8 maggio 2017 |
Il buio oltre la specialità. Le Sezioni Unite sul concorso tra truffa aggravata e malversazione
Nota a Cass., SSUU, sent. 23 febbraio 2017 (dep. 28 aprile 2017), n. 20664, Pres. Canzio, Rel. Petruzzellis, ricc. Stalla e Battilana
Contributo pubblicato nel Fascicolo 5/2017
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1. Con ordinanza dello scorso novembre (già pubblicata in questa Rivista, clicca qui per accedervi) era stata sottoposta all’attenzione delle Sezioni Unite la questione di diritto relativa alla possibilità, o meno, che il reato di malversazione in danno dello Stato ex art. 316-bis c.p. concorra con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche ex art. 640-bis c.p.
Con la sentenza in oggetto, il quesito è stato risolto dalle Sezioni Unite affermativamente, nel senso che “Il reato di malversazione in danno dello Stato (art. 316-bis cod. pen.) concorre con quello di truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis cod. pen.)”.
2. Ricapitoliamo il caso di specie. Le due imputate, attraverso la creazione di uno schermo societario fittizio, erano riuscite a ottenere fraudolentemente un mutuo a tassi agevolati da parte di Sviluppo Italia S.p.a., contestualmente impegnandosi a non trasferire fuori della sede i beni ammessi alle agevolazioni. Successivamente, la società beneficiaria aveva proceduto a trasferire a una delle imputate stesse alcuni beni, in assenza di autorizzazione e in violazione del vincolo di destinazione impresso originariamente.
Il primo fatto – relativo all’ottenimento fraudolento dell’erogazione – è stato qualificato come truffa aggravata per il conseguimento di erogazioni pubbliche (art. 640-bis c.p.), sebbene ne sia stata poi dichiarata l’estinzione per prescrizione.
Il secondo fatto – consistente nella violazione del vincolo di destinazione – è stato invece sussunto nella fattispecie di malversazione a danno dello Stato di cui all’art. 316-bis c.p. e ha portato alla condanna delle imputate.
Queste ultime, nel ricorso dinanzi alla Corte di cassazione avevano dedotto, tra gli altri motivi, la violazione di legge e l’illogicità della motivazione, adducendo come i due reati contestati non possano tra loro concorrere, essendo il secondo (la malversazione) sussidiario rispetto al primo (la truffa aggravata ex art. 640-bis c.p.).
3. Al riguardo si era effettivamente registrato un contrasto giurisprudenziale.
Un primo orientamento, maggioritario in giurisprudenza, riteneva che i due reati concorressero, in virtù della diversità della materia trattata e, dunque, dell’inapplicabilità del criterio di specialità ex art. 15 c.p.[1].
Un secondo opposto orientamento riteneva che i due reati non concorressero, poiché offensivi del medesimo bene giuridico e, dunque, in rapporto di sussidiarietà: il secondo (la malversazione) rimanendo assorbito nel primo e più grave reato di truffa ex art. 640-bis c.p.[2].
4. Interpellate sul punto dalla VI sezione della Cassazione, le Sezioni Unite hanno optato per una soluzione della questione che, nelle conclusioni, si allinea al primo orientamento giurisprudenziale sopra menzionato: i due reati possono tra loro concorrere.
5. Nelle motivazioni della pronuncia, la Corte esordisce dichiarandosi in linea con quell’orientamento giurisprudenziale delle Sezioni Unite[3] che considera il criterio di specialità ex art. 15 c.p. quale unico principio legalmente previsto in tema di concorso apparente (cfr. § 3.2). Principio – ritiene di precisare la Corte – che la più recente giurisprudenza europea in tema di bis in idem (in particolare: Corte Edu, Grande Camera A e B. c. Novergia) non ha revocato in dubbio (§ 4). Qualsiasi criterio valutativo diverso da quello di specialità è considerato privo di “sostegno ermeneutico” (§ 5).
