ISSN 2039-1676


30 aprile 2019 |

Ne bis in idem, bancarotta e truffa: la Corte di cassazione corregge un’applicazione generalizzante di un corretto canone ermeneutico

Cass., Sez. V, sent. 8 febbraio 2019 (dep. 27 marzo 2019), n. 13399, Pres. Pezzullo, rel. Tudino, ric. PM

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1. Con la sentenza che qui si segnala, la Cassazione interviene a correggere l’indebita estensione di un principio – correttamente enunciato in altra occasione dalla stessa Corte regolatrice[1] – in materia di ne bis in idem con riferimento alle fattispecie incriminatrici di bancarotta. Come si cercherà di mostrare, la decisione dei Giudici di legittimità coglie il nucleo del problema nella identificazione dell’idem factum, che il giudice del merito (qui il Tribunale di Venezia – Sezione del riesame) aveva erroneamente apprezzato, finendo con l’applicare l’esatto canone ermeneutico già fissato dai Giudici della legge a un caso estraneo alla disciplina di detto canone.

 

2. In sintesi estrema la vicenda oggetto del giudizio. Richiamando la ricordata pronuncia della Corte di cassazione, per la quale integra un caso di ne bis in idem la situazione nella quale il soggetto – imputato e successivamente giudicato per il delitto di appropriazione indebita di beni di una società commerciale – sia poi tratto a giudizio per  bancarotta fraudolenta patrimoniale per distrazione dal patrimonio sociale dei medesimi beni rispetto ai quali era stato in precedenza giudicato (e assolto), il Tribunale del riesame di Venezia aveva ritenuto di giungere a conclusione identica anche nell’ipotesi nella quale i beni sottratti al patrimonio sociale fossero il provento del delitto di truffa posto in essere dal medesimo soggetto, autore poi dei fatti distrattivi.

 

3. Immediatamente evidente la diversità strutturale rispetto al precedente, al quale era stato (esattamente invece in quel caso) applicato il principio interpretativo: truffa e appropriazione indebita differiscono già sul piano delle fattispecie astratte (sulla base delle quali debbono essere necessariamente individuati i tratti del fatto storico penalmente rilevante): «Diversa la condotta, nella truffa consistente nell'induzione in errore determinante l'atto dispositivo e, nella bancarotta per distrazione, nel prelievo per fini extrasociali; diverso è il danno del reato di truffa (determinato dall'entità dell'indebita prestazione erogata) rispetto al pregiudizio aggiuntivo della condotta distrattiva per il creditore (conformazione del credito secondo la partecipazione al riparto, secondo le regole della concorsualità), oltre al nocumento dell'affidabilità dei terzi»[2].

 

4. Altrettanto cruciale l’ulteriore notazione, che dà conto della differenza dei fatti storici riconducibili sotto le distinte fattispecie incriminatrici, differenza tuttavia essenziale nell’economia della valutazione del ne bis in idem alla luce dell’interpretazione ormai consolidata in dottrina e in giurisprudenza. Precisa infatti la segnalata sentenza che «il complessivo scenario fattuale [si presenta] articolato in due fasi: nella prima, si contesta la erogazione di finanziamenti bancari indotti dalla falsa documentazione della situazione delle società riferibili all'indagato o dalla utilizzazione di documenti mendaci, acquisti mediante accreditamento nelle casse sociali»; nella seconda «siffatte risorse, sottoposte ipso iure al vincolo di destinazione di cui all’art. 2740 c.c. nel momento stesso in cui sono state accreditate sui conti sociali, sono state successivamente prelevate e destinate a fini extrasociali, in violazione della garanzia patrimoniale generica». Netta la conclusione: «si tratta (…) di condotte non solo ontologicamente distinte, l'evento dell'una (conseguimento di ingiusto profitto con danno delle banche erogatrici tratte in errore) costituendo il prius logico e temporalmente antecedente della posteriore consumazione dell'altra, ma che esprimono, nel loro complesso, l'intenzionalità dello stesso fallimento».

