ISSN 2039-1676


20 giugno 2016 |

I rapporti tra corruzione ex art. 319 c.p., traffico d'influenze illecite e millantato credito nella prima pronuncia della Cassazione sulla vicenda "Tempa Rossa"

Nota a Cass. pen., Sez. VI, 26 febbraio 2016, n. 23355, Pres. Paoloni, Est. Carcano, ric. Margiotta

 

1. La sentenza che può leggersi in allegato si rivela di particolare interesse per lo studio dei rapporti tra i reati di corruzione per un atto contrario ai doveri d'ufficio, traffico di influenze illecite e millantato credito. I fatti oggetto della sentenza della S.C. si riferiscono alla nota vicenda relativa al centro oli della Total "Tempa rossa" e vedono come protagonista un esponente politico, all'epoca dei fatti deputato del Partito Democratico, accusato di corruzione per atto contrario ai doveri d'ufficio nonché di turbata libertà degli incanti.

 

2. All'esito del giudizio di merito, la Corte d'Appello di Potenza, riformando la sentenza di assoluzione pronunciata all'esito di giudizio abbreviato dal giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Potenza, condannava l'imputato per il delitto di corruzione ex art. 319 c.p. perché, a fronte della promessa di 200 mila euro, aveva fatto pressioni sia sui manager della Total, sia sul Presidente della Giunta regionale della Basilicata, al fine di ottenere l'aggiudicazione delle gare d'appalto relative al Centro oli "Tempa Rossa" alle società riconducibili ad un determinato gruppo di imprenditori, facendo valere a tal fine il potere e l'influenza esercitati in ragione della qualità di parlamentare e di leader del Partito Democratico di Potenza.

La difesa dell'imputato proponeva quindi ricorso per Cassazione sostenendo che - pur ammettendo che la condotta oggetto dell'imputazione sia stata effettivamente realizzata dall'imputato - questa non può integrare il delitto di corruzione in quanto mancherebbe del tutto il requisito dell'atto d'ufficio che, secondo la giurisprudenza della Corte di cassazione, per quanto non di specifica competenza del "corrotto, deve pur tuttavia essere espressione "diretta o indiretta della funzione pubblica esercitata".

 

3. Il punto problematico su cui si sofferma la pronuncia qui annotata riguarda proprio la corretta interpretazione della nozione di 'atto d'ufficio', che il pubblico agente deve essersi impegnato a compiere quale corrispettivo dell'utilità a lui elargita o promessa.

A questo proposito la S.C. richiama la costante giurisprudenza di legittimità secondo cui "il delitto di corruzione appartiene alla categoria dei reati 'propri funzionali' perché elemento necessario di tipicità del fatto è che l'atto o il comportamento oggetto del mercimonio rientrino nelle competenze o nella sfera di influenza dell'ufficio al quale appartiene il soggetto corrotto, nel senso che occorre che siano espressione, diretta o indiretta, della pubblica funzione esercita da quest'ultimo". Da ciò deriva che "non ricorre il delitto di corruzione passiva se l'intervento del pubblico ufficiale in esecuzione dell'accordo illecito non comporta l'attivazione di poteri istituzionali propri del suo ufficio o non sia in qualche maniera a questi ricollegabile, e invece sia destinato a incidere nella sfera di attribuzioni di pubblici ufficiali terzi rispetto ai quali il soggetto agente è assolutamente carente di potere funzionale"[1].

 

4. Alla luce di questi principi e aderendo alle argomentazioni della difesa, la S.C. ha quindi escluso che la condotta del ricorrente integri il delitto di corruzione ex art. 319 c.p. poiché questi, in qualità di parlamentare membro della Commissione ambiente della Camera, non aveva alcuna competenza nella materia degli appalti e, inoltre, non era membro di alcun comitato parlamentare di controllo sull'estrazione del petrolio.

La Cassazione ritiene, invece, che condotte del genere di quelle addebitate all'imputato, qualora sussistano i presupposti di legge, possano rientrare nel paradigma del nuovo reato di traffico di influenze illecite di cui all'art. 346 bis c.p. Norma incriminatrice, tuttavia, inapplicabile nel caso concreto poiché introdotta in un momento successivo alla commissione dei fatti contestati.

 

5. A nostro avviso appaiono condivisibili le affermazioni della S.C. in ordine alla corretta interpretazione del requisito dell'atto d'ufficio. La condotta dell'imputato, volta a fare pressioni sui manager della Total e sul presidente della giunta regionale della Basilicata al fine di indirizzare le gare d'appalto relative a centro oli "Tempa rossa", non è certamente riconducibile al concetto di atto d'ufficio. Tali azioni non sono in alcun modo espressione della funzione parlamentare, né si può ritenere che l'imputato disponesse di un potere funzionale nei confronti dei dirigenti della Total o dei vertici istituzionali della regione Basilicata, ai quali era legato, tuttalpiù, da un rapporto di vicinanza politica.