A questa considerazione preliminare, segue un confronto strutturale tra le due fattispecie incriminatrici in esame. La Corte rileva anzitutto come le due norme siano entrate in vigore a brevissima distanza di tempo, pari a poco più di un mese, senza che fosse prevista alcuna clausola di riserva (§ 6.2). Si sofferma poi sul bene giuridico tutelato dalla norma di cui all’art. 640-bis c.p., individuandolo non solo nell’interesse patrimoniale dello Stato, ma anche nell’interesse a una corretta individuazione del beneficiario delle risorse pubbliche e, quindi, a una equa distribuzione delle risorse tra i privati (§ 7.1).
6. Quest’ultima considerazione è poi posta in relazione alla conclusione per cui è assente alcun “nesso di interdipendenza necessaria” tra i due reati contestati (§ 7.2) In effetti – da un lato – gli artifici e i raggiri non costituiscono l’unica modalità attraverso la quale può ottenersi la percezione di finanziamenti e – dall’altro – la percezione illegittima non necessariamente sfocia nella mancata destinazione alle finalità previste.
Sicché possono immaginarsi tre possibili scenari:
a) l’ipotesi in cui il privato ottenga lecitamente il finanziamento ma ometta di destinarlo alle finalità pattuite: fattispecie che integra pacificamente solo il reato di malversazione ex art. 316-bis c.p.;
b) l’ipotesi in cui il privato ottenga il finanziamento illecitamente ma poi destini le somme effettivamente alle finalità pattuite: fattispecie che senza dubbio integra solamente il reato di truffa ex art. 640-bis c.p.;
c) l’ipotesi – l’unica controversa – in cui il privato ottenga il finanziamento illecitamente e successivamente utilizzi le somme per scopi privati. Quest’ultima ipotesi – corrispondente al caso di specie e considerata dalle stesse Sezioni Unite come la “più frequente” nella prassi – integrerebbe un concorso materiale di reati, anche in ragione del fatto che nessun richiamo testuale all’interno dell’art. 316-bis c.p. consente di limitare l’applicazione della disposizione ai soli contributi acquisiti lecitamente, rimandando la norma genericamente all’acquisizione del finanziamento, nelle sue varie forme: cosicché “l’elemento genetico risulta indifferente al fine della configurazione della fattispecie” (§ 7.3).
7. Molto sinteticamente, poi, la Corte procede a escludere – come già aveva annunciato in premessa – la possibilità di dare rilevanza a criteri diversi da quello di specialità. Non può parlarsi di assorbimento – affermano le Sezioni Unite – poiché “una tale chiave interpretativa trascura l’elemento essenziale dell’istituto del concorso di norme che si fonda sulla comparazione della struttura astratta delle fattispecie, per apprezzare la valutazione implicita di correlazione tra norme ritenuta dal legislatore, non dal loro atteggiarsi concreto” (§ 7.5).
Parimenti viene scartata l’operatività del principio di sussidiarietà, “il cui presupposto dogmatico – la connessione dei fatti secondo l’id quod plerumque accidit – al di là del mancato riconoscimento normativo di tale principio in tema di concorso apparente di norme, risulta concretamente escluso, nel rapporto tra le due norme, dalle ricostruzioni espresse” (§ 7.7).
Quanto, infine, alle esigenze di giustizia sostanziale relative alla proporzione tra sanzione e gravità del fatto, la Corte ritiene sufficiente l’applicazione delle regole ordinarie che disciplinano il concorso di reati, e cioè l’eventuale possibilità di dar luogo al regime del cumulo giuridico di cui all’art. 81 c.p. laddove ne ricorrano i presupposti (§ 8).
***
8. In attesa di ospitare più approfonditi e autorevoli commenti sul punto, si consentano alcune sintetiche riflessioni a caldo. Invero, chi scrive aveva già avuto modo di esprimere la propria opinione al riguardo, in sede di commento della relativa ordinanza di rimessione (cfr. S. Finocchiaro, Concorso di reati o concorso apparente di norme? Alle Sezioni Unite la vexata quaestio del rapporto tra truffa e malversazione, in questa Rivista, 5 dicembre 2016). In quell’occasione avevamo cercato di indicare alcuni argomenti a favore di una rivalutazione delle regole che disciplinano il concorso apparente di norme, optando infine per una soluzione della questione in esame che escludesse la configurabilità del concorso tra i reati di truffa e malversazione e considerasse quest’ultimo un postfatto non punibile. Non ci sembra che tali argomenti siano stati confutati dalla sentenza in oggetto la quale, nondimeno, giunge a una conclusione opposta a quella da noi auspicata.