 

5. Nessun dubbio sulla correttezza della soluzione ermeneutica raggiunta dal Giudice della legge nel presente caso: la identità del fatto (anche nell’accezione ormai pacificamente accolta di fatto storico prima della sua qualificazione giuridica) non equivale alla mera rilevazione di una vicenda la cui narrazione può essere determinata sulla base di parametri discrezionali, mutevoli a seconda della prospettiva assunta dall’osservatore in relazione alla sequenza delle circostanze sviluppatesi nel tempo. Ragionando in siffatto modo la descrizione del fatto finirebbe col dipendere non già dalla visuale penalmente significativa, bensì dalla diversa angolazione e, quindi, dal differente interesse in funzione dei quali il fatto stesso viene “ricostruito”. In proposito, appena il caso di rammentare che la descrizione del “fatto” sconta necessariamente il punto di vista del “descrittore”, nel senso che, a cominciare dalla determinazione dei suoi confini temporali all’interno della sequenza storica, la selezione degli elementi rilevanti all’interno della pressoché infinita ricchezza dei dati della realtà è condizionata dalle esigenze e dallo scopo ai quali la rilevazione (descrizione) del fatto è destinata.

In una prospettiva storica, la vicenda ben può essere colta nella sua unitarietà, partendo dalla considerazione – seguita dal Tribunale del riesame di Venezia nella sintesi che si legge nella decisione in commento – che le condotte fraudolente (nello specifico: «plurimi episodi di truffa in danno di istituti bancari, che avevano erogato finanziamenti alle predette società, poi fallite, alla stregua della falsa documentazione delle condizioni economiche e finanziarie delle predette, ed all'incendio doloso – finalizzato alla locupletazione del premio assicurativo – del capannone industriale in cui aveva sede») determinarono un profitto (quello delle truffe perpetrate) che finiva con il corrispondere esattamente con il quantum distratto dal patrimonio sociale, essendo fra l’altro, gli istituti di credito gli unici creditori della società fallita (si è «in presenza della distrazione di somme esclusivamente coincidenti con il profitto di tale reato, in mancanza di creditori diversi dagli istituti di credito che le avevano erogate»).

L’ottica assunta dal giudice territoriale, nella quale può parlarsi di un “fatto storico unico”, coglie tuttavia una dimensione diversa (e comunque non appropriata rispetto a quella dell’accertamento penalisticamente orientato). A ben vedere, l’arco temporale, entro il quale la sequenza delle circostanze viene considerata, accoglie una molteplicità di comportamenti fra loro autonomi e differenziati già sul piano storico-empirico (le condotte frodatorie che hanno prodotto il profitto illecito poi acquisito al patrimonio delle società da un lato e, dall’altro, le condotte distrattive che hanno avuto a conseguenza l’estromissione dallo stesso patrimonio sociale di somme di importo equivalente all’illecito profitto in precedenza conseguito).

Come ognun s’accorge, è sul versante naturalistico – prima ancora della qualificazione in termini giuridici – che i comportamenti mostrano la loro intrinseca diversità, caratteristica che li rende irriducibili alla nozione di identità del fatto, quando il “fatto” venga (doverosamente) scomposto in modo analitico secondo le esigenze della sua lettura in chiave giuridica (qui: secondo le categorie del diritto penale).

La decisione della Corte regolatrice fa esatto governo dell’approdo argomentativo in materia, un approdo che comprende con esattezza il punto di equilibrio tra la necessaria considerazione del factum, di cui apprezzare l’eventuale identità, come fatto storico non altrimenti determinato e fatto inteso come riflesso all’interno della fattispecie astratta (cioè come fatto còlto nella sua dimensione giuridica).  

 

6. In questo senso vale il richiamo al dictum del Giudice delle leggi[3] che, nel far propria l’impostazione “funzionalista” della Corte EDU ha adottato il criterio dell’idem storico-naturalistico nello scrutinio di legittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p., così esplicitamente riconoscendo l’operatività di “criteri normativi” nella selezione degli elementi da affiancare al mero accadimento materiale. Ha infatti precisato la Corte costituzionale «che la scelta tra le possibili soluzioni qui riassunte [in tema di qualificazione dell’idem] è di carattere normativo, perché ognuna di esse è compatibile con la concezione dell’idem factum. Questo non significa che le implicazioni giuridiche delle fattispecie poste a raffronto comportino il riemergere dell’idem legale. Esse, infatti, non possono avere alcun rilievo ai fini della decisione sulla medesimezza del fatto storico. Ad avere carattere giuridico è la sola indicazione dei segmenti dell’accadimento naturalistico che l’interprete è tenuto a prendere in considerazione per valutare la medesimezza del fatto»[4].

