ISSN 2039-1676


06 aprile 2017 |

La Corte d'Appello di Milano sul reato di traffico d'influenze illecite, tra nuova incriminazione e modificazione in melius della disciplina prevista dall'art. 346 cod. pen.

Nota a C. App. di Milano, II sez. pen., sent. n. 1806/2015, ud. 26 settembre 2016 (dep. 23 dicembre), Pres. Piffer, est. Locurto

Contributo pubblicato nel Fascicolo 4/2017

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1. Con la sentenza che può leggersi in allegato, la Corte d'Appello di Milano si è pronunciata sui controversi rapporti tra il reato di cui all'art. 346 bis cod. pen., introdotto con L. 190/2012, e la preesistente fattispecie di cui all'art. 346 cod. pen. Di questo tema si è recentemente occupata la sesta sezione della Corte di Cassazione in due pronunce tra loro contrastanti[1], delle quali si era già dato conto in questa rivista[2]. L'arresto dei giudici milanesi ci offre lo spunto per analizzare brevemente il delitto di cui all'art. 346 e i suoi rapporti con la fattispecie introdotta con la novella del 2012.

 

2. I fatti oggetto della sentenza in esame hanno come sfondo l'approvazione del PGT del comune di Desio avvenuta tra il 2008 e il 2009, e vedono coinvolti esponenti politici locali, imprenditori e mediatori che, secondo la prospettazione accusatoria – accolta nella sentenza di primo grado, ma per larga parte non condivisa dai giudici d'appello – avrebbero concluso accordi illeciti al fine di introdurre varianti al piano urbanistico del comune lombardo finalizzate a favorire i predetti imprenditori, in cambio di favori economici o di appoggio alla carriera politica dei pubblici ufficiali.

 

3. Oltre ai profili di diritto intertemporale conseguenti all'introduzione nel nostro ordinamento del delitto di traffico d'influenze illecite, di cui subito diremo, si segnala all'attenzione del lettore un'interessante questione processuale sottoposta al vaglio dei giudici di secondo grado (affrontata al § 2.2.3. dei "motivi della decisione"): la nullità del decreto di giudizio immediato per violazione dell'art. 453 co. 1-bis cod. proc. pen., per mancanza dei presupposti applicativi in relazione ad alcuni dei capi d'imputazione.

La Corte milanese accoglie sul punto la censura di uno degli appellanti che aveva rimarcato come, per alcune delle fattispecie per le quali era stato disposto il giudizio immediato nei suoi confronti, egli non fosse stato sottoposto alla custodia cautelare, come invece richiede il co. 1-bis dell'art. 453 cod. proc. pen. Per tali capi d'imputazione la carcerazione preventiva era stata non solo non applicata, ma neanche richiesta dal Pubblico ministero, perché il massimo edittale previsto per tali fattispecie non raggiungeva la soglia prevista dall'art. 280 co. 2. L'art 453 co. 1-bis cod. proc. pen. infatti, come è noto, annovera tra i presupposti applicativi del rito l'effettiva applicazione della custodia preventiva per la fattispecie per cui si procede; e a nulla avrebbe giovato, secondo la difesa, che alcune delle fattispecie per le quali la misura non era stata applicata, fossero state poi riqualificate dal Pubblico ministero, in sede di richiesta di giudizio immediato, in fattispecie il cui limite edittale consentiva l'applicazione della custodia cautelare, perché ciò che rileva, tra i presupposti del rito, non è l'astratta applicabilità della misura, bensì la concreta sottoposizione dell'indagato alla stessa.

Nonostante il codice di rito non attribuisca espressamente al giudice del dibattimento il potere di controllare la sussistenza delle condizioni necessarie all'adozione da parte del g.i.p. del decreto di giudizio immediato, i giudici milanesi sposano la soluzione adottata sul punto dalle Sezioni Unite della Cassazione nel 2014[3], secondo le quali rimane comunque intatto il potere di qualsiasi giudice – anche di merito e anche di secondo grado, quindi – di verificare la sussistenza di nullità di ordine generale di cui all'art. 178 cod. proc. pen. Pertanto, il giudice del dibattimento può verificare l'eventuale violazione, tra le altre, delle norme procedimentali concernenti l'intervento, l'assistenza o la rappresentanza dell'imputato (art. 178 co. 1 lett. c cod. proc. pen.), tra le quali rientra certamente l'espletamento dell'interrogatorio di garanzia successivamente all'applicazione della custodia cautelare in carcere.

