17 maggio 2019 |
Detenzione di animali in condizioni incompatibili con la loro natura (art. 727, co. 2 c.p.): il Tribunale di Milano ordina la confisca di un cane ai sensi dell’art. 240, co. 1 c.p. e ammette la costituzione di parte civile del Comune
Trib. Milano, Sez. VII, sent. 28 marzo 2019 (dep. 5 aprile 2019), n. 4252, Giud. Gallina
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1. La sentenza che può leggersi in allegato si segnala non tanto per la vicenda sostanziale - relativa ad un caso, evidente, di detenzione di un cane in condizioni incompatibili con la sua natura - quanto piuttosto per le decisioni adottate dal Tribunale di Milano in ordine, rispettivamente, alla confisca dell’animale e alla richiesta di risarcimento dei danni avanzata dal Comune di Milano, costituitosi parte civile nel procedimento.
Oggetto della pronuncia è la condotta tenuta da un dog sitter che aveva lasciato il cane affidatogli chiuso per diversi giorni in un appartamento, in assenza di cibo e acqua, senza la possibilità di uscire per espletare i propri bisogni e dunque a contatto con gli stessi. A seguito di diverse segnalazioni da parte dei vicini per i gemiti provenienti dall’abitazione, le forze dell’ordine intervengono e, trovando l’animale in uno stato di grave sofferenza, lo pongono sotto sequestro. Il dog sitter viene quindi chiamato a rispondere della contravvenzione di cui all’art. 727, comma 2 c.p., che punisce «chiunque detiene animali in condizioni incompatibili con la loro natura, e produttive di gravi sofferenze».
2. Nel condannare l’imputato, il Tribunale di Milano ha ordinato la confisca dell’animale posto sotto sequestro in quanto «cosa che servì a commettere il reato», ai sensi dell’art. 240, co. 1 c.p.
La possibilità di confiscare un animale è prevista, per alcuni delitti contro il sentimento per gli animali (compreso il maltrattamento ex art. 544 ter c.p.), dall’art. 544 sexies c.p. La legge non prevede invece un’ipotesi speciale di confisca applicabile in relazione alla contravvenzione di cui all’art. 727 c.p. Senonché, secondo il Tribunale di Milano la confisca dell’animale potrebbe essere ordinata, con la condanna per la contravvenzione di cui all’art. 727, co. 2 c.p., ricorrendo alla figura generale della confisca ex art. 240 c.p.
A nostro avviso, tuttavia, la soluzione adottata dalla sentenza in esame non persuade: più che il mezzo utilizzato per commettere il reato, l’animale ci sembra piuttosto l’oggetto materiale del reato, ossia la cosa su cui incide l’azione, se non addirittura la vittima del reato (benché infatti il bene giuridico tutelato dalle norme sul maltrattamento degli animali sia pacificamente rinvenuto nel sentimento di pietà per la sofferenza degli animali, la ratio della confisca in esame sembrerebbe piuttosto quella di sottrarre l’animale all’incuria di chi lo detiene).
Confiscare l’animale ‘maltrattato’ in quanto cosa usata per commettere il reato sembra d’altra parte difficilmente compatibile con la giurisprudenza di legittimità formatasi in ordine alla confisca ex art. 240, co. 1 c.p. In materia di confisca facoltativa, la Corte di Cassazione ha a più riprese stabilito che affinché il bene possa essere confiscato ai sensi dell’art. 240, co. 1 c.p., debba sussistere «un rapporto di "asservimento" tra cosa e reato, nel senso che la prima deve essere oggettivamente collegata al secondo da uno stretto nesso strumentale che riveli effettivamente la possibilità futura del ripetersi di un'attività punibile, non essendo invece sufficiente un rapporto di mera occasionante» (Cass., sez VI, ud. 27/04/2012, dep. 15/05/2012, n.18531; vd. anche Cass., sez. VI, 10/02/1994, n. 444). In particolare, la Cassazione si è spesso occupata della confiscabilità dell'autoveicolo utilizzato per commettere il reato, specie con riferimento all'auto utilizzata per il trasporto di sostanze stupefacenti.