9. Un primo dato da sottolineare è che le motivazioni della pronuncia muovono da un assunto preliminare che appare, a dire il vero, di per sé dirimente nell’itinerario argomentativo delle Sezioni Unite. Tale assunto è che l’unico principio regolatore del concorso apparente di norme è il criterio di specialità, sicché, al di fuori dell’ambito di applicazione dell’art. 15 c.p., solamente le clausole di riserva espresse dal legislatore potrebbero escludere il concorso di reati (ossia previsioni del tipo “se il fatto non è preveduto come più grave reato…” o “qualora il fatto non costituisca più grave reato…”).
Questa essendo la premessa, l’esito della decisione poteva dirsi già scritto. È infatti evidente – e riconosciuto dalle stesse Sezioni Unite (§ 6) – che il caso in esame esorbiti dall’ambito di applicazione del principio di specialità ex art. 15 c.p., destinato com’è ad operare solamente laddove si discuta di un unico fatto. Invece, le condotte qui contestate, come si è visto, sono strutturalmente e cronologicamente autonome: si tratta cioè di due fatti distinti, rispetto ai quali non occorrerebbe neppure domandarsi se si pongano in rapporto genere a specie. Invero, a essere qui in discussione era l’alternativa tra un concorso apparente di norme e un concorso materiale di reati: non già un concorso formale di reati. Per questo motivo, peraltro, anche ogni riferimento agli orientamenti della giurisprudenza italiana ed europea in materia di ne bis in idem appare inconferente, poiché riguardante – appunto – un unico e medesimo fatto (idem factum).
Dunque – una volta rilevato che il criterio di specialità era fuori gioco e che nelle disposizioni non sono previste clausole di riserva espresse – del tutto pregnante si faceva, a nostro parere, l’esigenza di vagliare accuratamente l’applicabilità di criteri differenti per tracciare il confine tra concorso (materiale) di reati e concorso apparente di norme. Un vaglio che però non viene operato dalle Sezioni Unite, nell’implicita convinzione – sembrerebbe – che i propri autorevoli precedenti non necessitino di una rivisitazione critica.
Tali precedenti, è bene rammentarlo, avevano in sostanza fondato la propria posizione sulla considerazione per cui tutti i criteri diversi da quello di specialità sarebbero “tendenzialmente in contrasto con il principio di legalità, in particolare con il principio di determinatezza e tassatività, perché fanno dipendere da incontrollabili valutazioni intuitive del giudice l'applicazione di una norma penale” [4].
Siffatto argomento – basato su una pretesa incompatibilità dei criteri di assorbimento, sussidiarietà e consunzione rispetto al canone della legalità penalistica – non è però persuasivo. Un primo motivo è rappresentato dal fatto che, in questo modo, il principio di legalità, anziché porsi quale garanzia per il cittadino, viene invocato in malam partem, nel senso di ampliare il numero di reati dei quali si è chiamati a rispondere. Inoltre, non ci pare si possa affermare che tali criteri siano sprovvisti di fondamento normativo, giacché il numero delle norme incriminatrici che contengono clausole di sussidiarietà espressa è talmente elevato da permettere di rinvenire un vero e proprio ‘criterio di sistema’, peraltro già ipotizzato nella Relazione al Progetto definitivo al codice penale[5] e talora fatto altresì discendere da un raffronto sistematico con norme quali l’art. 84 c.p. e gli artt. 61, 62 e 68 c.p. Infine, da non trascurare, è l’esigenza di rispetto del principio fondamentale di proporzione tra fatto illecito e pena, espressamente riconosciuto dall’art. 49 § 3 della Carta dei diritti fondamentali di Nizza, fatto altresì discendere dall’art. 3 CEDU[6], nonché da ultimo ricondotto dalla Corte costituzionale[7] agli art. 3 e 27 Cost.