Ora, poiché la mancata applicazione di tale misura per alcune delle fattispecie per cui si era proceduto a giudizio immeditato, aveva inibito la possibilità per l'indagato di essere sentito dal g.i.p. sui relativi addebiti, la mancata audizione dello stesso si era tradotta in una violazione del diritto di difesa dell'indagato e, conseguentemente, in una nullità di ordine generale ex art. 178 co. 2 lett. c) cod. proc. pen., pienamente sindacabile dal giudice di merito, anche in secondo grado qualora introdotta come motivo d'impugnazione, secondo l'insegnamento delle Sezioni Unite citate.

 

4. Per quanto riguarda il delitto di traffico d'influenze illecite, la Corte d'Appello di Milano (§ 4 dei "motivi della decisione") prende le mosse dalla riqualificazione, operata dal giudice di primo grado, del fatto contestato ad alcuni degli imputati nel delitto di cui all'art. 319 quater cod. pen., rispetto all'originaria imputazione per concussione ex art. 317 cod. pen. Secondo l’originaria prospettazione della Procura, uno degli imputati, coordinatore provinciale di un importante partito, aveva fatto pressione su un imprenditore per ottenere l'utilizzo gratuito di un'autovettura per sé e una per la moglie, in cambio della sua intermediazione nei confronti di pubblici ufficiali (assessore e tecnico del comune di Desio) per l'approvazione di una variante al PGT di Desio favorevole all'imprenditore. Il Tribunale, non ravvisando nella condotta dell'intermediario il requisito della minaccia, aveva riqualificato il fatto nel reato di concorso in induzione indebita a dare o promettere utilità e condannato il mediatore, assolvendo però in fatto i due pubblici ufficiali poiché non era stato dimostrato alcun loro interessamento per favorire l'imprenditore.

La Corte d'Appello però non condivide la qualificazione operata dal giudice di prime cure. Anzitutto, rimarca la mancanza nel preteso induttore di alcuna qualifica pubblicistica – necessaria, essendo il delitto di cui all'art. 319 quater cod. pen. un reato proprio – e rileva come l'assoluzione per non aver commesso il fatto degli imputati pp.uu., soggetti "intranei", cioè in possesso della qualifica soggettiva, renda impossibile condannare per la medesima fattispecie l'imputato extraneus, privo della qualifica di p.u. In seconda battuta, l'utilizzo delle autovetture sarebbe stato determinato dalla condiscendenza dell'imprenditore nei confronti dell'intermediario e dall'aspettativa che egli riponeva nelle sue relazioni con l'ambiente politico, e non da una minaccia esplicita o implicita dell'agente o da una sua condotta induttiva.

I giudici milanesi escludono quindi la configurabilità dei delitti di cui agli artt. 317 e 319 quater cod. pen. e vagliano se la condotta dell'intermediario possa essere ritenuta costitutiva del delitto di cui all'art. 346 bis cod. pen. La norma, osserva la Corte, offre una tutela anticipata all'imparzialità della P.A., punendo chi offre e chi acquista una mediazione illecita nei confronti di un p.u. o di un incaricato di pubblico servizio, prima che tale mediazione possa diventare episodio corruttivo. Nel caso di specie, tuttavia, il traffico d'influenze illecite non può dirsi integrato, poiché manca, secondo la Corte, da un lato la prova dell'accordo di scambio mediazione/autovetture tra l'intermediario e il privato imprenditore – come dimostrato dai plurimi tentativi dell'imprenditore di ottenere, successivamente a un primo periodo di utilizzo gratuito, il pagamento delle autovetture – e dall'altro di una relazione tra tale presunto accordo e il compimento da parte dei pp.uu. di un atto contrario ai loro doveri d'ufficio – poiché l'intermediario si sarebbe limitato a procurare all'imprenditore degli incontri informativi con i pp.uu. e non ci sarebbe stato alcun condizionamento dell'attività amministrativa.

