova fino a querela di falso (cfr. §5) – sia difficilmente condivisibile[20]. E ciò, per la semplice ragione che quella dell’atto pubblico fidefacente è una categoria tutt’altro che ben definita.

È pacifico che la nozione di “atto pubblico” accolta dal codice penale sia diversa, e più ampia, di quella contenuta nel codice civile[21]. E in effetti, l’art. 2700 c.c. riconosce “pubblica fede” a tutti gli atti pubblici, mentre l’art. 476 c.p., rubricato “falsità materiale commessa dal pubblico ufficiale in atti pubblici”, prevede che la natura fidefacente dell’atto integri una circostanza aggravante, e non un elemento costitutivo del reato. Il nostro sistema penale, quindi, distingue tra “meriatti pubblici e atti pubblici fidefacenti, e questa seconda categoria coincide con quella di “atto pubblicodelineata dall’art. 2699 c.c.[22]

Tale coincidenza, tuttavia, non riesce da sola a garantire un’agevole individuazione di quali siano gli atti pubblici fidefacenti, essendo la definizione di “atto pubblico” ex art. 2699 c.c. connotata da una certa ampiezza («l’atto pubblico è il documento redatto, con le richieste formalità, da un notaio o da altro pubblico ufficiale autorizzato ad attribuirgli pubblica fede nel luogo dove l’atto è formato»).

Ed infatti, in giurisprudenza si registrano ricostruzioni differenti in ordine all’individuazione dei caratteri discretivi dell’atto pubblico fidefacente. Più nel dettaglio, ad un primo orientamento che si accontenta della «diretta percezione di determinati fatti o attività da parte del pubblico ufficiale»[23], e che secondo parte della dottrina finisce per far coincidere la categoria di atto pubblico “fidefacente” con quella di “mero” atto pubblico[24], se ne contrappone un altro che, oltre alla percezione da parte del pubblico ufficiale, richiede la presenza di un quid pluris, individuato ora nella destinazione (ab origine) probatoria dell’atto[25], ora nell’attribuzione del potere fidefacente da parte di una norma[26].

Che la natura fidefacente di un atto pubblico non sia sempre individuabile ictu oculi, è confermato dal fatto che non sono mancati contrasti giurisprudenziali sul valore probatorio da attribuire a singoli atti, quali, ad esempio, la “relata” di notifica dell’ufficiale giudiziario[27], o il libretto degli esami universitari[28].

Peraltro, proprio una delle pronunce che più recentemente ha accolto l’orientamento che ammette con maggiore ampiezza la contestazione “in fatto”[29], ha qualificato quale atto pubblico fidefacente il bilancio comunale (consuntivo e preventivo), mentre non mancano recenti pronunce di merito che si sono espresse in senso contrario[30].

A fronte di un quadro così frastagliato, sembra davvero arduo poter affermare che la mera indicazione, all’interno dell’imputazione, del nomen dell’atto asseritamente falso basti ad integrare quell’«enunciazione, in forma chiara e precisa», che l’art. 417, co. I, lett. b) c.p.p. pretende con riferimento non solo al fatto, ma anche a tutte le circostanze aggravanti.

Ci sembra, insomma, che la mera indicazione della tipologia di atto sia davvero troppo poco se si vuole seriamente garantire all’imputato il diritto di conoscere la qualificazione giuridica dell’accusa rivoltagli e di poter approntare una difesa ad essa adeguata. Spesso, come si è detto, la sussunzione di un determinato atto nella categoria degli atti pubblici fidefacenti è frutto di argomentazioni che non sempre mettono d’accordo la comunità degli operatori del diritto, sicché neppure la presenza di una difesa “tecnica” può dirsi ovviare al problema.

Deve peraltro osservarsi che tali incertezze non compromettono soltanto il contraddittorio in ordine alla sussistenza della circostanza aggravante, ma finiscono per influenzare – inquinandole – le valutazioni che l’imputato compie al momento di importanti scelte, quale, ad esempio, quella di chiedere il giudizio abbreviato, spesso adottata in ragione dell’entità della pena in astratto irrogabile (e si badi che l’aggravante di cui all’art. 476, co. II, c.p. determina un inasprimento del massimo edittale di ben 4 anni di reclusione).

 

10. Se il primo fra gli orientamenti esaminati (cfr. supra §4) si lascia senz’altro preferire, ci sembra che qualche considerazione possa essere spesa anche nei confronti di alcuni argomenti offerti da una recente pronuncia che si è collocata in quel solco[31].

Come si è detto, la Quinta sezione della Corte di cassazione – a sostegno della propria posizione – ha recentemente proposto un distinguo, da cui dipenderebbe l’estensione della possibilità di ammettere una contestazione “in fatto”.