Per tali ragioni, dunque, il ricorso a meccanismi regolatori del rapporto tra norme fondati sui criteri di assorbimento-sussidiarietà non sembra affatto precluso dal principio di legalità in materia penale.
10. Neppure convincente – forse anche in ragione della laconica motivazione spesa al riguardo dalla Corte – ci pare l’affermazione secondo cui il principio di assorbimento sarebbe in radice da escludere in quanto fondato su di una mera valutazione dell’atteggiarsi concreto delle fattispecie, anziché su di una loro comparazione a livello di struttura astratta (§ 7.5). Da un lato, infatti, è innegabile che il criterio di assorbimento[8] non sia basato su di confronto meramente formale-strutturale tra le norme (come avviene invece in caso di specialità, almeno laddove non venga impropriamente inquinato da inconferenti valutazioni relative al bene giuridico), ma su di un raffronto sostanziale-valoriale tra le stesse. Dall’altro lato, però, non ci pare corretto ritenere che tale principio si proponga quale criterio grezzamente equitativo, cui il giudice ricorre in ragione dell’atteggiarsi concreto del caso di specie: esso può (e deve) invece costituire espressione di un criterio di sistema volto a confrontare norme giuridiche, e non già fatti concreti.
Avevamo infatti già provato a indicare il modo in cui ciò potrebbe realizzarsi: facendo cioè ricorso a una valutazione scandita in tre passaggi logico-giuridici, che in questa sede vale la pena rievocare sinteticamente alla luce delle motivazioni della sentenza delle Sezioni Unite.
Anzitutto (i) occorrerebbe individuare la violazione più grave, nello stesso modo in cui si opera in sede di applicazione del cumulo giuridico ex art. 81 c.p.: nell’ipotesi in esame si tratterebbe senz’altro della truffa aggravata ex art. 640-bis c.p.[9].
In secondo luogo (ii), le norme incriminatrici andrebbero messe a raffronto, attraverso gli ordinari strumenti esegetici (di tipo letterale, storico, sistematico, nonché costituzionalmente e convenzionalmente orientato), così da accertare se la violazione più grave tuteli (in via esclusiva o accanto ad altri) beni giuridici omogenei rispetto a quelli tutelati dal reato meno grave. Nel caso di specie, se è vero – come riconoscono le stesse Sezioni Unite (§ 7) – che l’ingiusta attribuzione delle somme al truffatore già di per sé arreca un danno sia al patrimonio pubblico sia all’interesse ad una corretta individuazione dei destinatari dell’erogazione, allora l’ulteriore atto di disposizione su quelle somme per finalità private non può che porsi come un approfondimento della medesima offesa già in precedenza arrecata a quei medesimi beni giuridici. Il fatto stesso che sia proprio quel soggetto, e non chi ne aveva diritto, a disporre ingiustamente delle somme integra di per sé uno scorretto utilizzo di fondi pubblici. Intendiamoci: non è in discussione la maggiore carica offensiva di una truffa di denaro che poi venga intascato dall’agente, rispetto ad un ipotesi di truffa di denaro che poi venga comunque destinato alle finalità pubbliche previste. Tale maggiore offensività potrà però benissimo essere considerata in sede di commisurazione della pena in concreto ai sensi dell’art. 133 co. 1 n. 2 c.p. (che fa riferimento alla gravità del danno arrecato), con la possibilità peraltro di dosare la sanzione anche in virtù dell’applicazione dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 7 c.p. (qualora il danno patrimoniale risulti di particolare gravità, magari proprio a causa della distrazione a fini privati del denaro pubblico erogato) o l’attenuante di cui all’art. 62 n. 6 c.p. (qualora la corretta destinazione delle somme ai fini pubblici previsti abbia attenuato le conseguenze dannose del reato). Il che pare d’altronde sufficiente a sventare il rischio – paventato dalla Corte in un passaggio della sentenza (§ 8) – che l’Italia si dimostri inadempiente rispetto all’obbligo di matrice eurounitaria di garantire un’effettiva tutela agli interessi dell’Unione, allorché l’erogazione fraudolentemente ottenuta abbia ad oggetto fondi comunitari.