Sembrano riecheggiare, nell’argomentazione della Consulta, le coordinate metodologiche della raffinata elaborazione dogmatica sui parametri distintivi tra Tatbestand (astratto) e Typus (in concreto), dalla quale si ricava che i caratteri rilevanti (e perciò essenziali) della fattispecie concreta scontano necessariamente come presupposto gli elementi costitutivi della tipicità fissati dal legislatore in via generale e astratta, sotto forma di enunciati normativi o descrittivi[5]. A ben vedere, la stessa ricostruzione (rectius, la descrizione di un accadimento da apprezzare per scrutinarne la eventuale sussunzione sotto la figura del tipo legale) del fatto (còlto sempre nella sua valenza storico-naturalistica) dipende (e, anzi, procede) dalla considerazione degli elementi della fattispecie astratta[6].

Condivisibile dunque la conclusione per la quale l’idem debba, in ottica garantista, essere riferito al factum, senza tuttavia ridurlo al “fatto” indistinto nelle coordinate spazio-temporali della realtà, ma illuminato dagli elementi descrittivi (naturalistici, normativi, e normativo-giuridici) che compongono la fattispecie astratta: qualsiasi disamina del medesimo accadimento concreto (Typus) ai fini della sua sussunzione entro il divieto di bis in idem richiede invariabilmente di rintracciare gli elementi (descrittivi e normativi) che integrano l’astratta fattispecie (Tatbestand)[7].

Verrebbe da osservare che l’approccio del Tribunale del riesame ha còlto, invece che la singolarità dei fatti-condotte (essendo le specifiche e autonome condotte umane l’oggetto d’interesse del diritto penale al cospetto dell’esigenza di valutarne la riconducibilità alle astratte figure criminose), l’unità della vicenda criminosa.

 

7. Che i fatti-condotte possano essere letti anche nella loro unitarietà è prospettiva senz’altro plausibile: ne dà prova il Giudice della legge nella decisione in discorso, quando rileva che «il fallimento della società civetta» ha costituito l’obiettivo della complessiva condotta fraudolenta ordita in danno delle banche, ma anche di tutti i creditori, compreso l’Erario», tanto da essere suggestivo per connotare tale estremo sotto la specie prevista dall’art. 223 co. 2 n. l. fall. (bancarotta da operazioni dolose).

Ricordato che nel caso di specie le figure della c.d. bancarotta societaria impropria non erano state contestate (quantunque in qualche misura adombrate nella decisione del giudice del riesame), osserva esattamente la sentenza in commento che «l’ipotizzata creazione delle società al solo scopo di istituire imprese criminali a fini di illecita locupletazione consente (…) di qualificare il fallimento delle società come risultato di operazioni dolose». Si verte dunque in «una fattispecie che si caratterizza per la commissione di abusi di gestione o di infedeltà ai doveri imposti dalla legge all'organo amministrativo nell'esercizio della carica ricoperta, ovvero ad atti intrinsecamente pericolosi per la "salute" economico-finanziaria della impresa e postulano una modalità di pregiudizio patrimoniale discendente non già direttamente dall'azione dannosa del soggetto attivo (distrazione, dissipazione, occultamento, distruzione), bensì da un fatto di maggiore complessità strutturale riscontrabile in qualsiasi iniziativa societaria implicante un procedimento o, comunque, una pluralità di atti coordinati all'esito divisato (…); ipotesi, questa, che si sostanzia in un'eccezionale fattispecie a sfondo preterintenzionale, che richiede la dimostrazione della consapevolezza e volontà dell'amministratore della complessa azione arrecante pregiudizio patrimoniale nei suoi elementi naturalistici e nel suo contrasto con i propri doveri a fronte degli interessi della società, nonché dell'astratta prevedibilità dell'evento di dissesto quale effetto dell'azione antidoverosa».

