ISSN 2039-1676


25 marzo 2019 |

Le motivazioni delle sentenze del Tribunale e della Corte d’Appello di Milano nel processo per corruzione nei confronti di Roberto Formigoni

Trib. Milano, Sez. X, sent. 22 dicembre 2016 (dep. 19 giugno 2017), n. 13751, Pres. La Rocca, giud. Minerva, Formentin, imp. Formigoni e altri; Corte App. Milano, Sez. IV, sent. 19 settembre 2018 (dep. 18 ottobre 2018), n. 6342, Pres. Caroselli, Rel. Anelli, imp. Formigoni e altri

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1. Dopo la sentenza della Corte di cassazione, pronunciata lo scorso 21 febbraio, che ha condannato definitivamente per corruzione Roberto Formigoni, la vicenda giudiziaria dell’ex Presidente della Regione Lombardia ha avuto grande risalto sui media. L'ingresso in carcere di un esponente politico di tale rilievo è d'altra parte, nella storia giudiziaria italiana, un fatto non comune, destinato a lasciare una significativa traccia nel capitolo dei rapporti tra corruzione e politica. In attesa del deposito delle motivazioni della sentenza della Cassazione, proponiamo di seguito una sintesi delle sentenze di merito, pronunciate dal Tribunale e dalla Corte d’Appello di Milano, rispettivamente il 22 dicembre 2016 e il 19 settembre 2018. Tali sentenze, che constano di un cospicuo numero di pagine, presentano infatti plurimi profili di interesse, che ci proponiamo qui di evidenziare per comprendere meglio i fatti e le questioni giuridiche sottese.

Il processo, che riguarda episodi di mala gestio del sistema sanitario di Regione Lombardia, ha coinvolto molte persone, tra privati e pubblici funzionari, imputate per svariati reati.  Di seguito ci soffermeremo, tuttavia, sulla sola posizione di Roberto Formigoni che, da un lato, è stato assolto dal delitto di associazione a delinquere (art. 416 c.p.); dall’altro lato, è stato condannato per aver posto in essere condotte corruttive, tutte sussumibili nel delitto di corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.).

 

2. Prima di addentrarci nella descrizione dei fatti oggetto delle contestazioni, riportiamo brevemente le tappe della complessa vicenda processuale. Formigoni, insieme a diversi coimputati (suoi collaboratori, direttori delle due strutture ospedaliere coinvolte, dirigenti regionali e intermediari), si è visto contestare dalla Procura di Milano il reato di associazione a delinquere (art. 416 c.p.) e due diversi episodi di corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio (art. 319 c.p.). Il Tribunale di Milano, con sentenza del 22 dicembre 2016, ha assolto l’ex presidente di Regione Lombardia dall’accusa di associazione a delinquere per non aver commesso il fatto, mentre lo ha condannato in relazione ad entrambi i fatti di corruzione contestati, alla pena di sei anni di reclusione. Con riguardo alla posizione di Formigoni, hanno quindi proposto gravame sia l’imputato che il Pubblico Ministero. La sentenza della Corte d’Appello di Milano ha confermato la responsabilità dell’ex Presidente, aggravando tuttavia la pena a sette anni e sei mesi di reclusione. Quale ultimo tassello dell’iter giudiziario è intervenuta lo scorso 21 febbraio la pronuncia della Cassazione che, confermando la condanna, ha ridotto la pena a cinque anni e dieci mesi di reclusione.

 

3. Veniamo ora ai fatti di corruzione oggetto del processo a carico di Formigoni che possono essere raggruppati in due filoni distinti:

i) il primo, esposto al capo 2, riguarda la c.d. ‘corruzione Maugeri’. Secondo la prospettazione accusatoria Umberto Maugeri (presidente della fondazione Maugeri) e Costantino Passerino (direttore centrale della fondazione Maugeri), a far data dal 1997 e fino al 2011, effettuavano pagamenti di somme di denaro, per un complessivo importo di oltre 61 milioni di euro, su conti correnti di società di comodo estere e italiane riferibili agli intermediari Antonio Simone e Pierangelo Daccò. Quest’ultimi, sempre secondo il disegno dell’accusa, rappresentavano le esigenze della fondazione Maugeri a Formigoni, il quale – a fronte della ricezione di numerosi vantaggi personali – faceva adottare alla Giunta di Regione Lombardia, con le modalità su cui ci soffermeremo tra breve, diversi provvedimenti in violazione di legge, diretti a trasferire alla fondazione Maugeri ingenti risorse pubbliche, ulteriori rispetto a quelle legittimamente destinate a tale struttura sanitaria in virtù della normativa regionale. Secondo i p.m., le prove raccolte avrebbero fatto emergere un quadro di sostanziale asservimento della funzione pubblica agli interessi della Maugeri, che godeva presso la regione di una c.d. ‘protezione globale’.

ii) Il secondo filone, trattato al capo 16, coinvolge invece l’Ospedale San Raffaele. Secondo la ricostruzione dell’accusa, dal 2002 e fino al mese di luglio 2011, Luigi Verzè (presidente della fondazione San Raffaele) e Mario Cal (vice presidente della fondazione San Raffaele) avrebbero corrisposto a Pierangelo Daccò somme di denaro per un importo di circa 9 milioni di euro. Quest’ultimo, come nell’ipotesi precedente, rappresentava le esigenze finanziarie del San Raffaele a Formigoni, il quale – a fronte della ricezione di numerosi vantaggi personali – si adoperava per far adottare dalla Giunta di Regione Lombardia numerose delibere in violazione di legge, che incontrassero gli interessi della sopracitata struttura ospedaliera. Secondo la prospettazione del p.m., anche in questa seconda ipotesi, emergerebbe un quadro di asservimento di Formigoni agli interessi del San Raffaele, che ugualmente godeva presso l’ente regionale di una c.d. ‘protezione globale’.