D’altra parte, allorché ha ammesso la confisca nel caso di abbandono di animali ex art. 727 c.p., la Corte di Cassazione ha ricondotto tale ipotesi al secondo comma dell’art. 240 c.p., in base al quale è sempre ordinata la confisca «delle cose, la fabbricazione, l'uso, il porto, la detenzione e l'alienazione delle quali costituisce reato, anche se non è stata pronunciata condanna». La Cassazione ha infatti affermato a più riprese che - nonostante in materia di tutela penale degli animali un’ipotesi di confisca speciale sia prevista soltanto con riferimento alle fattispecie di cui agli artt. 544-ter, 544-quater e 544-quinquies c.p. (vd. art. 544-sexies c.p.) – la disciplina generale della confisca resta comunque applicabile anche alle ipotesi delittuose di cui all’art. 727 c.p.
In particolare, la Cassazione ha affermato che «la detenzione di animali integrante la fattispecie di cui all'art. 727 cod. pen., costituendo reato (sia pure contravvenzionale), rientra nell'ipotesi di cui all'art. 240 cod. pen., comma 2, n. 2 (in base al quale, come è noto, deve sempre essere ordinata la confisca delle cose, la detenzione delle quali costituisca reato, a meno che esse non appartengano a persone estranee al reato)» (Cass., sez. III, 24/10/2018, n. 1510; vd. anche Cass., sez. IV, 31/01/2017, n. 18167; Cass., sez. IV , 26/02/2019, n. 12104).
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2.1. Benché l’orientamento della Cassazione consenta di superare la lacuna legislativa che impedisce di applicare la confisca speciale di cui all’art. 544-sexies c.p. rispetto alla contravvenzione di cui all’art. 727 c.p., l’assimilazione dell’animale alle c.d. cose intrinsecamente criminose, cui fa riferimento l’art. 240, comma 2 c.p., ci sembra una forzatura. Si è soliti distinguere le cose confiscabili ex art. 240, comma 2 in cose la cui detenzione costituisce sempre reato (ipotesi di divieto assoluto, si pensi al materiale pedopornografico, ai documenti falsi, alle armi da guerra) e cose la cui detenzione costituisce reato soltanto in difetto di autorizzazione amministrativa o comunque qualora le condizioni per cui l’autorizzazione è stata disposta non siano rispettate (ipotesi di divieto relativo, ad esempio le armi comuni da sparo o il materiale esplosivo). Posto che di certo la detenzione di animali non rientra in nessuna delle suddette categorie, la questione è di capire se la confisca obbligatoria sia applicabile anche alle cose la cui detenzione, se effettuata con modalità particolari, costituisce reato. A far propendere per una risposta negativa al quesito è sia la formulazione letterale dell’art. 240, comma 2 (che fa riferimento alla cosa in sè, non alle modalità di detenzione) sia la ratio della norma stessa, che consiste nel privare un soggetto di beni di per sé pericolosi – la cui detenzione è punita in quanto comporta il pericolo della commissione di ulteriori e futuri reati – non nella tutela dell’oggetto materiale del reato.
D’altra parte è proprio la consapevolezza di come la disciplina generale in materia di confisca non preveda un’ipotesi di tutela per l’oggetto (rectius, l’animale) detenuto in condizioni produttive di gravi sofferenze o di maltrattamento ad avere indotto il legislatore ad introdurre, con l'art. 1, l. 189/2004, un’ipotesi speciale di confisca per i delitti previsti dagli articoli 544-ter, 544-quater, 544-quinquies c.p. (che puniscono, rispettivamente, il maltrattamento di animali, gli spettacoli o manifestazioni che comportino sevizie per gli animali, i combattimenti tra animali).