Anche la configurabilità della fattispecie astratta dell’art. 223 co. 2 n. 1 l. fall. (qui rilevante in rapporto al reato di false comunicazioni sociali) viene correttamente inquadrata in relazione al tema dell’identità del fatto rispetto al canone del ne bis in idem. La circostanza che «la falsa prospettazione della affidabilità delle società coinvolte è stata asseverata (…) mediante produzione di bilanci falsi, con conseguente autonoma rilevanza del nesso di derivazione causale, posto che in tema di bancarotta fraudolenta impropria da reato societario, la nuova formulazione della L. Fall., art. 223 comma 2, n. 1, introdotta dal D. Lgs. 11 aprile 2002, art. 4, si caratterizza per l'introduzione di un elemento totalmente nuovo, rappresentato dal rapporto di causalità tra il falso in bilancio (o le altre ipotesi di reato societario richiamate dalla nuova disposizione) ed il dissesto della società, che conferisce alla nuova fattispecie un significato lesivo del tutto diverso rispetto alla precedente (…) e, all'evidenza, rispetto al reato di truffa consumato mediante utilizzazione degli stessi bilanci».

Riguardato il problema del confronto strutturale tra le fattispecie, la considerazione della Corte regolatrice mette in evidenza un profilo ulteriore bensì rilevante: le figure di bancarotta impropria disegnate dall’art. 223 co. 2 numeri 1 e 2 l. fall. non danno luogo a una figura di concorso formale di reati rispetto alle fattispecie della bancarotta fraudolenta patrimoniale ovvero di quella documentale, bensì, eventualmente, a un’ipotesi di concorso materiale[8] e, con riguardo all’eventuale intersezione con la struttura del delitto di truffa, ne rimane egualmente esclusa una caratterizzazione in termini di continenza, tanto più che – come emerge nettamente nel caso di specie – le condotte frodatorie si sono esaurite nella acquisizione del profitto illecito, al quale le successive condotte distrattive hanno impresso una ulteriore destinazione illecita, mentre le altre, riconducibili alle figure descritte nell’art. 223 co. 2 l. fall., costituiscono un ulteriore fatto autonomo e diverso, pur illuminato da un medesimo disegno criminoso[9].

Le menzionate fattispecie di bancarotta societaria impropria rimandano a estremi fattuali naturalisticamente differenti rispetto a quelli riconducibili al modello legale dell’art. 640 c.p.; le condotte abusive, poste in essere dagli amministratori della società strumentalmente costituita, sono state causali rispetto al fallimento della società stessa, determinando altresì l fuoriuscita degli attivi (nel caso: il corrispondente dell’illecito profitto della truffa) dal patrimonio sociale.

Come ognun vede, si tratta di fatti (illeciti) fra loro del tutto diversi sul piano storico, collocati (a tacer d’altro) in ambiti temporali differenti, indiscusso essendo che le condotte fraudolente precedono (in questa occasione: necessariamente) quelle successive, integratrici delle fattispecie astratte proprie dei delitti di bancarotta (pur configurabili nella complessiva vicenda processuale).

Se pure non può dubitarsi che «l’intenzionale abuso dello strumento societario» (come lo chiamano i giudici della legittimità) sia ambientato in una serie di condotte nell'insieme dolose, che «trovano una riconduzione unitaria solo in una previa ideazione strumentale e teleologicamente orientata», non deve però smarrirsi il diverso profilo invece rilevante ai fini dell’apprezzamento dell’identità del fatto, presupposto indefettibile per l’applicazione del canone espresso dal divieto di bis in idem. La radicale disomogeneità strutturale tra le fattispecie astratte dei delitti di truffa e appropriazione indebita (anche in rapporto alle figure dei delitti di bancarotta) è destinata a riflettersi (inevitabilmente) nella rilevazione degli estremi del fatto (storico), del quale si debba poi apprezzare l’(eventuale) identità.

 

8. Riguardato il caso deciso dalla presente sentenza sotto il versante dei singoli comportamenti concreti (beninteso, senza smarrire la prospettiva penalistica rappresentata dalle fattispecie astratte ipoteticamente applicabili: ciò che illumina la ricerca degli estremi del fatto da ricercare), è agevole avvedersi che le condotte frodatorie sono costituite da comportamenti non soltanto fattualmente anteriori (sul piano logico e cronologico), ma anche autonomi e diversi per morfologia e contenuto rispetto a quelli distrattivi degli attivi sociali nonché a quelli consistenti nelle false rappresentazioni contabili (comportamenti peraltro tutti causalmente efficienti rispetto al fallimento). È proprio tale diversità strutturale che segna l’insussistenza dell’identità del fatto, insussistenza che preclude in radice l’operatività del canone del ne bis in idem.