In terzo luogo (iii) occorrerebbe stabilire se il disvalore sanzionato dalla prima norma incriminatrice contenga in sé quello relativo alla seconda fattispecie. Ciò implica, ad esempio, di valutare se il legislatore abbia già tenuto in considerazione anche gli ulteriori ordinari sviluppi della condotta incriminata dal reato più grave; un elemento indicativo potendo trarsi dal quadro sanzionatorio comminato ex lege. In questo senso, risulta rilevante l’eventuale connessione delle fattispecie secondo l’id quod plerumque accidit. Il che non significa, è opportuno sottolinearlo, che il secondo reato debba porsi quale “unico” possibile sviluppo del primo: in questo senso, perciò, non ci sembra dirimente la circostanza, evidenziata dalla Corte, per cui le due fattispecie non si pongono in rapporto di “interdipendenza necessaria” tra loro (§ 7.2). Rilevante, piuttosto, è la constatazione – anch’essa svolta dalle stesse Sezioni Unite (§7.4) – secondo cui l’ipotesi in cui il finanziamento ottenuto fraudolentemente non viene destinato agli scopi pubblici previsti è effettivamente il caso che si verifica più frequentemente (§ 7.4). Ciò peraltro non stupisce, apparendo del tutto normale che l’autore di una truffa sia ab initio animato dall’intenzione di conseguire somme di cui poter godere personalmente, e non già dalla volontà di rispettare il vincolo di destinazione voluto dal soggetto passivo del reato, ossia dall’ente pubblico erogante. Piuttosto, all’eventualità che il truffatore decida di destinare le somme alle finalità prestabilite potrà darsi rilevanza in termini di attenuazione della pena ex art. 62 n. 6 c.p. e 133 co. 1 n. 2 e co. 2 n. 3 c.p.
11. Vale infine la pena di soffermarsi sull’ulteriore argomento speso dalle Sezioni Unite, secondo cui l’art. 316-bis c.p. non conterrebbe alcun richiamo testuale che ne limiti l’applicazione ai soli contributi acquisiti lecitamente (§ 7.2). Al riguardo, avevamo in altra sede osservato come ciò non paia far necessariamente concludere per un’irrilevanza dell’elemento genetico dell’erogazione. Pensiamo all’appropriazione indebita: l’art. 646 c.p. non specifica affatto che presupposto della condotta appropriativa debba essere una genesi lecita della situazione possessoria, esprimendosi anzi in termini di “possesso a qualsiasi titolo”. Cionondimeno è comune opinione che non ci si possa “appropriare” di beni ottenuti mediante un reato, e che pertanto non sia lecito sanzionare a titolo di appropriazione indebita l’atto di disposizione (ad esempio l’alienazione ad altri o la distruzione) di un bene precedentemente oggetto di furto o truffa, che pure certamente approfondisce l’offesa patrimoniale già arrecata con la prima condotta illecita.
Tale logica – implicita nel tenore letterale della norma – parrebbe similmente operare in relazione alla malversazione ex art. 316-bis c.p., per integrare la quale è ragionevole concludere che l’erogazione non debba essere stata ottenuta in modo penalmente illecito, rappresentando tale approfondimento dell’offesa un postfatto assorbito, sanzionabile a nostro avviso in termini di dosimetria della pena, ma non come ulteriore reato in concorso materiale con il precedente.
[1] Cfr. Cass. pen., sez. I, 1 ottobre 1998, n. 4663; Cass. pen., sez. VI, 2 dicembre 2003, 4313; Cass. pen., sez. II, 27 ottobre 2011, n. 43349; Cass. pen., sez. II, 16 giugno 2015, n. 29512. In dottrina, ove tale orientamento risulta invece nettamente minoritario, cfr., in particolare, F. Antolisei, Manuale di diritto penale – Parte speciale, II, 2008, XV ed., p. 327 s.