Da una parte vi sarebbero le circostanze aggravanti delineate dal legislatore sulla base di “elementi fattuali”, rispetto alle quali sarebbe possibile tollerare ampi spazi per riconoscere validità alle contestazioni “in fatto”.

Dall’altra, invece, si avrebbero le circostanze aggravanti delineate con riferimento ad una “qualificazione giuridica”, come, appunto, la natura fidefacente di un atto pubblico. Rispetto a queste, «il perimetro all’interno del quale può ritenersi valida la contestazione “in fatto”» sarebbe «più circoscritto», dovendosi richiedere – se non «la specifica indicazione della disposizione legislativa» – quantomeno l’uso di «formule linguistiche» evocative della circostanza[32].

Tale ricostruzione non ci sembra del tutto convincente, sebbene risulti apprezzabile lo sforzo interpretativo diretto a porre delle restrizioni ad una pratica – quella, appunto, delle contestazioni “in fatto” – già di per sé in tensione con il diritto di difesa.

Se la ratio sottesa a questa distinzione mira a tutelare il diritto di difesa in quelle situazioni in cui la contestazione della circostanza aggravante risulta meno facilmente evincibile dalla descrizione del fatto, si potrebbe osservare che, in realtà, non sempre le aggravanti agganciate ad “elementi fattuali” si prestano ad essere più agevolmente colte rispetto a quelle agganciate a “qualificazioni giuridiche”.

L’impostazione seguita dai giudici di legittimità può forse condividersi in relazione, ad esempio, all’aggravante prevista dall’art. 112, co. I, n. 1 c.p. per il caso in cui le persone che concorrono nel reato siano più di cinque, che si potrebbe ritenere validamente contestata “in fatto” allorché l’addebito sia mosso, all’interno dello stesso capo d’imputazione, nei confronti di dieci soggetti. O, ancora, si potrebbe fare l’esempio della circostanza aggravante prevista per chi commette il fatto durante il periodo in cui era ammesso a una misura alternativa alla detenzione (art. 61, co. I, n. 11-quater c.p.), che potrebbe ritenersi validamente contestata ove nel testo dell’imputazione si dia conto dello status penitenziario dell’imputato.

Le cose cambiano drasticamente, però, se si prendono in considerazione circostanze aggravanti quali quella consistente nell’uso del mezzo fraudolento nel delitto di furto (art. 625, co. I, n. 2, c.p.)[33], o nell’aver agito con crudeltà verso le persone (art. 61, n. 4 c.p.), o per motivi abietti o futili (art. 61, n. 1, c.p.)[34]. In questi, e in molti altri casi, l’accertamento della sussistenza dell’aggravante non dipende, per così dire, da un “dato oggettivo”, in grado di emergere da un mero raffronto, cioè da un giudizio di corrispondenza, tra la descrizione del fatto contenuta nell’imputazione e la disposizione di riferimento. Al contrario, esso richiede una – alle volte delicata – operazione di sussunzione di un determinato fatto entro categorie connotate da una certa opacità. Operazione, questa, in grado di influenzare non solo le argomentazioni delle parti, ma, in taluni casi, anche lo stesso esercizio del diritto alla prova.

Con ciò si vuole semplicemente dire che, se le Sezioni Unite intendessero cogliere quest’occasione per avviare una riflessione che fissi degli argini alle contestazioni “in fatto” delle circostanze aggravanti, al fine di incanalarle verso uno statuto maggiormente rispettoso del diritto di difesa, essa risulterebbe probabilmente incompleta se si decidesse di trascurare tout court le circostanze agganciate ad elementi “fattuali”.

 


[1] Cfr., ex plurimis, Cass. pen., Sez. II, 10 gennaio 2013, n. 14651.

[2] Ai sensi dell’art. 2 l. 12 giugno 1973, n. 349, «il notaio e l’ufficiale giudiziario sotto la propria responsabilità possono provvedere alla presentazione del titolo, ai sensi dell’articolo 44 delle norme approvate con il regio decreto 14 dicembre 1933, n. 1669, e dell’articolo 32 delle disposizioni approvate con il regio decreto 21 dicembre 1933, n. 1736, a mezzo di presentatori». I requisiti necessari per ottenere la nomina sono elencati all’art. 3 l. 12 giugno 1973, n. 349.

[3] Ai sensi dell’art. 44 r.d. 5 dicembre 1933, n. 1669, la cambiale deve essere infatti «presentata per il pagamento nel luogo e nell’indirizzo indicato sul titolo».

[4] Cfr. §1 del “ritenuto in fatto”.