In ogni caso, continuano i giudici, "a prescindere dai superiori rilievi, la fattispecie di cui all'art. 346 bis c.p. sarebbe in ogni caso inapplicabile al caso in esame, per effetto di quanto disposto dall’art. 2 comma 1 c.p.: si tratta infatti di nuova incriminazione, introdotta successivamente alla commissione dei fatti contestati, per effetto della riforma dei reati contro la pubblica adottata con legge 6 novembre 2012 n. 190".

Secondo la Corte, quindi, essendo il delitto di traffico d'influenze illecite stato introdotto nel 2012, la norma non potrebbe essere applicata ai fatti contestati all'imputato perché commessi anteriormente al 2012, in virtù del divieto di incriminazioni retroattive di cui all'art. 2 co. 1 cod. pen.

 

* * *

 

5. Dopo la novella legislativa del 2012 si sono formati due orientamenti presso la giurisprudenza di legittimità in ordine alla punibilità dei fatti riconducibili alla vendita di influenze illecite commessi anteriormente all'intervento legislativo di riforma.

a) Secondo un primo orientamento[4], alla luce dell'interpretazione offerta dalla giurisprudenza maggioritaria in tema di art. 346 cod. pen. che ha storicamente ricompreso nel delitto di millantato credito non solo la "vendita di fumo", cioè la vanteria ingannevole di relazioni inesistenti, ma anche l'"acquisto di arrosto"[5], cioè la vendita della mediazione illecita col p.u., il traffico d'influenze, prima punibile ex art. 346 cod. pen., sarebbe ora punibile ex art. 346 bis cod. pen.

Questa prima interpretazione richiama un orientamento costante della giurisprudenza pre-riforma, che in virtù di una lettura del termine "millantare" incentrata sul bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice, colloca nell'alveo dell'art. 346 cod. pen. non solo la condotta di chi vende un'influenza che non ha – e pertanto inganna – ma anche di chi vende un'influenza che ha[6]. In un'ottica preventiva, difatti, se si ritiene che l'oggetto di tutela del delitto di millantato credito sia l'imparzialità della p.a., più che il patrimonio del soggetto ingannato che "beve" la millanteria, come farebbe intendere la collocazione della fattispecie, è logico affermare che tale bene è tanto più messo in pericolo quanto più le relazioni tra l'intermediario e il pubblico ufficiale sono effettive, e quindi l'episodio corruttivo diventa probabile.

In dottrina, la svalutazione dell'elemento del mendacio a favore della tutela dell'imparzialità amministrativa, e quindi l'estensione dell'area applicativa del millantato credito al traffico d'influenze, era stata inizialmente teorizzata da un illustre autore[7], e successivamente ripresa da numerosi altri che avevano evidenziato come la millanteria possa consistere non solo nel vanto di un credito che risulta inesistente, ma anche nell'amplificazione di un'influenza in realtà esistente, al fine di catturare il consenso – e l'utilità economica – del compratore[8].

b) Un diverso orientamento della Corte di Cassazione, invece, ritiene non applicabile il delitto di cui all'art. 346 bis cod. pen. a fatti commessi prima della sua introduzione, perché si tratterebbe di nuova incriminazione[9].

Questa seconda posizione – sposata dall'arresto della Corte d'Appello di Milano qui in commento – sottolinea la necessaria decettività della condotta del millantatore. La sentenza qui in esame pone in particolare l'accento sulla connotazione ingannatoria del verbo "millantare" e del sostantivo "pretesto" (utilizzato nel co. 2 della norma) e rigetta l'interpretazione maggioritaria dell'art. 346 cod. pen., sostenendo come il raggiro – costituito dalla vanteria di un'influenza non posseduta o non posseduta nella misura vantata – sia elemento essenziale della fattispecie.

A conferma della non sovrapponibilità tra le due fattispecie, i giudici milanesi danno rilievo alla punibilità del soggetto che compra l'influenza, prevista nella nuova fattispecie e non in quella preesistente; elemento che sottolineerebbe la natura bilaterale del traffico di influenze e che, invece, connoterebbe quale vittima il compratore di fumo, rendendo pertanto strutturalmente non sovrapponibili i due reati.

