ISSN 2039-1676


19 maggio 2016 |

In tema di corruzione del parlamentare: la sentenza del Tribunale di Napoli sul leading-case Berlusconi-De Gregorio

Nota a Trib. Napoli, sez. I, 8 luglio 2015, n. 11917, imp. Berlusconi, Lavitola

 

1. La sentenza che può leggersi in allegato si segnala per alcune interessanti e pressoché inedite affermazioni in ordine al reato di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio ex art. 319 c.p. in relazione alla peculiare posizione dei coimputati i quali, al momento della commissione dei fatti, rivestivano entrambi la carica di parlamentare. Il caso, come si vedrà, ha inoltre offerto al tribunale di Napoli la possibilità di soffermarsi sulla questione dell'operatività dell'immunità di cui all'art. 68, comma 1 Cost., "per le opinioni espresse e i voti dati", in un caso, come quello in questione, in cui il parlamentare si renda partecipe di un atto corruttivo.

 

2. Ma procediamo con ordine. Il Tribunale di Napoli con la sentenza qui annotata, e in esito ad ampia istruttoria che si è giovata anche della piena confessione di uno dei protagonisti della vicenda (il Senatore De Gregorio), è giunto ad accertare che Silvio Berlusconi, "quale istigatore prima e autore materiale poi, nella sua posizione di leader dello schieramento di centro-destra, al fine di erodere la ridotta maggioranza numerica che sosteneva l'allora governo di centro-sinistra guidato da Romano Prodi, aveva promesso e quindi consegnato - tramite un suo intermediario (Valter Lavitola) - una somma di denaro pari a tre milioni di euro all'allora Senatore Sergio De Gregorio, eletto nelle liste dell'Italia dei Valori e quindi sostenitore del Governo Prodi". Tali somme, secondo la ricostruzione del tribunale, sono state poi in concreto erogate - dal luglio 2006 sino al marzo 2008 - per un milione in bonifici bancari e sotto forma di simulato contributo partitico, e per i restanti due milioni "in nero" e a scadenza dilazionata. Quest'ultima modalità era stata concordata in modo da assicurarsi l'effettivo e progressivo rispetto del patto illecito intercorso: le somme venivano infatti versate da Berlusconi quale corrispettivo delle manifestazioni di voto contrario alle proposte della maggioranza di governo di centro-sinistra da parte di De Gregorio.

In esito a tale accertamento il tribunale di Napoli ha quindi condannato ex artt. 110, 319, 321 c.p. Silvio Berlusconi e Valter Lavitola alla pena di tre anni di reclusione e di cinque anni di interdizione dei pubblici uffici, in quanto corruttori dell'allora Senatore Sergio De Gregorio (nei confronti del quale si è proceduto separatamente), resosi responsabile, secondo il collegio giudicante, di diversi atti contrari ai propri doveri d'ufficio.

 

3. Come anticipato, la configurabilità dei reati di cui agli artt. 319 e 321 c.p. in relazione agli atti commessi da un parlamentare è un tema quanto mai aperto e inesplorato, rispetto al quale emergono profili problematici non solo di diritto penale, ma anche di diritto costituzionale. La motivazione del collegio giudicante si sofferma anzitutto sugli elementi costitutivi dei reati in questione, prendendo le mosse dalla necessaria qualifica soggettiva di pubblico ufficiale richiesta dall'art. 319 c.p. Sul punto la sentenza precisa subito che tale qualità rileva nel presente processo esclusivamente con riferimento alla posizione di De Gregorio, ovvero del corrotto, rispetto alla cui presenza non sussiste alcun dubbio, restando irrilevante che, anche uno dei corruttori, ovvero Silvio Berlusconi, fosse a suo tempo parlamentare. A questo proposito, infatti, l'art. 321 c.p. - il quale estende le pene di cui all'art. 319 c.p. anche a chi dà o promette al pubblico ufficiale o all'incaricato di pubblico servizio il denaro o altra utilità - non richiede che il corruttore rivesta una qualifica pubblica. Tale precisazione, a detta del collegio, non è superflua perché "vale a svincolare del tutto l'agire di uno degli odierni imputati, Silvio Berlusconi, dalla garanzia costituzionale per le opinioni espresse e i voti dati nell'esercizio delle sue funzioni, di cui all'art. 68 della Costituzione". La promessa e poi la dazione di denaro da parte di Berlusconi, in cambio dell'esercizio prezzolato della funzione parlamentare di De Gregorio, sempre da quanto si legge in motivazione, "non sono riconducibili alla concomitante qualità di Deputato che il primo rivestiva". Tale garanzia costituzionale potrebbe invece venire in rilievo in relazione alle condotte di De Gregorio, profilo su cui il collegio, come vedremo, si soffermerà a lungo in altra parte della motivazione.