 

4. La vicenda non è però così semplice come potrebbe sembrare, e gli episodi qui richiamati meritano per la loro complessità una trattazione separata. Partiamo dai fatti che coinvolgono la fondazione Maugeri e che, come detto, sono stati contestati al capo 2. La sentenza di primo grado ha stabilito che gli addebiti mossi a Formigoni in questo capo hanno trovato pieno conforto probatorio in senso più circoscritto rispetto alle imputazioni. Ciò sia da un punto di vista temporale, il reato decorre dal 2006 e non dal 1997, sia dal punto di vista materiale: alcuni degli atti contrari ai doveri d’ufficio che secondo il p.m. erano stati motivati dalle dazioni indebite ricevute, sono stati invece ritenuti dal Tribunale estranei al patto corruttivo.

Veniamo allora ad una descrizione più approfondita dei fatti secondo la ricostruzione della sentenza del Tribunale. La fondazione Maugeri è una struttura ospedaliera privata che ha sempre fatto conto (in forza dell’accreditamento, prima con il Servizio sanitario nazionale e poi con la regione Lombardia) su entrate che le derivano in misura pressoché integrale da risorse pubbliche; in particolare dai rimborsi delle prestazioni sanitarie rese in regime di accreditamento, nonché da ulteriori erogazioni attribuite dalla regione a diverso titolo. Con l’entrata in vigore dei decreti legislativi di riordino della disciplina in materia sanitaria (d.lgs. 30 dicembre 1992, n. 502 e d.lgs. 7 dicembre 1993, n. 517) accadeva che gli introiti provenienti dalla mano pubblica subissero una drastica riduzione tanto che, verso la fine degli anni novanta, vi era per la struttura un incipiente problema di copertura dei costi. Secondo la ricostruzione della sentenza, da questa situazione era nata per i vertici della Maugeri l’esigenza di trovare un interlocutore a livello politico in grado di influire sui provvedimenti della regione in materia sanitaria, in modo da assicurare il fabbisogno economico della fondazione. È in questo momento che compaiono Antonio Simone e Pierangelo Daccò, segnalati ai dirigenti della struttura ospedaliera quali intermediari a cui potersi affidare per rappresentare presso i tavoli politici della Regione gli interessi della Fondazione. Dalle pagine del provvedimento di primo grado emerge come tra costoro e i vertici della Maugeri sia stato sottoscritto un vero e proprio ‘contratto’, in cui veniva garantita a Simone e Daccò, per l’attività di intermediazione di cui si facevano carico, una remunerazione fissata in misura pari al 25% delle maggior somme che questi sarebbero riusciti a far percepire all’anno alla Maugeri.

La sentenza del Tribunale ha ritenuto che sussistono sufficienti prove dichiarative per concludere che Maugeri e Passerino fossero consapevoli che le ingenti somme versate a Daccò e Simone, avessero anche una finalità corruttiva, e fossero quindi destinate a remunerare i ‘referenti politici’ di costoro, e quindi in primis il presidente Formigoni.

 

5. È necessario allora passare ad analizzare la posizione dell’ex Presidente della regione, Roberto Formigoni. Come abbiamo detto in avvio, questi era accusato dalla Procura di aver fatto adottare alla Giunta diversi provvedimenti in violazione di legge, diretti a trasferire alla fondazione Maugeri ingenti risorse pubbliche, ulteriori rispetto a quelle legittimamente destinate a tale struttura sanitaria in virtù della normativa regionale. E ciò a fronte della ricezione di ingenti vantaggi illeciti che gli venivano corrisposti da parte della fondazione, per mezzo di Daccò e Simone.

Come è noto, per poter affermare la sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di corruzione propria (art. 319 c.p.) in capo ad un pubblico ufficiale è necessario dimostrare che: i) l’agente pubblico abbia compiuto o si sia impegnato a compiere un atto contrario ai doveri di ufficio (o abbia omesso o ritardato o si sia impegnato ad omettere o ritardare un atto dell’ufficio); ii) l’agente pubblico abbia accettato la promessa o ricevuto un vantaggio per sé o per un terzo; iii) tra l'atto contrario ai doveri (o il ritardo o l'omissione) e il vantaggio sussiste un rapporto sinallagmatico, nel senso che l'atto trova giustificazione nel vantaggio ricevuto.

Secondo la sentenza del Tribunale di Milano, in esito all’istruttoria dibattimentale, è stato possibile raggiungere la prova della presenza di ognuno dei sopramenzionati elementi costitutivi.