[5] Testualmente, l’art. 2 l. 12 giugno 1973, n. 349 prevede che il presentatore del notaio sia equiparato al pubblico ufficiale «ai sensi e per gli effetti delle disposizioni del titolo II del libro II del codice penale». Alla luce di tale dato normativo, la difesa dell’imputata ha sostenuto (cfr. §2-3 del “ritenuto in fatto”) che la stessa non avrebbe potuto essere chiamata a rispondere del delitto di “falsità ideologica commessa dal pubblico ufficiale” (contenuto nel titolo VII, e non nel titolo II, del libro II c.p.), in quanto la disposizione sopra richiamata si limiterebbe a fissare un’equiparazione del presentatore del notaio al pubblico ufficiale in relazione ai soli delitti contro la pubblica amministrazione. Tuttavia, i giudici di legittimità osservano che il rinvio a tutte le disposizioni del titolo II del libro II c.p. ricomprende anche l’art. 357 c.p., il quale, in generale, detta la nozione di pubblico ufficiale. E ciò farebbe sì che il presentatore possa essere ritenuto responsabile di qualsiasi reato proprio che richieda la qualifica di pubblico ufficiale.

[6] Cfr. §2.2 del “ritenuto in fatto”.

[7] Cfr. §1 del “considerato in diritto”.

[8] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 18 aprile 2018, n. 30435, §3 dei "motivi della decisione". Fanno capo a questo orientamento anche Cass. pen., Sez. V, 13 febbraio 2014, n. 12213; Cass. pen., Sez. III, 8 ottobre 2014, n. 6809; Cass. pen., Sez. V, 5 febbraio 2016, n. 8359.

[9] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 18 aprile 2018, n. 30435, §3 dei “motivi della decisione”.

[10] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 18 aprile 2018, n. 30435, §3 dei "motivi della decisione".

[11] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 18 aprile 2018, n. 30435, §3 dei “motivi della decisione”.

[12] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 4 aprile 2018, n. 33843, §2.2 dei “motivi della decisione”.

[13] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 4 aprile 2018, n. 33843, §2.2 dei “motivi della decisione”. In termini v. anche Cass. pen., Sez. V, 4 aprile 2018, n. 23609.

[14] L’espressione si rinviene in Cass. pen., Sez. Un., 26 giugno 2015, n. 31617, richiamata dalle pronunce che si inscrivono in questo filone in quanto tale pronuncia sottolinea la natura “non formalistica” degli orientamenti espressi in questa materia dalla Corte edu.

[15] Cfr. §5 dell’ordinanza.

[16] Cfr. Corte edu, sez. II, sent. 11 dicembre 2007, Drassich c. Italia, che aveva condannato il nostro Stato per l’inosservanza dell’art. 6 par. 1 e 3 lett. a e b Cedu, in quanto la Corte di cassazione aveva riqualificato “a sorpresa” l’originaria contestazione del reato di “corruzione” (art. 319 c.p.) in “corruzione in atti giudiziari” (art. 319-ter c.p.). Recentemente, tornando proprio sul caso Drassich, la Corte di Strasburgo ha fatto chiarezza su quale tipologia di contraddittorio debba essere riconosciuta all’imputato nel caso in cui la riqualificazione giuridica del fatto avvenga, per la prima volta, in Cassazione, cfr. Corte edu, sez. I, sent. 22 febbraio 2018, Drassich c. Italia (n. 2), pubblicata in questa Rivista il 13 marzo 2018, con nota di F. Zacché, Brevi osservazioni su Drassich (n. 2) e diritto alla prova.

[17] Per una puntuale ricostruzione del dibattito cfr. F. Cassibba, L’imputazione e le sue vicende, in Trattato di procedura penale, G. Ubertis – G. P. Voena (diretto da), Giuffrè, 2016, p. 246 ss.

[18] Cfr. Cass. pen., Sez. II, 10 gennaio 2013, n. 14651.

[19] Cass. pen. Sez. VI, 15 dicembre 2016, n. 4461.

[20] Per una posizione favorevole a tale orientamento si veda A. Trinci, La contestazione “in fatto” delle circostanze aggravanti, in Ilpenalista.it, 15 giugno 2018.

[21] Per un riferimento giurisprudenziale cfr., ex plurimis, Cass. pen., Sez. V, 5 dicembre 2008, n. 11944.

[22] Cfr. R. Bartoli, Le falsità documentali, in Reati contro la fede pubblica, M. Pelissero – R. Bartoli (a cura di), Giappichelli, Torino, 2011, p. 115.

[23] Per un riferimento giurisprudenziale cfr. Cass. pen., Sez. V, 5 dicembre 2008, n. 11944, secondo cui l’attestazione posta in essere dagli imputati costituiva atto pubblico fidefacente in considerazione del solo fatto che era «stato attestato il compimento da parte del pubblico ufficiale di una specifica attività».