Sicché nel caso di specie ne risulta definitivamente dimostrata l’inapplicabilità del ricordato canone, in modo circolarmente coerente con il rilievo, sul piano delle fattispecie astratte – come ricordano i Giudici della legge – che «il rapporto strutturale tra i reati di appropriazione indebita e truffa rispetto alla bancarotta per distrazione sono assolutamente diversi, ravvisandosi solo nel primo un rapporto di continenza tra fattispecie».

D’altronde la contrastata impostazione del Tribunale del riesame avrebbe finito con «il riassumere nel solo disvalore del fatto previsto dall’art. 640 c.p. le più gravi forme di manifestazione del reato di bancarotta, realizzate mediante l’intenzionale abuso dello strumento societario per drenare, a fini personali, risorse e utilità, con conseguenze pregiudizievoli per il ceto creditorio nel suo complesso – che, allo stato, non può dirsi limitato ai soli soggetti economici danneggiati dal reato di truffa – e dell’intero sistema economico». Il tratto argomentativo qui riportato suggerisce una notazione ulteriore: la sentenza in discorso, pur esattamente alludendo al profilo assiologico (là dove richiama il tema dell’esaurimento nel delitto di truffa – secondo la prospettazione del Tribunale del riesame – del disvalore dei delitti di bancarotta), non fonda su tale profilo la ratio decidendi, avendo invece riguardo alla materialità delle condotte (chiari in tal senso gli espliciti riferimenti al “fatto” corrispondente a quello descritto e alle “forme di manifestazione”), in piena aderenza a quanto dalla stessa sentenza in precedenza osservato «l’identità del fatto sussiste quando vi sia corrispondenza storico-naturalistica nella configurazione del reato, considerato in tutti i suoi elementi costitutivi (condotta, evento, nesso causale) e con riguardo alle circostanze di tempo, di luogo e di persona (Sez. U, n. 34655 del 28/6/2005, P.G. in proc. Donati, Rv 231799). Tanto a condizione che, nell'applicazione pratica, tutti gli elementi del reato siano assunti nella loro dimensione empirica, sicché anche l'evento non potrà avere rilevanza in termini giuridici, ma assumerà significato soltanto quale modificazione della realtà materiale conseguente all'azione o all'omissione dell'agente. In tal modo, è assicurato il massimo dispiegarsi della funzione di garanzia sottesa all’art. 649 c.p.p., senza compromissione di altri principi di rilievo costituzionale, e si evita che la valutazione comparativa – cui è chiamato il giudice investito del secondo giudizio – sia influenzata dalle sempre opinabili considerazioni sulla natura dell'interesse tutelato dalle norme incriminatrici, sui beni giuridici offesi, sulla natura giuridica dell'evento, sul ruolo che ha un medesimo elemento all'interno delle fattispecie, sulle implicazioni penalistiche del fatto e su quant'altro concerne i singoli reati».

In conclusione: se l’errata applicazione al caso di specie del canone del ne bis in idem dipende – come esattamente osservato dal Giudice della legittimità – da «un’interpretazione generalizzante» di principi ermeneutici corretti, estesi invece a una fattispecie concreta «profondamente diversa da quella che ha dato luogo alla loro enunciazione», non sembra azzardato notare che tale generalizzazione sia stata resa possibile dalla considerazione della vicenda secondo un punto di vista che ha finito con il privilegiare l’aspetto complessivo degli accadimenti, secondo cadenze quasi cronachistiche (il fatto riassunto nel suo esito immediatamente lesivo: la truffa e il profitto ritrattone), dimentica della pur necessaria valenza giuridica, intesa come la componente pur sempre indispensabile per cogliere e selezionare dall’indistinta ricchezza della vicenda storica i tratti analitici significativi nella dimensione del penalmente rilevante.

 

* * *

 

9. Della decisione qui commentata due ulteriori profili meritano d’essere segnalati, quantunque non direttamente connessi allo specifico tema del ne bis in idem.