 

6. Con riguardo al primo elemento, il Tribunale ha individuato in particolare due vicende, nell’ambito delle quali sarebbero stati realizzati atti contrari ai doveri d’ufficio con l’influenza decisiva del presidente Formigoni.

i) La prima vicenda riguarda le c.d. funzioni non tariffabili. Le c.d. funzioni non tariffabili sono una componente della spesa sanitaria regionale prevista dalla normativa statale per remunerare attività non idonee alla tariffazione come, per esempio, quelle di emergenza-urgenza, terapia intensiva, trapianto d’organi, assistenza ai grandi ustionati, ricerca e didattica universitaria. Il sistema tariffario rappresenta la regola e quello delle funzioni non tariffabili un sistema speciale di remunerazione, attuabile quando non si riesca a riconoscere e remunerare particolari costi, svincolati dalle singole prestazione. L’applicazione delle funzioni non tariffabili è decisa dalle regioni che scelgono in autonomia quali attività, con quali risorse e quali strutture sanitarie finanziare. Dal 1999 in avanti la Lombardia ha previsto di remunerare con il sistema delle funzioni non tariffabili una serie di attività non espressamente previste dalla normativa nazionale e, tra queste, l’alta complessità nella riabilitazione, la qualità nella riabilitazione, la qualità avanzata nella riabilitazione in regime di degenza ordinaria. Nel periodo considerato dalla sentenza il riconoscimento di tali funzioni, con le modalità di volta in volta riconosciute dalle singole delibere, ha consentito alla Maugeri di ottenere un incremento medio del 7,5 %, in termini di remunerazione, garantendo a tale struttura introiti per cifre molto elevate.

A questo riguardo, la decisione di primo grado ha ritenuto che le decisioni su quali attività remunerare con il sistema delle funzioni non tariffabili erano state assunte con modalità tali, da far ricondurre il contenuto di tali scelte direttamente alla volontà di Formigoni. Le dichiarazioni testimoniali dei dirigenti e funzionari che in quel periodo lavoravano presso l’assessorato alla sanità, infatti, sono state tutte concordi nel rappresentare un iter decisionale che permetteva al Presidente di intervenire in prima persona nelle scelte più importanti in materia di sanità. Le delibere relative a tali decisioni venivano infatti formulate dal c.d. ‘tavolo socio-sanitario’, un organo informale (delle cui riunioni non veniva redatto verbale) composto da Formigoni, gli assessori alla sanità e alla famiglia e i rispettivi direttori/segretari generali, e come qui licenziate venivano poi sottoposte all’attenzione della Giunta che le adottava sempre senza modifiche. Il provvedimento di primo grado sottolinea inoltre come alcuni dei funzionari che, nel periodo considerato, lavoravano presso le strutture tecniche della regione abbiano lamentato, nel corso delle loro deposizioni testimoniali, di aver ricevuto pressioni, sia da Daccò che dal presidente Formigoni, affinché le bozze di delibere da loro predisposte assecondassero gli interessi della fondazione, in alcuni casi spingendosi oltre a quello che i funzionari dell’assessorato alla sanità consideravano ‘tecnicamente’ sostenibile.

ii) La seconda vicenda riguarda l’iter di adozione della legge regionale n. 34/2007 c.d. ‘Non profit’. Si tratta di un testo normativo nato su iniziativa della struttura tecnica e dell’assessore alla sanità di quel periodo, Alessandro Cè, originariamente rivolto al settore del c.d. no profit puro, ovvero a quelle strutture che, a fronte di un’attività meritoria in un settore di grande interesse pubblico, avevano difficoltà a reperire fondi. La bozza di tale testo di legge era stata successivamente modificata, in modo da farvi rientrare anche gli enti non profit controllanti enti profit, così da ricomprendere anche la fondazione Maugeri e il San Raffaele. Tale testo era stato poi adottato dalla Giunta ed in seguito anche dal Consiglio regionale. Secondo la sentenza di primo grado, la modifica volta ad inserire tra i beneficiari della legge anche gli enti non profit controllanti enti profit – asseritamente attribuita ad un input proveniente dalla riunione dei capigruppo consiliari – era stata in realtà determinata dal diretto intervento di Formigoni, inteso a favorire in questo modo la Maugeri e il San Raffaele. A questa conclusione i giudici sono giunti attraverso la deposizione dell’allora Direttore generale dell’Assessorato alla sanità (Carlo Lucchina), che ha dichiarato che tale modifica era stata a lui richiesta personalmente da Formigoni.

Individuati gli atti di Formigoni che hanno favorito la fondazione Maugeri, la sentenza non si sofferma subito ad argomentare con riguardo alla sussistenza dei loro profili di contrarietà ai doveri di ufficio. Tale questione – ne daremo conto tra breve – verrà successivamente approfondita, e risolta positivamente, nella parte ‘in diritto’. Giunti a questo punto il provvedimento di primo grado sottolinea, tuttavia, come dall’istruttoria dibattimentale sia emerso una logica di ‘protezione globale degli interessi del corruttore’, che contraddistingue l'operato di Formigoni e degli intermediari Daccò e Simone nel caso in esame. «A fronte di utilità che vengono commisurate ai finanziamenti ricevuti dai corruttori, essi agiscono affinché venga assicurato, dalla struttura tecnica, un obiettivo di risultato alla fondazione Maugeri, consistente nell'ottenimento di determinati livelli di finanziamento mediante il duttile strumento delle funzioni non tariffabili o di altri provvedimenti ad hoc (quali la legge no profit)».