De iure condendo, sarebbe dunque a nostro parere auspicabile l’estensione della confisca ex art. 544-sexies c.p. alla contravvenzione disciplinata dall’art. 727 c.p., in modo da offrire una tutela completa all’animale vittima di abbandono o mancato accudimento.
In attesa di una tale innovazione legislativa, il provvedimento di confisca del cane può e deve essere pronunciato, in accordo con il citato orientamento della Cassazione, non già in base al primo comma dell’art. 240, bensì in base al secondo comma, n. 2.
3. Quanto al secondo profilo di interesse che emerge dalla sentenza in commento, il Tribunale di Milano per la prima volta (a quanto ci consta) riconosce la legittimazione del Comune a costituirsi parte civile per il risarcimento dei danni subiti in conseguenza di reati commessi contro il sentimento di pietà nei confronti degli animali: il Tribunale accoglie sia la richiesta di risarcimento dei danni patrimoniali, sia quella riguardante i danni non patrimoniali.
Per quanto riguarda i danni patrimoniali, il Tribunale stabilisce che la condotta criminosa de qua ha determinato il Comune «ad assumersi numerose voci di spesa per la cura e la custodia dell’animale di cui al presente processo, per una cifra superiore a euro 2.441,65»; quanto invece ai danni non patrimoniali, il giudice ritiene che il Comune di Milano abbia subito un danno all’immagine, dal momento che «il Comune – titolare di pubbliche funzioni in materia di convivenza tra uomo e animale e di tutela della salute e della dignità degli animali d’affezione – ha infatti visto frustrati i propri scopi statutari con conseguente detrimento del prestigio dell’istituzione e dell’immagine pubblica».
Sulla base di tali concise motivazioni il Tribunale ha accolto l’istanza di risarcimento di danni patrimoniali e non patrimoniali avanzata dal Comune di Milano, devolvendo la liquidazione degli stessi al giudice civile e condannando l’imputato al pagamento di una provvisionale pari a 2.441,65 euro.
3.1. Con riferimento ai danni patrimoniali, il Comune di Milano ha chiesto e ottenuto il risarcimento per i danni derivanti dal reato, che ammontano al totale delle spese sostenute per la custodia e la cura dell’animale nel periodo intercorrente tra il sequestro dell’animale e la data della sentenza. In materia di custodia dell’animale confiscato o sequestrato, l’art. 19-quater disp. att. c.p. dispone che «[g]li animali oggetto di provvedimenti di sequestro o di confisca sono affidati ad associazioni o enti che ne facciano richiesta individuati con decreto del Ministro della salute, adottato di concerto con il Ministro dell’interno» (vd. d.m. 2 novembre 2006). Tuttavia, la costante giurisprudenza della Corte di Cassazione (vd. Cass., sez. IV, 31/01/2017, n. 18167; Cass., sez. IV , 26/02/2019, n. 12104) ha stabilito che nel caso in cui nessuna associazione faccia richiesta di affidamento il Comune sia responsabile per le cure e la custodia dell’animale (come in questo caso è appunto avvenuto, con la custodia del cane presso una struttura comunale).
Se questa premessa è corretta, dal momento che il Comune è il soggetto responsabile della custodia del cane sequestrato, non si capisce su che basi sia legittimato a chiedere il risarcimento del danno per un’attività che ha l’obbligo di svolgere. Nel caso di specie, allora, la voce dei 2.241,65 euro avrebbe forse dovuo essere liquidata più correttamente tra le spese processuali: ai sensi dell’art. 58 comma 1 del TU in materia di spese di giustizia (DPR 115/2002) «[a]l custode, diverso dal proprietario o avente diritto, di beni sottoposti a sequestro penale probatorio e preventivo, e, nei soli casi previsti dal codice di procedura civile, al custode di beni sottoposti a sequestro penale conservativo e a sequestro giudiziario e conservativo, spetta un'indennità per la custodia e la conservazione».
