26 marzo 2019 |
Estensione del regime ostativo ex art. 4 bis ord. penit. ai delitti contro la p.a.: la Cassazione apre una breccia nell'orientamento consolidato, favorevole all'applicazione retroattiva
Cass. Sez. VI, 14 marzo 2019, n. 12541, Pres. Fidelbo, Rel. Bassi, ric. Ferraresi
1. Come era facile prevedere, l’inserimento della corruzione e di alcuni altri delitti contro la pubblica amministrazione tra i reati “ostativi” alla concessione dei benefici penitenziari, ex art. 4 bis ord. penit. – accanto, tra gli altri, ai reati di criminalità organizzata – ha finito per rappresentare la più controversa tra le novità introdotte dalla c.d. legge spazza-corrotti (l. 9 gennaio 2019, n. 3). L’impatto di questa riforma sul sistema è infatti tanto immediato quanto dirompente: per effetto del richiamo dell’art. 4 bis ord. penit. nell’art. 656, co. 9 c.p.p., infatti, non è più possibile per il pubblico ministero sospendere l’esecuzione della pena detentiva non superiore a quattro anni consentendo così al condannato di chiedere, dallo stato di libertà, una misura alternativa alla detenzione. Il che comporta l’ingresso in carcere e la prospettiva, sempre che la pena da scontare (anche residua) non sia superiore a quattro anni, di chiedere una misura alternativa rendendosi disponibili a collaborare con la giustizia, ove possibile, ai sensi dell’art. 323 bis, co. 2 c.p. (cfr. l’art. 4 bis, co. 1 ord. penit.).
E’ una significativa novità che riguarda pacificamente i fatti commessi dopo il 31 gennaio 2019, data di entrata in vigore della riforma. Come è stato segnalato problematicamente da contributi pubblicati su questa Rivista – di Vittorio Manes, di Luca Masera e di Domenico Pulitanò – il nuovo regime ostativo dei delitti contro la p.a. riguarda tuttavia oggi anche i fatti antecedentemente commessi: ciò in quanto un consolidato orientamento giurisprudenziale, avallato anche dalle Sezioni Unite della Cassazione, nel 2006 (sent. n. 24561), esclude che il principio di irretroattività riguardi le modifiche peggiorative delle norme in materia di esecuzione penale. Quelle norme avrebbero natura processuale, non sostanziale, e rispetto ad esse opererebbe il principio tempus regit actum. Secondo il diritto vivente, l’inclusione di un reato tra quelli ostativi ex art. 4 bis ord. penit. (la violenza sessuale, nel caso oggetto della citata sentenza delle Sezioni Unite) si riverbera sulle pene in esecuzione, anche se relative a fatti antecedentemente commessi.
2. In occasione di precedenti interventi, volti a inserire nuovi reati tra quelli “ostativi” ex art. 4 bis ord. penit., il legislatore ha talora espressamente escluso, con una disposizione transitoria, l’applicabilità del regime peggiorativo in relazione ai fatti commessi prima dell’entrata in vigore della legge di riforma. Fu così ad esempio nel 2002 (art. 4 l. 23 dicembre 2002, n. 279), per i reati di cui agli artt. 600, 601 e 602 c.p. Una analoga disposizione transitoria non è però presente nella legge spazza-corrotti, il cui regime intertemporale, riguardo al profilo qui in esame, sembra allora inesorabilmente destinato ad essere deciso dal diritto vivente nel senso dell’applicazione retroattiva, consentita dall’operare del principio tempus regit actum.
Ciò è vero a meno che la giurisprudenza non operi un radicale mutamento del proprio orientamento, suggerito anche e proprio dagli autorevoli contributi pubblicati sulle pagine di questa Rivista. Non mi soffermerò molto sulle persuasive ragioni che, a mio avviso, suggeriscono di estendere la ratio garantista del principio di irretroattività della legge penale alle modifiche relative alle misure alternative alla detenzione. Rinvio in proposito a quei contributi, sottolineando come anche a mio avviso modifiche normative comportano l’ingresso in carcere e limitano l’accesso a misure alternative riguardano nient’altro che la pena – la qualità/tipologia della pena conseguente alla condanna – e, pertanto, devono ricadere nell’ambito del principio di irretroattività. Modifiche come quelle apportate all’art. 4 bis ord. penit. dalla legge spazza-corrotti non attengono, genericamente, ad aspetti dell’esecuzione penale (ad es., al numero dei colloqui con i parenti o alla disciplina dei permessi premio): decidono i margini di compressione della libertà personale; lo star ‘fuori’ o ‘dentro’ il carcere. Affermare la natura processuale di quelle norme – appellarsi a un formalismo, mettendo tra parentesi la sostanza – calpesta la ratio di garanzia del principio di irretroattività, cioè la libertà di compiere libere scelte d’azione (Corte cost. n. 364/1988) potendo conoscere e calcolare, prima di agire, le conseguenze della propria condotta.