 

7. Veniamo ora ai vantaggi che l’ex Presidente di Regione Lombardia avrebbe ricevuto quale corrispettivo per l’asservimento della sua funzione pubblica. L’ipotesi accusatoria poggiava sull’assunto che, a fronte dell’accordo corruttivo intervenuto con la fondazione Maugeri Formigoni, per mezzo di Daccò e Simone, sia stato destinatario di diverse utilità personali, per un valore complessivo di circa sei milioni di euro. La sentenza di primo grado ha ritenuto questa ipotesi sorretta da prove univoche. Tali vantaggi sono stati identificati, in primis, nell’utilizzo esclusivo di tre imbarcazioni, acquistate o prese a noleggio da società riferibili a Daccò e Simone e che sono state utilizzate dall’imputato, senza alcuna spesa a suo carico, per diversi anni per tutto il periodo estivo; quindi svariati viaggi durante le vacanze di Natale, tra il 2007 e il 2011, pagati integralmente da Daccò; l’utilizzo esclusivo di una villa in Sardegna; somme di denaro contante di cui l’imputato non ha saputo giustificare la provenienza e che sono state ritenute dai giudici provenienti da pagamenti dei due intermediari; da ultimo un finanziamento elettorale quantificato in circa 600 mila euro, da destinare alla campagna del PDL per le elezioni regionali del 2010. A parere dei giudici di Milano si tratta di utilità abnormi che coprono un lasso temporale particolarmente esteso e che sono state spesso irrogate nell'imminenza di provvedimenti della Giunta regionale particolarmente importanti per le sorti finanziarie della fondazione. In ragione di queste caratteristiche, secondo il Tribunale, tali vantaggi non possono in alcun modo trovare logica giustificazione nel rapporto d'amicizia tra Formigoni e Daccò o in regalie d'uso.

 

8. Dicevamo poco sopra che per la sussistenza del delitto di cui all’art. 319 c.p. è notoriamente necessaria la prova che tra gli atti contrari ai doveri d’ufficio e i vantaggi indirizzati al pubblico ufficiale sussista un rapporto sinallagmatico, nel senso che gli atti trovino giustificazione nelle utilità ricevute. Ai fini della prova del sinallagma la sentenza del Tribunale ha attribuito una decisiva rilevanza alla contestualità temporale fra i flussi di capitali provenienti dai corruttori e destinati agli intermediari, l’adozione di atti favorevoli ai corruttori da parte del pubblico ufficiale corrotto e le dazioni di utilità dagli intermediari a quest'ultimo. Secondo i giudici di prime cure, infatti, proprio dalla fine del 2006 si è verificata una significativa corrispondenza tra utilità a Formigoni alimentate da Daccò e Simone con provviste provenienti dalla Maugeri e provvedimenti favorevoli alla fondazione ispirati dall'intervento del presidente della Regione.

Decisive al fine della prova della sussistenza del pactum sceleris sono state ritenute, inoltre, le deposizioni dei vertici della fondazione, Umberto Maugeri e Costantino Passerino, che hanno sostanzialmente ammesso che le ingenti somme da loro versate a Daccò e Simone, avessero anche una finalità corruttiva, e fossero quindi destinate a remunerare i ‘referenti politici’ di costoro, e quindi in primis il presidente Formigoni, allo scopo di vedersi garantito – quale contropartita – un trattamento di favore della regione nell’erogazione dei finanziamenti pubblici.

 

9. Come anticipato in avvio, la seconda vicenda oggetto del giudizio, trattata al capo 16, coinvolge invece l’ospedale San Raffaele. Secondo la ricostruzione dell’accusa, dal 2002 e fino al mese di luglio 2011, Luigi Verzè (presidente della fondazione San Raffaele) e Mario Cal (vice presidente della fondazione San Raffaele) avrebbero corrisposto a Pierangelo Daccò somme di denaro per un importo di circa nove milioni di euro. Quest’ultimo, come nell’ipotesi precedente, rappresentava le esigenze finanziarie del San Raffaele a Formigoni, il quale – a fronte della ricezione di numerosi vantaggi personali – si adoperava per far adottare dalla Giunta di Regione Lombardia numerose delibere in violazione di legge, che incontrassero gli interessi della sopracitata struttura ospedaliera. Secondo la prospettazione del p.m., anche in questa seconda ipotesi, emergerebbe un quadro di asservimento di Formigoni agli interessi del San Raffaele, che ugualmente godeva presso l’ente regionale di una c.d. ‘protezione globale’.

Anche per questo capo il giudice di prime cure ha provveduto alla ‘ridatazione’ dei fatti, ritenendo che la corruzione sia provata oltre ogni ragionevole dubbio a partire dall’inizio del 2006 (e non dal 2002) e fino al 2011. La sentenza del Tribunale ha affermato che dall’istruzione probatoria è emerso innanzitutto – grazie alle deposizioni testimoniali e ai riscontri documentali – che alcuni fornitori del San Raffaele, a fronte di fatture ‘gonfiate’, retrocedevano ingenti somme di denaro a Mario Cal, vice presidente della fondazione dell’ospedale, con lo scopo di creare disponibilità di ‘denaro nero’ da destinare a Pierangelo Daccò. A far data dal 2008 al sistema delle retrocessioni in contanti si è sostituito quello dei bonifici ad alcune società riferibili a Daccò, mascherati da fatture e documentazione contrattuale fittizia. In totale, dunque, nel periodo in considerazione (2006-2011), il San Raffaele direttamente o per il tramite di soggetti interposti (fornitori o società fiduciarie) ha versato circa 8 milioni e 600 mila euro a Daccò. Il Tribunale ha ritenuto, basandosi sulle deposizioni concordi di alcuni testi che lavoravano in quel periodo a stretto contatto con Mario Cal, nel frattempo deceduto, che Daccò era sostanzialmente un collettore di tangenti per conto di Formigoni, in cambio dell'ottenimento dei provvedimenti favorevoli al San Raffaele in materia sanitaria.