[2] Cfr. Cass. pen., 9 luglio 2004, n. 39644; Cass. pen., sez. VI, 12 maggio 2009, n. 23063; Cass. pen., sez. II, 18 settembre 2014, n. 42934. Tale orientamento risulta invece maggioritario in dottrina; sul punto cfr., ad esempio, C. Benussi, Note sul delitto di malversazione a danno dello Stato, in Riv. trim. dir. pen. econom., 1997, p. 1066 s.; M. Gambardella, Sub art. 316-ter, in I delitti contro la personalità dello Stato, I delitti contro la pubblica amministrazione, Lattanzi G. e Lupo E. (a cura di), in AA.VV., Codice penale, Vol. III, Milano, 2005, p. 58; Pagliaro, Parodi Giusino, Principi di diritto penale – Parte speciale, X ed., 2008, p. 121; M. Romano, I delitti contro la Pubblica Amministrazione, I delitti dei pubblici ufficiali, II ed., Milano, 2006, p. 74; S. Seminara, Sub art. 316-bis, in A. Crespi-F. Stella-G. Zuccalà, Commentario breve al codice penale, V ed., 2008, p. 762 s.
[3] Cfr. Cass. pen., 9 luglio 2004, n. 39644; Cass. pen., sez. VI, 12 maggio 2009, n. 23063; Cass. pen., sez. II, 18 settembre 2014, n. 42934.
[4] Cfr. Cass. pen., Sez. Un., 20 dicembre 2005, n. 47164, Marino, (in tema di concorso tra le condotte di acquisto o ricezione punite dall'art. 648 c.p. e le successive condotte di immissione in commercio punite dall'art. 171-ter legge 22 aprile 1941, n. 633); cfr., nello stesso senso, Cass pen., Sez. Un., 28 ottobre 2010, n. 1963, Di Lorenzo (sul concorso tra l’illecito amministrativo di cui all’art. 213 cod. strada e il reato di cui all’art. 334 c.p.).
[5] Cfr. Lav. Prep. Cod. pen. e Cod. proc. pen. 1929, vol. V, pt. II, p. 218. Si veda, in particolare, la ricostruzione dei rapporti intercorrenti tra il reato di strage ex art. 422 c.p. e incendio ex art. 423 c.p. rispetto ai quali, pur in assenza di qualsiasi clausola di sussidiarietà espressa, si prospetta l’applicazione del solo reato di strage laddove taluno cagioni un incendio al fine di uccidere.
[6] Cfr., ad esempio, C. eur. dir. uomo, Grande Camera, sent. 9 luglio 2013, Vinter c. Regno Unito, § 102. Il principio di proporzionalità è stato inoltre recentemente valorizzato dalla sentenza della Grande Camera A e B. c. Novergia, quale ratio sottostante al divieto di bis in idem di cui all’art. 4 Prot. n. 7 CEDU.
[7] Corte cost., sent. 10 novembre 2016, n. 236, Pres. Grossi, Rel. Zanon, in questa Rivista, con nota di F. Viganò, Un’importante pronuncia della Consulta sulla proporzionalità della pena, 14 novembre 2016; per un precedente, cfr. anche Corte cost., sent. 22 luglio 1994, n. 341, Pres. Casavola, Rel. Spagnoli.
[8] Utilizziamo qui il concetto di assorbimento in senso volutamente lato, ossia comprensivo anche degli affini concetti – che vengono tra loro distinti dalla dottrina maggioritaria – di consunzione, sussidiarietà e progressione criminosa.
[9] Ciò non ci sembra poter essere revocato in dubbio neppure dall’osservazione, operata dalla Corte in termini di confronto sistematico, secondo cui il reato di cui all’art. 316-ter c.p., omologo a quello di cui all’art. 640-bis c.p., è invece punito più lievemente di quello di cui all’art. 316-bis c.p. e dunque l’eventuale assorbimento di quest’ultimo reato porterebbe ad una contraddizione interna al sistema (§ 7.6).