Viene richiamato inoltre un arresto della Corte di Cassazione post-riforma[10], per evidenziare come l'inclusione della vendita di influenze nell'art. 346 cod. pen. non possa essere considerato approdo unanime della giurisprudenza precedente alla novella del 2012, e quindi non possa assurgere a diritto vivente tale da giustificare l'applicazione dell'art. 2 co. 4 cod. pen., anziché dell'art. 2 co. 1 cod. pen.

 

6. Per quanto riguarda la dottrina successiva alla riforma, alcuni autori, condividendo l'interpretazione estensiva dell'art. 346 cod. pen., hanno ritenuto che con l'introduzione dell'art. 346 bis cod. pen. si sia verificata un'ipotesi di successione meramente modificativa di leggi penali, con conseguente applicazione della disciplina prevista dalla disposizione di nuovo conio anche ai fatti pregressi per il principio del favor rei[11].

Altri autori, ritenendo la lettura allargata dell'art. 346 cod. pen. espressione di un'inaccettabile interpretazione analogica fondata sulla ratio di tutela del delitto di millantato credito, hanno sostenuto che l'introduzione dell'art. 346 bis cod. pen. sia la "prova provata" dell'estraneità del traffico di influenze all'area di incriminazione dell'art. 346 cod. pen.; trattandosi di nuova incriminazione, il delitto non potrà essere applicato ai fatti commessi anteriormente alla sua introduzione in virtù del disposto di cui all'art. 2 co. 1 cod. pen.[12]

 

7. A giudizio di chi scrive, la soluzione adottata dai giudici milanesi, pur trovando eco favorevole in dottrina e nella recente giurisprudenza di legittimità, non è pienamente condivisibile[13].

Sussistono in effetti almeno due buoni argomenti a sostegno della tesi, anch'essa sostenuta dai giudici di legittimità e da parte della dottrina, che ravvisa nell'art. 346 bis cod. pen non una nuova incriminazione, bensì un caso di successione modificativa di leggi penali rispetto al previgente art. 346 cod. pen.

Il primo argomento è di carattere letterale, e s'incentra sui possibili significati del verbo "millantare". Non si vuole qui negare, come ricorda la sentenza in commento, che tale verbo ha nella sua radice etimologica il termine millanta, arcaico aggettivo numerale utilizzato per indicare una quantità indefinita, ingigantita, spesso in narrazioni fantasiose (lo usa Boccaccio nel Decamerone), e che pertanto un suo primo significato sia quello di "fingere per vanteria cose non vere"[14]. Un secondo significato di tale verbo, però, è quello di "vantare con esagerazione", e, più semplicemente, "vantarsi"[15]. Millantare significa quindi sicuramente "fingere di possedere qualcosa che non si ha", ma può anche voler dire "vantarsi, con esagerazione, di qualcosa che si possiede". Pertanto, un'interpretazione del delitto di millantato credito – quale quella formatasi nella giurisprudenza precedente al 2012 – che ricomprende nell'area d'incriminazione della norma anche la condotta del trafficante d'influenze (cioè di colui che vende un'influenza che può esercitare), è da un punto di vista letterale assolutamente sostenibile.

Si tenga inoltre presente che anche nella vendita della mediazione illecita può annidarsi un elemento di vanteria da parte del "venditore", strumentale a carpire il consenso del "compratore". Non solo: anche il termine "credito", come sottolinea parte della dottrina, ha una consistenza inafferrabile, e contribuisce all'ambiguità della disposizione codicistica: "è un quid che può avere una realtà solidissima, ma che ben difficilmente può essere misurato nella sua consistenza effettiva. La verifica è agevole quando la millanteria si risolve in un'invenzione sfrontata, per esempio quando taluno vanti un ascendente presso un funzionario che non conosce neppure; ma non quando si traduce nell'amplificazione di un nucleo di verità. Ciò che si può provare sono le relazioni e le aderenze che costituiscono il fondamento del credito, non il peso effettivo di quest'ultimo"[16].