 

10. Quanto sin ora affermato non basta però per sancire la responsabilità di Formigoni ex art. 319 c.p., anche in relazione a questa seconda vicenda. Come già detto – lo ricordiamo anche qui a beneficio del lettore – per poter affermare la sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.) in capo ad un pubblico ufficiale è necessario dimostrare che: i) l’agente pubblico abbia compiuto o si sia impegnato a compiere un atto contrario ai doveri di ufficio (o abbia omesso o ritardato o si sia impegnato ad omettere o ritardare un atto dell’ufficio); ii) l’agente pubblico abbia accettato la promessa o ricevuto un vantaggio per sé o per un terzo; iii) tra l’atto contrario ai doveri (o il ritardo o l’omissione) e il vantaggio sussiste un rapporto sinallagmatico, nel senso che l’atto trova giustificazione nel vantaggio ricevuto. La sentenza di primo grado, in esito all’istruttoria dibattimentale, ha ritenuto raggiunta la prova della sussistenza di tali elementi costitutivi anche in relazione ai fatti che coinvolgono la fondazione San Raffaele.

Gli ambiti in cui sono stati posti in essere atti contrari ai doveri d’ufficio con l’influenza decisiva di Formigoni, sono gli stessi menzionati anche nella vicenda Maugeri. In primis, quello delle c.d. funzioni non tariffabili, come ricordato, componente della spesa sanitaria regionale prevista dalla normativa statale per remunerare attività non idonee alla tariffazione. Dalle dichiarazioni concordi di diversi funzionari che, nel periodo considerato, lavoravano presso le strutture tecniche della regione, emerge come costoro ricevessero costanti pressioni affinché le bozze di delibere da loro predisposte in materia di riparto delle risorse, assecondassero gli interessi del San Raffaele che, insieme alla fondazione Maugeri, era la struttura nettamente privilegiata dal riparto dei fondi pubblici attraverso il sistema delle c.d. funzioni non tariffabili. Il secondo ambito di intervento è individuato quindi nella legge regionale n. 34/2007 c.d. ‘Non profit’. Testo normativo originariamente rivolto al settore del c.d. no profit puro, la bozza di tale testo di legge era stata successivamente modificata, in modo da farvi rientrare anche gli enti non profit controllanti enti profit, così da ricomprendere anche la fondazione Maugeri e il San Raffaele. Come abbiamo già ricordato poco sopra, secondo la sentenza di primo grado, la modifica volta ad inserire tra i beneficiari della legge anche gli enti non profit controllanti enti profit – asseritamente attribuita ad un input proveniente dalla riunione dei capigruppo consiliari – era stata in realtà determinata dal diretto intervento di Formigoni, inteso a favorire in questo modo la Maugeri e il San Raffaele.

Anche con riguardo al San Raffaele è emerso, secondo il Tribunale, uno scenario di ‘protezione globale degli interessi del corruttore’ che contraddistingue l'operato di Formigoni e di Daccò. La logica è la stessa di quella descritta per la fondazione Maugeri: a fronte di utilità che vengono commisurate ai finanziamenti ricevuti dai corruttori, Formigoni e Daccò agiscono affinché venga assicurato, dalla struttura tecnica della regione, un obiettivo di risultato all’ospedale San Raffaele, consistente nell'ottenimento di determinati livelli di finanziamento mediante il duttile strumento delle funzioni non tariffabili o di altri provvedimenti ad hoc (quali la legge no profit).

 

11. Nulla da aggiungere circa l’elemento del vantaggio promesso o ricevuto dal pubblico ufficiale. Secondo i giudici di primo grado, i vantaggi sopramenzionati (l’utilizzo esclusivo di tre imbarcazioni e della villa in Sardegna, i viaggi pagati durante le vacanze natalizie, le somme di denaro contante e il finanziamento elettorale per il PDL quantificato in circa 600 mila euro) sono stati corrisposti da Daccò per assicurare provvedimenti favorevoli agli interessi oltre che della fondazione Maugeri anche del San Raffaele.

 

12. Quanto alla prova del rapporto sinallagmatico tra gli atti contrari ai doveri d’ufficio e i vantaggi indirizzati al pubblico ufficiale, la sentenza di primo grado valorizza ancora una volta e in primis il dato temporale. I maggiori flussi di denaro dal San Raffaele giungono a Daccò nel medesimo periodo in cui egli finanzia le utilità del Presidente e quest'ultimo adotta i provvedimenti favorevoli alla struttura ospedaliera in precedenza indicati. Decisive ai fini della prova della corruzione sarebbero state poi alcune deposizioni testimoniali che hanno fatto intendere come, presso il San Raffaele nel periodo considerato, fosse a tutti chiaro che Formigoni, per il tramite di Daccò, veniva pagato proprio per assicurare quei provvedimenti discrezionali, in materia sanitaria, che garantivano significativi introiti all’ospedale, indispensabili per fronteggiare la grave situazione economica che la struttura stava attraversando.