 

4. Non suscita particolari perplessità nemmeno la verifica della sussistenza delle condotte richieste dalle fattispecie incriminatrici, ampiamente comprovate dalle risultanze documentali e dalle dichiarazioni dello stesso Senatore. Da un lato la dazione di denaro da parte di Berlusconi, per mezzo dell'intermediazione di Lavitola, dall'altro la ricezione di tale somma (quantificata in tre milioni di euro) da parte di De Gregorio, quale concretizzazione dell'accordo corruttivo tra loro precedentemente intercorso.

 

5. Più problematico risulta, invece, il profilo relativo all'atto contrario ai doveri d'ufficio che il Senatore si era impegnato a compiere quale controprestazione per il denaro ricevuto. Sul punto lo stesso De Gregorio, nel corso delle sue deposizioni, ha affermato che "Berlusconi gli aveva dato istruzioni di fare tutto il possibile in aula ed in commissione per mettere in difficoltà il Governo Prodi, adoperandosi con ogni mezzo per danneggiare la maggioranza di centro-sinistra, evidenziandone le criticità e le contraddizioni interne e sottolineandone le scelte sbagliate e impopolari". Esplicazione di ciò erano state le prese di posizione pubbliche e i voti espressi da De Gregorio in aula e nella commissione difesa del Senato, tanto che questi era oramai considerato, dai capi gruppo parlamentari di Forza Italia, acquisito alle fila dell'opposizione di centro-destra.

Il collegio si chiede dunque se le condotte del Senatore qui richiamate possano dirsi contrarie ai suoi doveri d'ufficio, alla luce del particolare status che contraddistingue la funzione parlamentare, caratterizzata da un'ampia autonomia che si manifesta in scelte pressoché totalmente discrezionali. Il tribunale delinea quindi quello che viene definito lo statuto del parlamentare, i cui doveri e obblighi sarebbero stati lesi dalle condotte di De Gregorio. Si fa riferimento alla funzione di rappresentante della Nazione di cui all'art. 67 Cost., che implica che ai parlamentari "è attribuito il delicato e altissimo compito di interpretare l'interesse comune e il sentire dell'intero popolo". Secondo il tribunale non v'è dubbio, che "l'ispirare il proprio agire e lo svolgimento della propria funzione non già all'espressione del sentire della Nazione o di una sua parte, ma al perseguimento di interessi particolaristici e individuali, come corrispettivo di pagamenti in denaro ricevuti, costituisce per il parlamentare una violazione di tale primo e importantissimo dovere". Ancora l'art. 67 della Costituzione impone un fondamentale dovere di autonomia nello svolgimento delle funzione, tanto da far ritenere che "chi orienti il proprio agire in conformità alle richieste, alle direttive o anche solo ai desideri del corruttore, per finalità utilitaristiche e scelte prezzolate, recede a tale dovere che ha assunto su di se sin dalla proclamazione alla carica di Deputato o di Senatore". Da ultimo, si fa riferimento all'art. 54, comma 2 Cost. il quale prescrive ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche di adempierle con disciplina ed onore, prestando giuramento nei casi stabiliti dalla legge. Secondo il tribunale è, infatti, indubbio che tale dovere viga, più di ogni altro, "in capo a chi riveste la carica parlamentare e che senza dubbio vi contravvenga, chi scelga di vincolare il proprio agire a direttive ricevute quale controprestazione di una dazione in denaro".

Alla luce di quanto detto, il tribunale di Napoli afferma quindi che le condotte poste in essere dal Senatore in aula e in commissione costituirono una violazione di tali doveri e quindi atti contrari ai doveri d'ufficio. In altre parole, si precisa che l'illecito compiuto da De Gregorio consistette "nell'aver abdicato in cambio di denaro, precisamente di tre milioni di euro, alla sua libera e incoercibile facoltà di scegliere se fare eventualmente anche proprio tutto ciò, laddove egli lo avesse ritenuto meglio rispondente all'interesse della Nazione, o di non farlo nei casi in cui non ne ricorressero le condizioni". Da quanto si legge dalle deposizioni dello stesso Senatore, infatti, pur manifestando questi una certa vicinanza ideologica alle posizioni del centro-destra, in ragione dei suoi passati trascorsi nel partito socialista di Craxi, non fu questa consonanza politica che lo determinò a passare da uno schieramento all'altro ma l'ingente offerta economica promessagli da Berlusconi.

 

6. Dopo aver riscontrato la presenza di tutti gli elementi necessari al configurarsi del reato di corruzione ex art. 319 c.p., il tribunale di Napoli si sofferma quindi sulla questione dell'operatività nel caso concreto dell'immunità parlamentare di cui all'art. 68 Cost., il quale dispone che "i membri del Parlamento non possono essere chiamati a rispondere delle opinioni espresse e dei voti dati nell'esercizio delle loro funzioni". In altre parole, le difese dei coimputati hanno tentato di sostenere che la condotta materialmente tenuta da De Gregorio, aveva la sua espressione nell'esercizio del voto e, come tale, non poteva essere oggetto di sindacato giurisdizionale in virtù di quanto previsto dall'art. 68 della Costituzione. Si pone dunque il problema di chiarire se "l'atto corruttivo di cui sia partecipe un parlamentare, in ragione del quale questi accetti di vincolare il libero esercizio del suo diritto di voto e comunque di farne oggetto di compromesso per fini di lucro personale o non esclusivamente politici, possa dirsi "coperto" dall'immunità descritta da tale articolo".