 

10. Dapprima l’esatta distinzione ribadita dal Giudice della legge fra impresa criminale, come tale integralmente volta alla realizzazione di comportamenti illeciti generatori di profitto e impresa che, pur dedita (anche) ad attività lecite, pone tuttavia in essere condotte criminose egualmente produttive di reddito (illecito). Ferma tale distinzione, le (eventuali) successive condotte distrattive perpetrate dagli amministratori della società rientrano comunque nell’area di applicabilità dei delitti di bancarotta, irrilevante in proposito essendo la provenienza (lecita o illecita) dei beni sociali sottratti alla loro funzione di garanzia del ceto creditorio. Ricorda perspicuamente la Corte regolatrice che sussiste «profonda divergenza, anche sul piano strutturale, delle condotte materiali, in punto di declinazione dell'iter criminoso, in quanto l'impresa criminale finalizzata alla realizzazione di truffe si esaurisce con l'acquisizione dei beni al patrimonio dell'impresa decotta, mentre la distrazione degli stessi beni, suscettibile di integrare la bancarotta fraudolenta patrimoniale di cui alla L. Fall., art. 216, comma 1, n. 1, è successiva e si ricollega ad una nuova ed autonoma azione, con la conseguenza che i due reati possono concorrere». Nessun dubbio infatti sul rilievo che «la provenienza illecita dei beni non esclude il reato di bancarotta fraudolenta patrimoniale, giacché per beni del fallito L. Fall., ex art. 216, si intendono tutti quelli che fanno parte della sfera di disponibilità del patrimonio, indipendentemente dalla proprietà e dal modo del loro acquisto, rientrandovi, pertanto, anche i beni ottenuti con sistemi illeciti quali la truffa, in quanto l'iter criminoso di quest'ultima si esaurisce con l'acquisizione dei beni al patrimonio dell'imprenditore decotto, mentre la sottrazione bancarottiera degli stessi beni a quest'ultimo è successiva e si ricollega ad una nuova ed autonoma azione». Constatazione che mostra – anche da questo diverso angolo prospettico – la radicale differenza delle condotte còlte già sul piano naturalistico.

 

11. La seconda notazione prende le mosse da un cursorio passaggio argomentativo della presente sentenza: «la dichiarazione di fallimento delle società beneficiarie ha non solo reso punibile una condotta, compiuta in violazione dei doveri dell'imprenditore che, in assenza della predetta dichiarazione, avrebbe costituito post factum rispetto all'apprensione dell'ingiusto profitto e, come tale, sarebbe rimasta assorbita nell'evento del reato di cui all’art. 640 c.p., ma è rientrata nello spettro delle conseguenze previste e volute».

L’affermazione suggerisce qualche riflessione ulteriore. Se è indubitabilmente esatto il rilievo riguardante la dichiarazione di fallimento in ordine alla punibilità dei fatti di bancarotta, non sembra del tutto condivisibile il rilievo secondo il quale l’apprensione dell’ingiusto profitto della truffa sarebbe – in mancanza del fallimento – rimasta confinata nell’area di post-fatto non punibile, in quanto assorbito dall’evento della truffa medesima.

A ben vedere: se la condotta di apprensione dell’ingiusto profitto interviene successivamente al momento nel quale il profitto stesso è entrato a far parte del patrimonio sociale (anche soltanto come diritto di credito o come aspettativa giuridicamente tutelata), non sembra allora revocabile in dubbio che nei confronti degli amministratori infedeli potrebbe configurarsi il reato di appropriazione indebita aggravata. Se invece la percezione del profitto fosse intervenuta in epoca anteriore a quella in precedenza ipotizzata, dovrebbe valutarsi – in presenza degli altri requisiti tipici – la sussistenza del delitto di autoriciclaggio. In proposito vale la pena di rammentare che una recente decisione della Corte di cassazione[10] ha esattamente delineato i margini del concorso fra i delitti di bancarotta fraudolenta patrimoniale e autoriciclaggio, stimando non configurabile l’ipotesi dell’art. 648-ter.1 c.p. nel caso di beni distratti a favore di società gestite dal medesimo amministratore in quanto nel caso deciso faceva difetto nella condotta distrattiva l’elemento costitutivo rappresentato dall’idoneità dissimulatoria. Alla corrispondente conferma della configurabilità di concorso tra le fattispecie di bancarotta fraudolenta patrimoniale e autoriciclaggio, quando di quest’ultima siano integrati i requisiti tipici, fa da contrappunto il rilievo che nel caso di sottrazione di beni sociali di provenienza illecita – se attuata con modalità idonee ad occultarne la provenienza illecita – può trovare comunque applicazione il delitto di autoriciclaggio.