 

13. Veniamo ora alla parte ‘in diritto’. Secondo il Tribunale, lo abbiamo ricordato poco sopra, nel caso di specie la corruzione si è manifestata nella forma dell'asservimento delle funzioni del pubblico ufficiale, avendo Formigoni strumentalizzato le proprie prerogative di presidente della Giunta regionale a ‘copertura globale’ degli interessi delle fondazioni San Raffaele e Maugeri. Occorre allora verificare se tale condotta possa essere effettivamente qualificata nel reato di corruzione propria (art. 319 c.p.), anche a seguito dell'entrata in vigore, dopo i fatti, della c.d. legge Severino (l. n. 190 del 2012) che ha riformulato l'art. 318 c.p., introducendo la figura incriminatrice della corruzione per l’esercizio della funzione.

A questo scopo, il provvedimento in commento si uniforma a quella giurisprudenza di legittimità, secondo cui «il nuovo reato di cui all'art. 318 c.p., in forza della novità del riferimento all'esercizio della funzione, ha esteso l'area di punibilità (..) a tutte le forme di mercimonio delle funzioni o dei poteri del pubblico ufficiale, salva l'ipotesi in cui sia accertato un nesso di strumentalità tra dazione o promessa e il compimento di un determinato o ben determinabile atto contrario ai doveri d'ufficio, ipotesi, quest'ultima, espressamente contemplata dall'art. 319 c.p., modificato dalla novella del 2012 soltanto nella parte attinente alia misura della pena». Da ciò discende che i fenomeni di corruzione sistemica conosciuti dall'esperienza giudiziaria come ‘messa a libro paga del pubblico funzionario’, ‘asservimento della funzione pubblica agli interessi privati’ o ‘messa a disposizione del proprio ufficio’, tutti caratterizzati da un accordo corruttivo che impegna permanentemente il pubblico ufficiale a compiere od omettere una serie indeterminata di atti ricollegabili alla funzione esercitata, devono ora, dopo l'entrata in vigore della l. n. 190/2012, essere ricondotti nella previsione del novellato art. 318 c.p. (corruzione per l’esercizio della funzione), sempre che i pagamenti intervenuti non siano ricollegabili al compimento di uno o più atti contrari ai doveri d'ufficio. «In altre parole, considerato che la nuova figura di reato prevista dall'art. 318 c.p. e quella di cui all'art. 319 c.p. sono caratterizzate l'una dall'assenza l'altra dalla presenza di un atto contrario ai doveri di ufficio, volendo individuare quale sia la norma penale applicabile, occorrerà previamente accertare se l'asservimento della funzione sia rimasto tale o sia sfociato nel compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio. Nella prima ipotesi il fatto sarà sussunto nella nuova fattispecie di reato descritta dall'art. 318 c.p. (..). Nell'ipotesi, invece, che l'asservimento della funzione abbia prodotto il compimento di un atto contrario ai doveri d'ufficio, il fatto resterà sotto il regime dell'art. 319 c.p. (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 25 settembre 2014 (dep. 26 novembre 2014), n. 49226, ric. Chisso)». In definitiva, «in tema di corruzione, lo stabile asservimento del pubblico ufficiale ad interessi personali di terzi, con episodi sia di atti contrari ai doveri d'ufficio che di atti conformi o non contrari a tali doveri, configura l'unico reato, permanente, previsto dall'art. 319 c.p., con assorbimento della meno grave fattispecie di cui all'art. 318 c.p. (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 7 luglio 2016 (dep. 27 settembre 2016), n. 40237, ric. Giangreco)».

 

14. Giunti a questo punto e alla luce dei richiamati principi interpretativi, bisogna allora stabilire se, nel caso di specie, l'asservimento della funzione da parte del Presidente di Regione Lombardia si sia tradotto in specifici atti contrari ai doveri d'ufficio. Riportandoci alla parte in fatto, il Tribunale di Milano ha ritenuto provato che Formigoni abbia strumentalizzato le sue prerogative, adottando specifici atti per favorire le fondazioni Maugeri e San Raffaele. In particolare: i) per il tramite di Daccò ha esercitato, di fatto, una pesante ingerenza sulla struttura tecnica, in violazione del principio di distinzione tra indirizzo politico ed amministrazione attiva, sollecitando costantemente l'adozione di atti che, nei limiti della sostenibilità del sistema, venissero incontro alle esigenze dei corruttori; ii) ha imposto in Giunta l'adozione di delibere, in materia di funzioni non tariffabili, che hanno palesemente disatteso il parere espresso dai tecnici e che hanno favorito in modo altrettanto evidente la Maugeri e il San Raffaele; iii) ha imposto l'adozione di disegni di legge di iniziativa della Giunta con un testo che palesemente veniva incontro alle esigenze manifestate dalla due fondazioni.

Ora, appare subito evidente – e lo fa notare anche la sentenza di primo grado – come nel caso in esame si abbia a che fare con atti collegiali, a contenuto altamente discrezionale, di natura amministrativa (delibere di giunta in materia di funzioni non tariffabili) o di natura politica, endoprocedimentali rispetto all'adozione di leggi regionali. Provvedimenti con riguardo ai quali è dunque più difficile valutare l’eventuale contrarietà ai doveri dell’ufficio.