Il secondo argomento riguarda la ratio del divieto di incriminazioni retroattive. Tale divieto mira a garantire libere scelte d'azione alle persone, rendendole edotte della illiceità dei loro atti prima che essi vengano compiuti. Per comprendere se ci si trovi di fronte a una nuova incriminazione, è necessario pertanto chiedersi se la condotta punita dalla nuova norma fosse previamente punita da un'altra norma; e la valutazione circa la preesistente punibilità non è da farsi esclusivamente in astratto, confrontando strutturalmente le disposizioni normative, ma anche e soprattutto in concreto, confrontando le disposizioni normative così come interpretate ed applicate dalla giurisprudenza.

Per quanto riguarda allora la condotta di chi vende a terzi la propria influenza illecita su un p.u., è indubitabile che la giurisprudenza, prima della novella del 2012, la collocava nell'art. 346 cod. pen., e che tale condotta era considerata illecita. Il cittadino aveva pertanto tutti gli elementi per prevedere, ben prima del 2012, che una tale condotta sarebbe stata considerata costitutiva di un reato. Ne consegue che l'art. 346 bis cod. pen. non ha introdotto una nuova incriminazione regolata dall'art. 2 co. 1 cod. pen., ma ha determinato rispetto all'art. 346 cod. pen., così come interpretato dalla giurisprudenza, un caso di successione di leggi penali nel tempo, disciplinato dal co. 4 dell'art. 2 cod. pen., con conseguente applicazione anche alle condotte poste in essere prima della novella della disciplina da essa prevista in quanto più favorevole.

 

 

[1] Cass. pen., sez. IV, ud.  28 novembre 2014, dep. 11 dicembre, n. 51688; Cass. pen., sez. IV, 26 febbraio 2016, dep. 6 giugno, n. 23355.

[2] Ubiali M. C., I rapporti tra corruzione ex art. 319 c.p., traffico d'influenze illecite e millantato credito nella prima pronuncia della Cassazione sulla vicenda "Tempa Rossa", in questa Rivista, 20 giugno 2016.

[3] Cass, pen., sez. un., ud. 26 giugno 2014, dep. 14 ottobre, n. 42979, in questa Rivista, con commento di Carboni L., Le Sezioni Unite e i termini per la richiesta di giudizio immediato: un passo avanti, ma solo a metà.

[4] Cfr. Cass. pen., sez. IV, n. 51688/2014, cit.: "i fatti commessi prima dell'entrata in vigore della L. n. 190 del 2012, nei quali il soggetto attivo ha ottenuto la promessa o dazione del denaro vantando un'influenza sul pubblico ufficiale effettivamente esistente, che pacificamente ricadevano sotto la previsione dell'art. 346 c.p., devono ora essere ricondotti nella nuova fattispecie descritta dall'art. 346 bis c.p., che, comminando una pena inferiore, ha realizzato un caso di successione di leggi penali regolato dall'art. 2 c.p., comma 4, con applicazione della norma più favorevole al reo".

[5] La pittoresca espressione si deve a Tagliarini F., Millantato credito, in Encicl. diritto, XXVI, Milano, 1976, p. 316.

[6] Cass. pen., sez. VI, ud. 18 maggio 1989, dep. 30 agosto, n. 11317; Cass. pen., sez. VI, 2 aprile 1997, dep. 27 maggio, n. 4915; Cass. pen., sez. VI, 4 marzo 2003, dep. 7 aprile, n. 16255; Cass. pen., sez. VI, 23 aprile 2008, dep. 15 settembre, n. 35340; Cass. pen., sez. VI, 17 marzo 2010, dep. 9 aprile, n. 13479.

[7] Pedrazzi C., Millantato credito, trafic d'influence, influence peddling, in Riv. it. dir. proc. pen., 1968, p. 934: "Ripugna a chiunque abbia un minimo di sensibilità che le persone che godono di ascendente, a qualunque titolo, presso i rappresentanti dei pubblici poteri, ne approfittino per fare denaro. E non è certo l'effettivo sussistere del credito a rendere accettabile il mercato: al contrario, se l'autentica vendita di fumo chi ha l'aria essenzialmente di un imbroglio ai danni dell'ingenuo acquirente, è proprio il traffico d'influenze reali che contiene un'offesa alla pubblica amministrazione, allo stato puro".