3.2. Per quanto invece riguarda i danni non patrimoniali e, in particolare, il “danno all’immagine”, la pronuncia in esame s’inserisce in una linea di tendenza che si è andata sviluppando negli ultimi anni, volta a legittimare la costituzione di parte civile degli enti territoriali nell’ambito dei più disparati processi: si va dai reati edilizi (Cass., sez. III, 14/06/2002, Arrostuto; Cass., sez. III, 22/05/2013, n. 21937) all’associazione a delinquere (Cass., sez. I, ud. 08/07/1995, dep. 18/10/1995, n. 10371; Cass., sez. II, ud. 18/10/2012, dep. 04/01/2013, n. 150), dalla violenza sessuale (Cass., sez. III , 09/06/2011, n. 29905; Cass., sez. III , 19/06/2008, n. 38835) ai reati contro la pubblica amministrazione (Cass., sez. III, ud. 11/12/2014, dep. 24/04/2015, n. 8394).
Tuttavia, la soluzione accolta dal Tribunale di Milano comporta il rischio di applicare estensivamente la già lata interpretazione che la Corte di legittimità dà della nozione di “danno non patrimoniale” subito dal Comune.
Nello specifico, il criterio elaborato dalla Corte di Cassazione per verificare se l’ente territoriale sia legittimato a costituirsi parte civile o meno è dato dalla concretizzazione del bene giuridico tutelato dalla norma penale violata in una specifica disposizione dello Statuto dell’ente, nonché nell’erogazione di servizi amministrativi a tutela delle vittime dei reati.
Tale principio è espresso plasticamente nella sentenza 38835/2008 in cui la Corte di Cassazione - decidendo sull’ammissibilità della costituzione di parte civile del Comune di Roma per un episodio di violenza sessuale - afferma che al fine di stabilire se il Comune possa costituirsi parte civile è necessario verificare se l’ente abbia «normativamente trasformato interessi generici e diffusi dei cittadini rappresentati in propri interessi specifici e in oggetto peculiare delle proprie attribuzioni e dei suoi compiti istituzionali» (Cass., sez. III, 19/06/2008, n. 38835). In particolare, la Corte ritiene che indice di un interesse concreto alla salvaguardia del bene stesso e, dunque, di un diritto soggettivo al risarcimento del danno sia la specifica configurazione normativa del bene tutelato.
Particolare risalto in quella vicenda era stato assegnato all’inserimento tra i “Principi programmatici” enunciati dallo Statuto del Comune di Roma del principio inerente alla «promozione dello sviluppo economico, sociale e culturale della comunità locale con particolare riferimento alla condizione giovanile e femminile» (vd. all’art. 2, comma 5, Statuto di Roma Capitale), nonché, tra le “Azioni positive per la realizzazione della parità di sessi”, del proposito di adottare «un codice di comportamento che assicuri un clima di pieno e sostanziale rispetto reciproco tra uomini e donne, con particolare attenzione all'eliminazione delle situazioni di molestie sessuali» (vd. art. 4, co. 2, lett. e). Tali disposizioni, unite alla creazione di appositi uffici amministrativi volti a contrastare e a prevenire la violenza di genere, dimostravano un interesse specifico e differenziato del Comune di Roma a «garantire la libertà di autodeterminazione della donna e la pacifica convivenza nell'ambito comunale». Nel caso di specie, la Corte accertava dunque che la lesione di tali «beni sociali statutariamente individuati come oggetto specifico di tutela» causava un danno morale all’ente territoriale e dunque accolse il ricorso presentato dal Comune, le cui istanze risarcitorie erano state rigettate dalla Corte d’Appello (vd. in senso analogo anche Cass., sez. III, 09/06/2011, n. 29905; Cass., sez. VI, ud. 16/02/1990, dep. 11/10/1990, n. 13314, Santacaterina; Cass., sez. VI, 10/01/1990, n. 59, Monticelli).