A questo proposito viene tuttavia richiamata la costante giurisprudenza di legittimità, secondo cui il reato di corruzione propria (art. 319 c.p.) può essere integrato anche mediante atti di natura discrezionale. E ciò perché «l'atto di natura discrezionale o consultiva non ha mai un contenuto pienamente ‘libero’, essendo soggetto, per un verso, al rispetto delle procedure e dei requisiti di legge e, per altro verso, alla necessità di assegnare comunque prevalenza all'interesse pubblico. La Cassazione, in particolare, ha evidenziato (cfr. Cass. pen., Sez. VI, 11 dicembre 2016, n. 8211, ric. Ferrante ed altri) come nulla osti alla possibilità di ravvisare la fattispecie incriminatrice ex art. 319 c.p. anche qualora si tratti di atti caratterizzati da discrezionalità, atteso che integra il delitto di corruzione propria la condotta del pubblico ufficiale che, dietro elargizione di un indebito compenso, esercita i poteri discrezionali a lui spettanti rinunciando ad una imparziale comparazione degli interessi in gioco, al fine di raggiungere un esito predeterminato, anche quando questo risulta coincidere, ex post, con l'interesse pubblico, e salvo il caso di atto sicuramente identico a quello che sarebbe stato comunque adottato in caso di corretto adempimento delle funzioni». Ai fini della sussistenza del reato in questione, l'elemento decisivo è dunque costituito dalla ‘vendita’ della discrezionalità accordata dalla legge (cfr. Cass. pen., Sez. IV, 22 marzo 2016, n. 39542, ric. Fronti).

Secondo i giudici di prime cure, analoghe conclusioni possono trarsi, sulla scorta della giurisprudenza di legittimità, anche con riguardo al mercimonio di atti connotati da ampia discrezionalità politica. Si pensi per esempio all’esercizio della funzione legislativa, in relazione alla quale la Cassazione ha affermato la sussistenza del mercanteggiamento della funzione, e quindi del reato di corruzione propria (art. 319 c.p.), nel caso in cui sia emerso che la scelta discrezionale del pubblico ufficiale non sia stata consigliata dal raggiungimento di finalità istituzionali e dalla corretta valutazione degli interessi collettivi, ma da quello prevalente di un privato corruttore (Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 30 novembre 2005, n. 21117, ric. Castiglione).

Visto che l’istruttoria dibattimentale ha provato in modo inequivocabile che Formigoni, rinunciando alla imparziale comparazione degli interessi in gioco, ha piegato l'azione discrezionale della Giunta, tanto in ambito amministrativo quanto in ambito legislativo, al perseguimento dell'interesse dei privati corruttori, da ciò discende, secondo i giudici di Milano, che la condotta dell’ex presidente può essere definita ‘contraria ai doveri dell’ufficio’ e, di conseguenza, essa è sussumibile nella fattispecie di corruzione propria ex art. 319 c.p.

 

15. In esito a tali affermazioni il Tribunale di Milano ha quindi quantificato la pena da infliggere a Roberto Formigoni, per i fatti a lui imputati ai capi 2 e 16, in sei anni di reclusione e sei anni di interdizione dei pubblici uffici. Questi è stato inoltre condannato, in solido con Pierangelo Daccò e Antonio Simone, al risarcimento dei danni subiti da regione Lombardia. Da ultimo, in applicazione dell’art. 322 ter c.p., i giudici hanno disposto la confisca dei beni già sequestrati e di ulteriori beni nella disponibilità dell’ex Presidente per un valore complessivo di circa 6 milioni e 600 mila euro.

 

16. Con riguardo alla posizione di Formigoni, hanno quindi proposto gravame sia l’imputato che il Pubblico Ministero. La difesa dell’ex Presidente ha presentato dieci articolati motivi d’appello che, per i limitati scopi di questo contributo, ci è impossibile riportare nella loro interezza. In sostanza, l’atto di gravame ha proposto una radicale rilettura delle risultanze probatorie e in particolare di alcune deposizioni testimoniali, volta a delegittimare le conclusioni raggiunte nella sentenza di primo grado. In particolare secondo la difesa:

i) gli atti che si assumono contra legem sono delibere a atti legislativi collegiali, frutto del lavoro partecipato di figure politiche e tecniche, non riconducibili a Formigoni;

ii) i pretesi vantaggi ricevuti dal ex presidente non sono riconducibili al concetto di ‘utilità’ previsto dalla norma incriminatrice (art. 319 c.p.), ma si tratterebbe di regalie rientranti nell’ambito di un normale rapporto di amicizia;

iii) i benefici ricevuti non sono avvinti – come invece dovrebbero – da un rapporto che li funzionalizzi agli atti d’ufficio, asseritamente illegittimi. Mancherebbe il c.d. sinallagma corruttivo.

In esito ad ampia motivazione la Corte d’Appello ha respinto la lettura alternativa delle risultanze probatorie proposta dalla difesa di Formigoni, affermando che le accuse di corruzione mosse ai capi 2 e 16 sono fondate e supportate da prove solidamente univoche, concordanti oltre che impermeabili ad ogni ragionevole dubbio. La sentenza della Corte d’Appello di Milano ha quindi confermato la statuizione di responsabilità nei confronti dell’ex presidente e, in accoglimento del gravame proposto dal Pubblico Ministero, ha aggravato la pena a sette anni e sei mesi di reclusione. Quale ultimo tassello dell’iter giudiziario è intervenuta lo scorso 21 febbraio la pronuncia della Cassazione – di cui non è ancora stata depositata la motivazione – e che, confermando la condanna, ha ridotto la pena a cinque anni e dieci mesi di reclusione.

 

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17. Difficile azzardare in questo breve contributo un commento su una vicenda processuale così complessa. (quasi 1100 pagine di motivazioni tra le sentenze di primo e secondo grado!). Non potendo ovviamente avere integrale cognizione degli atti (verbali delle deposizioni testimoniali e prove documentali) su cui le decisioni del Tribunale e della Corte d’Appello di Milano si fondano, ci è certamente impossibile procedere ad un giudizio critico sulla ricostruzione dei fatti, così come proposta dai giudici di prime cure e sostanzialmente confermata nel secondo grado di giudizio.