[8] Rampioni R., Millantato credito, in Dig. disc. penal., VII, Torino, 1993, p. 684; Semeraro P., I delitti di millantato credito e traffico d'influenze, Milano, 2000; Tagliarini F., Millantato credito, cit., pp. 316 e ss.

[9] Cfr. Cass. pen., sez. IV, n. 23355/2016.

[10] Cass. pen., sez. VI, 15 febbraio 2013, dep. 18 aprile 2013, n. 17941. Tale sentenza però, pur affermando – come è pacifico – che la differenza tra art. 346 e 346 bis cod. pen. si radica nell'inganno e nelle relazioni esistenti, non prende posizione sul diritto vivente antecedente alla novella del 2012, né si occupa di profili di diritto intertemporale.

[11] Dolcini E., Viganò F., Sulla riforma in cantiere dei delitti di corruzione, in Dir. pen. contemporaneo - Riv. trimestrale, n. 1 /2012, p. 241; Losappio V., Millantato credito e traffico d'influenze illecite. Rapporti diacronici e sincronici, in Cass. pen., 2015, p. 1036; Maiello V., Il delitto di traffico d'influenze indebite, in Legge Anticorruzione, AA. VV., a cura di Mattarella B., Pellissero M., Torino, 2013, p. 433; Pisa P., Il "nuovo" delitto di traffico di influenze, in Dir pen. proc. - Speciale Corruzione, 2013, p. 34; Ubiali M. C., Op. cit.,  in questa Rivista, 20 giugno 2016.

[12] Balbi G., Alcune osservazioni in materia di riforma dei delitti contro la pubblica amministrazione, in Dir. pen. contemporaneo - Riv. trimestrale, n. 3-4/2012, p. 10; Gambardella M., Corruzione, millantato credito e traffico d'influenze nel caso "Tempa Rossa": una debole tutela legislativa, in Cass. pen., 2016, p. 3597.

[13] Tale lettura, invero, resiste a una delle obiezioni che più spesso si muove all'interpretazione "estensiva" della norma, e cioè quella dell'illogicità della mancata punizione del "compratore di fumo". In quest’ultima prospettiva, si osserva frequentemente che, se tale mancata punizione può dirsi coerente con una visione dell'acquirente della millanteria quale vittima di un inganno – come avviene nell'interpretazione tradizionale –, altrettanto non può dirsi se l'acquirente della millanteria finisce per coincidere con il compratore dell'influenza illecita, che ingannato non è. La diversità strutturale tra millantato credito e traffico d'influenze, e quindi la natura di nuova incriminazione del delitto di cui all'art. 346 bis cod. pen., sarebbero dimostrate proprio dal fatto che in quest'ultima disposizione il privato compratore è punito al pari del mediatore. L'obiezione, tuttavia, coglie solo parzialmente nel segno. Secondo alcuni autori, infatti, già nel millantato credito caratterizzato dal mendacio l’impunità del "compratore di fumo" non sarebbe coerente: nulla vieta infatti – non lo fa certamente la norma – che il "compratore di fumo" sia parte attiva, promotore dell'accordo illecito avente a oggetto l'influenza sul p.u. (ex multis, Cass. pen., sez. VI, 22 febbraio 2005, n. 11441); e in questo caso, una visione di costui quale vittima che supinamente subisce una truffa è senz'altro riduttiva del ruolo svolto nella dinamica del fatto, e mal si concilia con la sua non punibilità, che il dato letterale dell'art. 346 cod. pen. non consente peraltro di superare.

[14] L'estensore scrive (p. 303) che millantare "nella lingua italiana significa amplificare ingrandendo di mille volte, vantare con molta esagerazione, fingere per vanteria qualità e possibilità che non si hanno". Si veda anche la definizione di tale verbo reperibile sul sito web del Vocabolario Treccani: "vantare con molta esagerazione, fingere per vanteria cose non vere".

[15] Cfr. la definizione del dizionario Zanichelli: "vantare, lodare esageratamente, gloriarsi, vantarsi".

[16] Pedrazzi C., Op. cit., in Riv it. dir. proc. pen., 1968, p. 932.