In base all’orientamento espresso dalla Corte, la previsione all’interno dello statuto di una disposizione di specifica tutela di determinate categorie di soggetti o beni giuridici implicherebbe dunque il riconoscimento della tutela di tale interesse quale “obiettivo primario” dell’azione amministrativa. A contrario, dovrebbe dunque ritenersi che la carenza di disposizioni di tale tenore incida sulla legittimazione dell’ente a costituirsi parte civile.
Ed è questo il caso della sentenza che si segnala, dal momento che – nonostante il Tribunale citi non meglio precisati “scopi statutari” – nello Statuto del Comune di Milano (consultabile a questo link) non sono rinvenibili disposizioni specifiche a tutela degli animali tali da trasformare un interesse generico e diffuso in un obiettivo primario dell’azione amministrativa dell’ente locale. D’altra parte, il fatto che il Comune di Milano abbia adottato un Regolamento Comunale di Tutela degli Animali (n. 57/2005) – che ha come scopo quello di promuovere «la cura e la presenza nel proprio territorio degli animali, quale elemento fondamentale e indispensabile dell’ambiente» – non implica di per sé il riconoscimento della protezione degli animali quale obiettivo specifico del suo agire.
Tipicamente, in effetti, proprio per il fatto che gli Statuti degli enti territoriali di norma non si prefiggono tra gli scopi perseguiti quello di tutela degli animali, a costituirsi parte civile nei reati di maltrattamento di animali sono esclusivamente le associazioni e gli enti che «abbiano quale finalità istituzionale la protezione degli animali» (Cass. Sez. III Pen. 6 marzo 2018, n. 10164). Si tratta, tra le altre, di associazioni quali l’A.N.P.A.N.A. (Associazione Nazionale Protezione Animali Natura Ambiente, vd. Cass. Sez. III Pen. 6 marzo 2018, n. 10164), la Lega nazionale per la difesa del cane (vd. sez. III, 05/10/2017, (ud. 05/10/2017, dep. 31/01/2018), n.4562), l’Onlus “Amici Animali” (sez. III, 04/10/2016, (ud. 04/10/2016, dep. 07/12/2016), n.52031): tutte associazioni che hanno quale oggetto sociale principale - se non esclusivo - la protezione e la tutela degli animali.
3.3. In dottrina, d’altra parte, sono state già espresse perplessità circa l’orientamento adottato dalla Corte di legittimità, adducendo il fatto che l’elencazione di vaghi obiettivi e generiche tutele non sia sufficiente ad attribuire al Comune un diritto soggettivo perfetto, ma che sia piuttosto necessaria la dimostrazione di un effettivo danno subito dall’ente. Il rischio paventato è che se tutte le offese ai fini genericamente espressi dagli Statuti dovessero legittimare gli enti territoriali a costituirsi parti civili «non solo ogni abuso o semplice molestia a sfondo sessuale, ma anche ogni "scippo", ingiuria, minaccia, violenza compiuta in danno di categorie "deboli" e quindi protette, potrebbe vedere una torma di avvocati nominati dal comune correre a costituirsi parte civile» (F. Tripodi, L’ente pubblico locale parte civile “allargata”: è tempo di ripensamenti?, in Cass. Pen., fasc. 4, 2010, p. 1544; vd. anche A. Torri, La costituzione di parte civile degli enti territoriali nei processi per associazione a delinquere di stampo mafioso, in questa Rivista, 5 luglio 2012).
Nel citato lavoro Torri in particolare mette l’accento sul fatto che la scelta dei Comuni di costituirsi parte civile rappresenti «una decisione simbolica, volta più a manifestare la propria esecrazione rispetto ad alcuni eventi o fenomeni criminosi, piuttosto che a ottenere il ristoro del danno lamentato»: da istituto processuale volto a far accedere le istanze civili nell’ambito di un dibattimento penale la costituzione di parte civile sembra essersi trasformato in un uno strumento politico che ha l’obiettivo di evidenziare lo sforzo profuso dai Comuni per debellare e prevenire le forme di criminalità più avvertite dalla cittadinanza.