 

 


[1] V. Cass. pen. Sez. V, 15 febbraio – 6 giugno 2018, n. 25651, Pres. Fumo, rel. Settembre, ric. Pessotto, in questa Rivista, 11 giugno 2018, con nota di F. Mucciarelli, Bancarotta distrattiva, appropriazione indebita e ne bis in idem: una decisione della Corte di Cassazione innovativa e coerente con i principi costituzionali e convenzionali.

[2] Così Cass. sentenza in commento.

[3] Corte cost., sent. 31.5.2016 - 21.7.2016, n. 200, in Dir. pen. proc., 2016, 1588 (con nota di D. Pulitanò, Ne bis in idem. Novità dalla Corte costituzionale e problemi aperti), ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 649 c.p.p. «nella parte in cui esclude che il fatto sia il medesimo per la sola circostanza che sussiste un concorso formale tra il reato già giudicato con sentenza divenuta irrevocabile e il reato per cui è iniziato il nuovo procedimento penale [, statuendo altresì che il] fatto storico-naturalistico rileva, ai fini del divieto di bis in idem, secondo l’accezione che gli conferisce l’ordinamento. Fatto, in questa prospettiva, è l’accadimento materiale, affrancato dal giogo dell’inquadramento giuridico, ma pur sempre frutto di un’addizione di elementi la cui selezione è condotta secondo criteri normativi. All’unicità della condotta può non corrispondere la medesimezza del fatto, la quale può discendere dall’identità storico-naturalistica di elementi ulteriori rispetto all’azione o all’omissione dell’agente, siano essi costituiti dall’oggetto fisico di quest’ultima, ovvero anche dal nesso causale e dall’evento».

[4] Corte cost., sent. n. 200/2016, cit.

[5] Cfr W. Hassemer, Tatbestand und Typus. Untersuchungen zur strafrechtlichen Hermeneutik, Köln-Berlin-Bonn-München, 1968 (trad. it., Fattispecie e tipo. Indagini sull’ermeneutica penalistica, a cura di G. Carlizzi, Napoli, 2007), passim. Per esemplificare si immagini l’inquadramento di una qualsiasi condotta furtiva nell’ipotesi-base ex art. 624 c.p., ovvero in quella punita più severamente per aver commesso il fatto “con destrezza”, secondo la definizione dell’art. 625, n. 4, c.p.: qualificare il comportamento come furto semplice o aggravato impone inevitabilmente di rintracciare hic et nunc le cadenze dell’astratta fattispecie incriminatrice e del correlativo elemento circostanziale. La caratterizzazione della “destrezza” dipende dalla (e diviene tratto necessario dell’accertamento giudiziale in ragione della) esigenza di rapportare il fatto (nella sua valenza storico-naturalistica) all’elemento normativo (giuridico) tipico della fattispecie astratta.

[6] Evidente, d’altro canto, come la precisazione contenuta nell’ultima parte dell’art. 649, co. 1, c.p.p. (in ordine alla identità del fatto con riguardo al “titolo”, al “grado” o “alle circostanze”) non abbia valenza risolutiva per la problematica in esame nonostante le approfondite considerazioni della dottrina, soprattutto processual-penalistica. In argomento v., a proposito del requisito del “grado” di offensività, F. Cordero, Procedura penale, 8a ed., Milano, 2006, 1238, ad avviso del quale la verificazione di un evento nei reati c.d. progressivi (come accade nel passaggio dal tentativo alla consumazione di un delitto, oppure nelle fattispecie preterintenzionali) non sarebbe preclusiva all’operatività del ne bis in idem sancito dalla disposizione del codice di rito richiamata nel testo; in senso analogo, anche sulla scorta di considerazioni equitative e applicando il principio di specialità, G. Lozzi, Profili di una indagine sui rapporti tra “ne bis in idem” e concorso formale di reati, Milano, 1974, 53.