[24] Cfr. R. Bartoli, Le falsità documentali, cit., p. 117: «quindi la particolare efficacia probatoria non può derivare dalla mera attività di percezione, ma da un quid pluris che non può che provenire da una qualificazione dell’ordinamento».

[25] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 16 gennaio 2007, n. 7921, ove si legge: «secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, ciò che caratterizza l’atto pubblico fidefaciente […] è, oltre all’attestazione di fatti appartenenti all’attività del pubblico ufficiale o caduti sotto la sua percezione, la circostanza che esso sia destinato ab initio alla prova…».

[26] Cfr. R. Bartoli, Le falsità documentali, cit., p. 118. In questo senso si esprime Cass. pen., Sez. V, 24 novembre 2003, n. 2569: «la natura e il valore probatorio dell’atto vanno individuati con riferimento alle norme che lo regolano specificamente più che a quelle che regolano e qualificano complessivamente l’attività delle persone cui il compimento di tale atto è demandato».

[27] La giurisprudenza più recente tende a riconoscere la natura fidefacente di tale atto: cfr., ad esempio, Cass. pen., Sez. IV, 23 gennaio 2007, n. 10113, che, dopo aver richiamato l’orientamento contrario, afferma che «la parte che vuole addurre la falsità delle modalità di notificazione attestate dall’ufficiale notificatore non può provarla se non dimostrando rigorosamente che il pubblico ufficiale è incorso nel reato di cui all'art. 479 c.p., giacché, se si intende contestare il contenuto della relazione di notifica, attribuendone non conformità al vero, l’unico rimedio possibile è la querela di falso, perchè si è in presenza di un’attestazione operata dal pubblico ufficiale».

[28] La natura di atto pubblico fidefacente del libretto degli esami universitari è stata affermata da Cass. pen., Sez. V, 8 gennaio 1999, n. 2993. Al contrario, secondo Cass. pen. Sez. V, 23 giugno 2004, n. 31533, il libretto universitario ha, «nella parte riguardante gli esami sostenuti dagli studenti ed i voti riportati», natura di “certificato” ex art. 477 c.p., e non di “atto pubblico” ex art. 476 c.p., in quanto rappresenta una «sintesi derivata e secondaria» dei verbali redatti dalle commissioni esaminatrici.

[29] Cass. Pen., Sez. V, 4 aprile 2018, n. 33843, già richiamata sub nota 12.

[30] Cfr. Trib. Catania, ud. 10 ottobre 2011, dep. 25 novembre 2011, R.G.Trib. 748/10, R.G.N.R. 1331/08, sent. 2914/11, inedita, pag. 72: nel condannare gli imputati ex art. 479 c.p. per aver attestato il falso nel rendiconto di gestione, i giudici catanesi irrogavano una pena di anni 2, definita «ben superiore al minimo edittale», così escludendo che si trattasse della fattispecie aggravata di cui all’art. 476, co. II, c.p. (che prevede un minimo edittale di anni 3 di reclusione). Tale qualificazione giuridica è stata poi confermata dalla Corte d’appello di Catania, ud. 7 aprile 2014, dep. 5 luglio 2014, R.G. 1365/12, R.G.N.R. 1331/08, sent. 918/14, inedita, che, a pag. 27 della sentenza, quantificava la «pena base» in 2 anni di reclusione.

[31] Cass. pen., Sez. V, 18 aprile 2018, n. 30435.

[32] Cfr. Cass. pen., Sez. V, 18 aprile 2018, n. 30435, §3.

[33] Per una pronuncia che ha ritenuto validamente contestata questa aggravante sulla base dell’enunciazione “in fatto” cfr. Cass. pen., Sez. VI, 28 settembre 2012, n. 40283.

[34] Sul punto si rinvia a F. Basile, L’enorme potere delle circostanze sul reato; l’enorme potere dei giudici sulle circostanze, in Riv. it. dir. proc. pen., fasc. 4, 2015, p. 1743 ss., il quale, al §2.1, osserva: «una tossica combinazione tra indeterminatezza normativa e discrezionalità giudiziale si annida, altresì, in quelle tante circostanze dai contorni imprecisi a causa dell’impiego di clausole generali o concetti normativi extragiuridici, che consentono (o forse sarebbe meglio dire: impongono) al giudice un’opera di valutazione e, quindi, di etero-integrazione della fattispecie circostanziale, ampiamente affidata alla sua intuizione e sensibilità personale. In questo gruppo di circostanze (talora chiamate in dottrina semi-indefinite) rientrano […] anche molte aggravanti: è il caso, ad esempio, dei motivi “abietti o futili” di cui all'art. 61 n. 1 […]».