Ci sia consentita, invece, una piccola riflessione che riguarda la parte ‘in diritto’ e che ci sovviene in seguito ad una recente sentenza con la quale la Corte di cassazione, definendo un giudizio che ha visto coinvolti l’ex presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e l’ex senatore Sergio De Gregorio, ha per la prima volta affermato il principio secondo cui non è configurabile il delitto di corruzione propria (art. 319 c.p.) nei confronti di un membro del Parlamento che riceva un’indebita utilità in relazione all’esercizio della sua funzione (Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 2 luglio 2018 (dep. 11 settembre 2018), n. 40347). Ciò in quanto l’attività del parlamentare non è soggetta a sindacato, essendo previste dagli artt. 67 e 68 Cost. l’assenza di vincolo di mandato e l’immunità per le opinioni espresse e i voti dati. Con la conseguenza, questo è il punto, che non è possibile valutare la condotta del parlamentare in termini di contrarietà o conformità ai doveri d’ufficio. Tale decisione si segnala dunque per aver escluso la configurabilità della più grave ipotesi di corruzione — la c.d. corruzione propria (art. 319 c.p.) — nei confronti dei parlamentari i quali, seguendo la logica della sentenza della Cassazione, possono vedersi applicato solo il meno grave delitto di corruzione per l’esercizio della funzione (art. 318 c.p.). Senonché, anche se le pene previste per quest’ultima figura delittuosa sono state da ultimo inasprite dalla c.d. legge Spazza-corrotti, raggiungendo livelli prossimi a quelli dell’ipotesi più grave della corruzione per atto contrario ai doveri d’ufficio, ciò non vale a sminuire l’importanza di questo provvedimento in prospettiva sistematica. La sentenza del caso Berlusconi-De Gregorio, infatti, determina per la prima volta un trattamento differenziato, in materia di corruzione, in rapporto a una particolare categoria di soggetti pubblici — i parlamentari — rispetto al restante novero dei pubblici ufficiali. E ciò in un sistema dei delitti contro la p.a. che, invero, sotto il profilo delle qualifiche soggettive, presuppone una nozione di pubblico ufficiale omnicomprensiva, che si riferisce (art. 357 c.p.) a qualsiasi persona investita di una funzione pubblica, compresa, appunto, quella legislativa.

 

18. Fatta questa breve digressione, torniamo alla vicenda dalla quale abbiamo preso avvio, fugando subito ogni dubbio: l’incarico parlamentare e quello del presidente di regione sono senz’altro diversi e non si prestano a facili parallelismi. Volendo tuttavia allargare la prospettiva, le affermazioni fatte dalla Cassazione nei confronti dei parlamentari possono essere senza dubbio estese ai consiglieri regionali, che con i deputati e i senatori condividono le stesse prerogative costituzionali (assenza del vincolo di mandato e immunità per le opinioni espresse e i voti dati nell’esercizio delle funzioni). E in una prospettiva ancor più vasta, a ben vedere, ci si potrebbe chiedere se la stessa difficoltà a valutare la condotta in termini di contrarietà o conformità ai doveri d’ufficio – e la conseguente impossibilità di configurare la corruzione propria (art. 319 c.p.) – si ripresenti anche quando altri soggetti pubblici, in virtù dell’incarico che detengono, prendano parte all’esercizio della funzione legislativa. Tale funzione, costituzionalmente riservata ai parlamentari e ai consiglieri regionali, può vedere infatti l’intervento anche di altri soggetti: pensiamo soprattutto al Consiglio dei ministri o alla Giunta regionale, che hanno il potere di proporre disegni di legge (rispettivamente nazionali o regionali). Anche in relazione a questi atti che danno avvio all’iter legislativo e realizzano opzioni di fondo, precipitato della volontà –  politica – di privilegiare taluni interessi a scapito di altri, è allora interessante chiedersi se sia legittimo che il giudice penale sia chiamato a valutare la loro legittimità (rectius la conformità ai doveri dell’ufficio). E ciò anche perché all’autorità giurisdizionale – che si trova a decidere circa la configurabilità di un delitto di corruzione – non può, infatti, essere consentito un controllo, senza limiti, del merito di atti di questo genere. Si tratta di una riflessione che potrebbe riguardare, nel caso che qui ci occupa, solo alcuni degli atti ritenuti dai giudici di Milano oggetto del patto corruttivo: quelli riguardanti l’emanazione della c.d. legge non profit, che possono essere considerati espressione dell’esercizio della funzione legislativa da parte di Formigoni e della Giunta regionale.

Beninteso, l’eventuale accoglimento di questa tesi non comporterebbe certo l’irresponsabilità penale in relazione a qualsiasi comportamento corruttivo che sia inscindibilmente collegato ad un atto tipico della funzione legislativa; si tratterebbe invece – stante la non configurabilità del reato di corruzione per un atto contrario ai doveri d’ufficio (art. 319 c.p.) – di procedere ad una necessaria qualificazione dei fatti nel meno grave delitto di cui all’art. 318 c.p.: nella precedente formulazione (corruzione per un atto d’ufficio) o in quella attuale (corruzione per l’esercizio della funzione), a seconda del momento della commissione del fatto.