Indipendentemente dalle posizioni difformi della giurisprudenza maggioritaria (tendente come noto a restringere sensibilmente lo spazio applicativo dell’art. 649 c.p.p.), occorre ricordare due ulteriori tesi interpretative tradizionalmente emerse soprattutto in prospettiva sostanzialistica: taluni intendono il “fatto” come «la condotta esteriore ... che fu presa in considerazione nella precedente sentenza», con esclusione di ogni altro elemento della fattispecie legale (in questi termini A. Pagliaro, Fatto e diritto processuale penale, in Enc. dir., XVI, Milano, 1967, 964); d’altro canto si identifica il “fatto” nella c.d. fattispecie giudiziale, id est il risultato del processo di astrazione compiuto dal giudice al fine di verificare la corrispondenza del fatto alla norma incriminatrice (G. De Luca, Concorso formale di reati e limiti oggettivi alla cosa giudicata penale, in Riv. it. dir. proc. pen., 1960, 202).

[7] In proposito si considerino anche Cass. pen. Sez. Un., 23.2.2017 − 28.42017, n. 20644, Pres. Canzio, rel. Petruzzellis, con nota di S. Finocchiaro, Il buio oltre la specialità. Le Sezioni Unite sul concorso tra truffa aggravata e malversazione, in questa Rivista, fasc. 5/2017, 344 ss., nonché Cass. pen. Sez. Un., 22.6.2017 − 12.9.2017, n. 41588, Pres. Canzio, rel. Montagni, con nota di G. Serra, Le Sezioni Unite e il concorso apparente di norma, tra considerazioni tradizionali e nuovi spunti interpretativi, in questa Rivista, fasc. 11/2017, 173 ss.

[8] Riprendendo un consolidato insegnamento della giurisprudenza di legittimità, precisa la sentenza in esame che «i reati di bancarotta fraudolenta patrimoniale e documentale (L. Fall., art. 216 e art. 223 comma 1) e quello di bancarotta impropria di cui alla L. Fall., art. 223 comma 2, n. 2, hanno ambiti diversi: il primo postula il compimento di atti di distrazione o dissipazione di beni societari ovvero di occultamento, distruzione o tenuta di libri e scritture contabili in modo da non consentire la ricostruzione delle vicende societarie, atti tali da creare pericolo per le ragioni creditorie, a prescindere dalla circostanza che abbiano prodotto il fallimento, essendo sufficiente che questo sia effettivamente intervenuto; il secondo concerne, invece, condotte dolose che non costituiscono distrazione o dissipazione di attività – né si risolvono in un pregiudizio per le verifiche concernenti il patrimonio sociale da operarsi tramite le scritture contabili – ma che devono porsi in nesso eziologico con il fallimento. Ne consegue che, in relazione ai suddetti reati, mentre è da escludere il concorso formale è, invece, possibile il concorso materiale qualora, oltre ad azioni ricomprese nello specifico schema della bancarotta L. Fall., ex art. 216, si siano verificati differenti ed autonomi comportamenti dolosi i quali – concretandosi in abuso o infedeltà nell'esercizio della carica ricoperta o in un atto intrinsecamente pericoloso per l'andamento economico finanziario della società – siano stati causa del fallimento (Sez. 5, n. 533 del 14/10/2016 - dep.2017, Zaccaria, Rv. 269019, N. 17978 del 2010 Rv. 247247, N. 24051 del 2014 Rv. 260142)».

[9] Osserva in proposito la sentenza in esame che «tra i diversi fatti, contestualmente valutati nella presente fase cautelare, potrà sussistere un vincolo rilevante ex art. 81 cpv. c.p., in presenza di reati distinti, che trovano una riconduzione unitaria solo in una previa ideazione strumentale e teleologicamente orientata».

[10] V. Cass. pen. Sez. V, 1 febbraio – 1 marzo 2019, n. 8851, Pres. Morelli, rel. Borrelli, in Società, 2019, 485 ss., con nota di C. Santoriello, I rapporti fra bancarotta fraudolenta patrimoniale ed autoriciclaggio in una decisione della Cassazione, il quale invece propende per la non configurabilità in assoluto del delitto di autoriciclaggio di beni oggetto di condotte distrattive tipiche ai sensi dell’art. 216 l. fall. L’assunto non sembra condivisibile, in quanto l’eventuale ulteriore trasferimento dei beni sociali, se attuato con modalità idonee a dissimularne la provenienza delittuosa (la distrazione fallimentare) realizza – al contrario – una condotta ulteriore, perfettamente inquadrabile nello schema tipico dell’art. 648-ter.1 c.p.