 

6. Più problematico ci sembra, invece, il profilo relativo alla configurabilità del delitto di traffico di influenze illecite ex art. 346 bis c.p., ritenuto dalla S.C. non contestabile nel caso concreto in quanto nuova incriminazione, introdotta successivamente al momento della commissione dei fatti oggetto del giudizio. Senonché, a nostro avviso, prima di giungere a questa conclusione, apparentemente ineccepibile in applicazione del principio di irretroattività della legge penale, è necessario meglio considerare i profili di diritto intertemporale relativi alla condotta di chi, come nel caso concreto, prima dell'introduzione dell'art. 346 bis c.p., sfruttando relazioni effettivamente esistenti ha ricevuto la promessa o la dazione di un'utilità, per sé o per altri, quale prezzo della propria mediazione nei confronti di un pubblico ufficiale.

Prima della riforma che, nel 2012, ha introdotto la figura del traffico di influenze illecite, parte della giurisprudenza riconduceva quella condotta alla fattispecie del millantato credito ex art. 346 c.p., che puniva e punisce "chiunque, millantando credito presso un pubblico ufficiale, o presso un pubblico impiegato che presti un pubblico servizio, riceve o fa dare o fa promettere, a sé o ad altri, denaro o altra utilità, come prezzo della propria mediazione verso il pubblico ufficiale o impiegato". Si riteneva, infatti, che all'interpretazione proposta non fosse di ostacolo il termine 'millantare', che avrebbe potuto essere inteso anche nel senso di vantare, decantare, ostentare, un'influenza reale[2].

Se, ora per allora, si ritiene corretta questa soluzione interpretativa - oggi non più percorribile dopo l'introduzione dell'art. 346 bis c.p., che espressamente dà rilievo alla condotta di chi sfrutta "relazioni esistenti" con un pubblico funzionario, segnando così un confine e una cesura con il contiguo delitto di millantato credito - ne discende la continuità normativa tra gli artt. 346 e 346 bis c.p., il quale punisce, per l'appunto, chi "sfruttando relazioni esistenti con un pubblico ufficiale o con un incaricato di un pubblico servizio, indebitamente fa dare o promettere, a sé o ad altri, denaro o altro vantaggio patrimoniale, come prezzo della propria mediazione illecita verso il pubblico ufficiale o l'incaricato di un pubblico servizio"[3]. A noi sembra pertanto che se la S.C. avesse condiviso la segnalata premessa interpretativa, avrebbe allora dovuto qualificare il fatto oggetto del giudizio come traffico di influenze illecite e applicare la relativa disciplina sanzionatoria, ai sensi dell'art. 2, co. 4 c.p., in quanto più favorevole rispetto a quella del millantato credito.

L'esito di continuità normativa tra millantato credito e traffico di influenze illecite è stato d'altra parte affermato dalla Corte di Cassazione in una diversa pronuncia della stessa Sesta Sezione, la quale ha affermato che "le condotte di colui che, vantando un'influenza effettiva verso il pubblico ufficiale, si fa dare o promettere denaro o altra utilità come prezzo della propria mediazione o col pretesto di dover comprare il favore del p.u., condotte finora qualificate come reato di millantato credito ai sensi dell'art. 346, commi 1 e 2, c.p., devono, dopo l'entrata in vigore della l. n. 190 del 2012, in forza del rapporto di continuità tra norma generale e norma speciale, rifluire sotto la previsione dell'art. 346 bis c.p., che punisce il fatto con pena più mite"[4].

 


[1] Cfr. Cass. pen., Sez. VI, 4 maggio 2006, n. 33435, in DeJure. Nello stesso senso anche Cass. pen., Sez. VI, 2 marzo 2010, n. 20502, in DeJure.

[2] Cfr. per i riferimenti giurisprudenziali e dottrinali R. Pasella, sub art. 346 c.p., in E. Dolcini, G.L. Gatta (diretto da), Codice penale commentato, IV ed., 2015, p. 855.

[3] Cfr. per l'analisi approfondita dei profili di diritto intertemporale C. Benussi, sub art. 346 bis c.p., in E. Dolcini, G.L. Gatta (diretto da), Codice penale commentato, IV ed., 2015, p. 876.

[4] Cass. pen., Sez. VI, 28 novembre 2014, n. 51688, in DeJure