Richiamando la dottrina costituzionale sul punto, il tribunale di Napoli afferma che il criterio discretivo per distinguere ciò che è coperto dall'immunità da ciò che non lo è risiede nella verifica se, oltre all'opinione e al voto espressi, "residui una parte della condotta imputata al parlamentare". In tal caso la parte residua sarebbe possibile oggetto di procedimento. Si sostiene quindi, sempre facendo riferimento alla dottrina maggioritaria sul punto, che "in un patto corruttivo, quello che sicuramente è insindacabile è l'atto parlamentare con cui l'eletto asseritamene corrotto dà corso al suo impegno; ma la riunione preparatoria con cui ha stabilito i termini dell'accordo illecito e le modalità di pagamento della "tangente" sarà fuori dalla prerogativa. Se invece la condotta incriminata si esaurisce nell'opinione espressa nell'esercizio della funzione, il fatto sarà interamente insindacabile". Facendo applicazione di tali principi, il tribunale conclude quindi che la condotta di De Gregorio ricade al di fuori dell'immunità parlamentare di cui all'art. 68 Cost.

Tale conclusione si riflette sulla posizione dei privati corruttori: Berlusconi e Lavitola vengono di conseguenza condannati ex art. 321 c.p. per aver consegnato ad un pubblico ufficiale denaro in relazione al compimento di atti contrari ai doveri d'ufficio di cui all'art. 319 c.p.

 

7. A prima lettura, la conclusione a cui giunge il tribunale di Napoli non ci persuade pienamente. Troppo frettolosamente è stato accantonato, a nostro parere, il profilo della possibile qualificazione del caso in esame ex art. 318 c.p. che - dopo le riformulazioni ad opera delle l. n. 190 del 2012 e n. 69 del 2015 - recita ora: "il pubblico ufficiale che, per l'esercizio della funzione e dei suoi poteri, indebitamente riceve, per sé o per un terzo, denaro o altra utilità o ne accetta la promessa è punito con la reclusione da uno a sei anni". A detta del collegio, infatti, "non v'è questione per quanto concerne l'interessante tema relativo al mutato testo dell'art. 318 c.p. (...), semplicemente perché il caso in esame rientra a pieno e senza alcun dubbio nella corruzione per atto contrario ai doveri di ufficio, vista l'integrale e totale violazione dei doveri essenziali del parlamentare che Berlusconi e Lavitola richiesero a De Gregorio in cambio del denaro pattuito". È certamente vero che l'attuale versione di detto articolo, prevedendo una disciplina più afflittiva rispetto a quella previgente, non può trovare applicazione ai fatti oggetto del processo, in ottemperanza al fondamentale principio dell'irretroattività della legge penale successiva sfavorevole al reo. Tuttavia, ci si può domandare se la formulazione dell'art. 318 vigente all'epoca dei fatti (Corruzione per un atto d'ufficio) - la quale disponeva che "il pubblico ufficiale, che, per compiere un atto del suo ufficio, riceve, per sé o per un terzo, in denaro od altra utilità, una retribuzione che non gli è dovuta, o ne accetta la promessa, è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni" - possa meglio qualificare le condotte che qui rilevano.

Ciò che a nostro parere appare particolarmente problematico in relazione alla configurabilità del reato di cui all'art. 319 c.p. è la possibilità di qualificare un voto reso nell'aula del Senato come un "atto contrario ai doveri d'ufficio". Mal si adatta questa formulazione all'attività del parlamentare, che non è vincolata a norme o direttive chiare, ma al contrario gode della più ampia libertà ed autonomia derivanti dal mandato elettorale a questi conferito. Inoltre, la ricostruzione ad opera del collegio del c.d. statuto del parlamentare, ricavato da una libera esegesi di due articoli della Costituzione - che invero dettano esclusivamente indicazioni di principio - sembra quindi un'operazione interpretativa impropria che allarga eccessivamente il campo di applicazione della norma incriminatrice fino a sconfinare nell'analogia, e lasciando troppa libertà al giudice di decidere, nel caso concreto, quali condotte risultino contrarie ai doveri dei parlamentari e quali no.

Per tali ragioni, conclusivamente, ci avrebbe persuaso maggiormente una decisione che avesse qualificato la condotta contestata come corruzione per un atto d'ufficio ex art. 318 c.p., secondo la formulazione vigente all'epoca dei fatti.