Parimenti scettico nei confronti della dimensione politica assunta da talune costituzioni di parte civile si è dimostrato il Tribunale di Trento nella sentenza 342/2015 (Trib. Trento, ud. 11/06/2015, dep. 17/06/2015, n. 342). I giudici in tale caso hanno rigettato la costituzione di parte civile del Comune di Trento per un reato di violenza sessuale, criticando «l’eccessiva estensione del concetto di causa» rinvenibile nella giurisprudenza della Cassazione in materia («sono pronunce giurisprudenziali che giungono ad una vera e propria “spiritualizzazione” del danno, ravvisandolo non in una lesione economico-patrimoniale, ma nella compromissione di valori eterei quali la “violazione del fine statutario essenziale dell’associazione”, la “offesa dello scopo sociale che costituisce la finalità propria del sodalizio”, la “lesione di quelle finalità di salvaguardia proprie della associazione medesima”, che però poco o punto hanno a che fare col danno non patrimoniale (oggettivo) inteso – nella accezione datane dai giudici costituzionali – quale lesione di interessi fondamentali della persona umana, di valenza esistenziale e costituzionalmente garantiti»).
I detrattori della tendenza espansiva e “spiritualizzante” espressa dalla Corte di legittimità ritengono dunque che il danno debba essere verificato di volta in volta con riferimento alla situazione storica specifica oggetto del procedimento, non essendo ammissibili presunzioni circa i danni subiti dal Comune.
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3.4. Ebbene, anche alla luce di tale orientamento, le sentenza qui segnalata non ci sembra condivisibile, dal momento che si fa discendere in via automatica il “detrimento del prestigio dell’istituzione e dell’immagine pubblica” dalla mera commissione del reato, senza che venga data prova del danno verificatosi né del preteso nesso causale tra reato e danno. Il reato infatti lede interessi che per definizione sono pubblici, ma non è affatto detto che tale pubblicità comporti anche una lesione del danno all’immagine del Comune. In assenza di più specifiche motivazioni, d’altra parte, risulta difficile credere che un singolo episodio contravvenzionale di ben modesta portata possa ledere il danno all’immagine del Comune.
Nell’ultima sentenza che ha affrontato il tema (vd. Cass., sez. V, ud. 27/10/2016, n. 1819, in Diritto & Giustizia, fasc. 11, 2017, pag. 11, con nota di A. De Francesco), la stessa Corte di Cassazione sembra aver adottato un criterio più rigido quanto alla legittimazione dei Comune a costituirsi parte civile, individuando un vero e proprio onere di allegazione a carico dell’ente che asserisce di aver subito un danno all’immagine. In quel caso la Corte ha accolto il ricorso presentato da un soggetto imputato per lesioni personali e minaccia sulla base del fatto che la semplice pubblicizzazione del reato sui mezzi di informazione non valesse a determinare un danno all’immagine del Comune di Verona, atteso che «la mera allegazione di un danno all'immagine per la commissione di reati che possano astrattamente compromettere la considerazione generale della comunità cittadina non è di per sé prova sufficiente a far ritenere esistente l’asserita lesione del diritto soggettivo», essendo a tale fine necessario allegare «una serie di elementi di valutazione (…) dai quali è dato dimostrare la lesione del suo diritto (nella specie, il diritto all'immagine, come più volte ripetuto) ed il nesso causale tra il danno asseritamente subito (sulla cui quantificazione si esprimerà il giudice civile, qualora a quest'ultimo sia rimessa la decisione) ed il delitto tra privati, intercorso nella collettività cittadina di cui l'ente territoriale è il rappresentante».