3. La vicenda oggetto della sentenza della Cassazione qui pubblicata in allegato è in tal senso davvero emblematica. Prima dell’entrata in vigore della spazza-corrotti, il ricorrente, imputato per delitti di corruzione, patteggia la pena di 2 anni, nove mesi e dieci giorni di reclusione; una pena che, essendo superiore al limite di due anni non può essere condizionalmente sospesa, ex art. 163 c.p., ma che nondimeno, ai sensi dell’art. 656, co. 5 c.p.p., consente di evitare l’ingresso in carcere attraverso la sospensione dell’ordine di esecuzione e la possibilità di chiedere, dallo stato di libertà, una misura alternativa alla detenzione. Sopravviene tuttavia la legge spazza-corrotti, che per quanto si è detto estende il catalogo dei reati ostativi alla corruzione e preclude la sospensione dell’ordine di esecuzione della pena detentiva. Morale: chi ha patteggiato la pena, confidando di non entrare in carcere – facendo cioè affidamento sulla possibilità di chiedere e ottenere da libero una misura alternativa alla detenzione – si trova inaspettatamente con la sacca sulle spalle, pronto a varcare la soglia del carcere.
Sembra davvero arduo non riconoscere che un simile esito sia contrario al principio di irretroattività della legge penale sfavorevole, di cui agli artt. 25 co. 2 Cost. e 7 Cedu. La sentenza qui segnalata ha il coraggio e il merito di farlo, aprendo una breccia nell’orientamento consolidato, di segno opposto. L’occasione è data da una eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 4 bis ord. penit., come riformato dalla spazza-corrotti, sollevata dalla difesa attraverso dei motivi nuovi ex art. 611 c.p.p. sul presupposto, errato a fronte dell’art. 665 c.p.p., che la Corte di Cassazione sia giudice dell’esecuzione rispetto al provvedimento impugnato (per illegalità della pena, sotto il diverso profilo dell’applicazione della riparazione pecuniaria ex art. 322 quater c.p., che la S.C. ha ritenuto preclusa in sede di patteggiamento, annullando di conseguenza la sentenza impugnata, limitatamente a questa previsione). La Cassazione tuttavia non si è limitata ad affermare l’irrilevanza della questione sollevata, avendola ritenuta non manifestamente infondata e riproponibile davanti al giudice dell’esecuzione.
4. Dopo avere richiamato la giurisprudenza della Corte EDU sulla ‘materia penale’ – l’approccio sostanzialistico e non formalistico – la Cassazione fa riferimento alla giurisprudenza di Strasburgo (Del Rio Prada c. Spagna, 2013): “Significativa… è la pronuncia resa nel caso Del Rio Prada contro Spagna (del 21 ottobre 2013), là dove la Grande Camera della Corte EDU, nel ravvisare una violazione dell'art. 7 della Convenzione, ha riconosciuto rilevanza anche al mutamento giurisprudenziale in tema di un istituto riportabile alla liberazione anticipata prevista dal nostro ordinamento in quanto suscettibile di comportare effetti peggiorativi, giungendo dunque ad affermare che, ai fini del rispetto del ‘principio dell'affidamento’ del consociato circa la ‘prevedibilità della sanzione penale’, occorre avere riguardo non solo alla pena irrogata, ma anche alla sua esecuzione (sebbene - in quel caso - l'istituto avesse diretto riverbero sulla durata della pena da scontare)”. Alla luce di tale approdo della giurisprudenza di Strasburgo – prosegue la S.C. – “non parrebbe manifestamente infondata la prospettazione difensiva secondo la quale l'avere il legislatore cambiato in itinere le ‘carte in tavola’ senza prevedere alcuna norma transitoria presenti tratti di dubbia conformità con l'art. 7 CEDU e, quindi, con l'art. 117 Cost., là dove si traduce, per il [ricorrente], nel passaggio – ‘a sorpresa’ e dunque non prevedibile - da una sanzione patteggiata ‘senza assaggio di pena’ ad una sanzione con necessaria incarcerazione, giusta il già rilevato operare del combinato disposto degli artt. 656, comma 9 lett. a), cod. proc. pen. e 4-bis ord. penit.”.
Senonché, questa la conclusione, “la questione di incostituzionalità prospettata afferisce non alla sentenza di patteggiamento oggetto del presente ricorso, ma all'esecuzione della pena applicata con la stessa sentenza, dunque ad uno snodo processuale diverso nonché logicamente e temporalmente successivo, di talché ai fini della decisione di questa Corte non rileva, potendo se del caso essere riproposta in sede di incidente di esecuzione”.
5. Dopo un primo segnale da parte della giurisprudenza di merito (G.i.p. di Como, in questa Rivista, con nota di L. Masera), la pronuncia della Cassazione, qui segnalata, sembra aprire, suggerendola, la via di un revirement giurisprudenziale, che potrà (forse dovrà) passare attraverso la rimessione della questione alla Corte costituzionale, se (come ad oggi sembra) la via dell'interpetazione conforme a Costituzione dovesse risultare preclusa dal diritto vivente di segno opposto.
Sul perché i tempi per un simile mutamento giurisprudenziale sembrino maturi solo oggi, e non lo siano stati in passato, in occasione di precedenti allargamenti del catalogo del 4 bis, è lecito interrogarsi, per onestà intellettuale. A pensar male viene da porre l’accento sul tipo criminologico dei destinatari dell’ultima estensione del catalogo dei reati ostativi: i colletti bianchi, che hanno più facile accesso a difese di elevata qualità e che sono destinatari di una stigmatizzazione sociale di gran lunga inferiore rispetto a mafiosi, terroristi e stupratori. A pensar bene, è la rinnovata sensibilità della giurisprudenza per l’estensione e la pervasività dei principi costituzionali e convenzionali, in materia penale, a impedire il protrarsi di un orientamento tanto consolidato quanto non più al passo con i tempi.