ISSN 2039-1676


18 giugno 2019 |

Le Sezioni unite escludono l'ammissibilità della contestazione "in fatto" dell'aggravante della natura fidefacente dell'atto pubblico (art. 476 co. 2 c.p.)

Cass., Sez. un., sent. 18 aprile 2019 (dep. 4 giugno 2019), n. 24906, Pres. Carcano, Est. Zaza, ric. Sorge

 

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1. Con la pronuncia in commento, le Sezioni Unite della Corte di Cassazione prendono posizione circa l’ammissibilità o meno della contestazione in fatto della circostanza aggravante prevista dall’art. 476, co. 2, c.p. per il delitto di falso in atto pubblico commesso da pubblico ufficiale.

La contestazione in fatto – intesa come formulazione dell’imputazione che non si esprime nell’enunciazione letterale della fattispecie circostanziale o nell’indicazione della specifica norma di legge che la prevede, ma che riporta in maniera sufficientemente chiara e precisa gli elementi di fatto che integrano la fattispecie – era già da diverso tempo pacificamente considerata ammissibile per la generalità delle circostanze aggravanti (Cass., sez. V, 16/9/2008, n. 38588, Fornaro). Oggetto di contrasto giurisprudenziale restava tuttavia la questione circa la legittimità di tale forma di contestazione con riferimento alla circostanza prevista dal comma 2 dell’art. 476 c.p., relativa al falso che abbia ad oggetto atti facenti fede fino a querela di falso.

Era controverso, in sostanza, se la natura fidefacente dell’atto oggetto di falso dovesse essere richiamata nel capo di imputazione o se la suddetta circostanza potesse considerarsi validamente contestata attraverso la mera enunciazione della tipologia di atto. In particolare, si fronteggiavano due orientamenti.

Secondo il primo, la contestazione in fatto dell’aggravante in discussione non sarebbe consentita, occorrendo che l’ipotesi aggravata sia esplicitamente contestata, attraverso l’indicazione specifica della violazione dell’art. 476, co. 2, c.p. o, quantomeno, attraverso l’uso di sinonimi o formule equivalenti al contenuto della previsione normativa (vd. Cass., sez. III, 8/10/2014, n. 6809, Sauro; Cass., sez. V, 13/2/2014, n. 12213, Amoroso), ovvero chiaramente evocative dell’efficacia fidefacente dell’atto ritenuto falso (Cass., sez. V, 18/4/2018, n. 30435, Trombetta). Alla base di tale indirizzo vi è la considerazione del diritto dell’imputato di essere tempestivamente e dettagliatamente informato non solo dei fatti materiali posti a suo carico, ma anche della qualificazione giuridica ad essi attribuiti; diritto che non potrebbe dirsi garantito qualora la natura fidefacente dell’atto non fosse esplicitata nell’imputazione (vd. anche Cass., sez. V, 13/04/2018, n. 24643, Degli Angioli; Cass., sez. V, 05/02/2016, n. 8359, Cali).

In base al secondo indirizzo, invece, la contestazione in fatto del falso aggravato sarebbe ammissibile come per tutte le altre aggravanti, purché la natura fidefacente dell’atto, anche se non espressamente indicata, emerga inequivocabilmente dalla tipologia dell’atto stesso. Il diritto di difesa dell’imputato sarebbe comunque garantito dall’indicazione dell’atto in relazione al quale la condotta è contestata, in base alla quale è possibile evincersi se è stata contestata la fattispecie semplice o quella aggravata (vd. Cass., sez. V, 14/09/2016, n. 2712, Seddone; Cass., sez. I, 12/03/2015, n. 24870, Morichelli).

La Corte di Cassazione nella sentenza in esame opta infine per il primo indirizzo, affermando il seguente principio di diritto: “Non può essere ritenuta in sentenza dal giudice la fattispecie aggravata del falso in atto pubblico, ai sensi dell'art. 476, comma 2, c.p., qualora la natura fidefacente dell'atto considerato falso non sia stata esplicitamente contestata ed esposta nel capo di imputazione con la precisazione di tale natura o con formule alla stessa equivalenti, ovvero con l'indicazione della norma di legge sopra citata”.

 

2. La vicenda trae origine dal ricorso presentato da una donna che svolgeva attività di presentatore di effetti cambiari ai sensi degli artt. 2 ss. l. 349/1973, condannata in primo e in secondo grado per il delitto di falso ideologico aggravato. L’imputata era stata incaricata da un notaio di presentare alcune cambiali presso il domicilio del debitore, al fine di ottenerne il pagamento; la stessa, tuttavia, in violazione dei propri doveri d’ufficio, si era limitata a contattare telefonicamente il debitore, attestando falsamente di aver svolto attività di ricerca presso il domicilio del debitore e di aver ricevuto un rifiuto di pagamento da parte di quest’ultimo (la vicenda è ricostruita più nel dettaglio nell’ordinanza di rinvio, pubblicata in questa Rivista, 8 febbraio 2019, con nota di D. Albanese, Le contestazioni “in fatto” delle circostanze aggravanti all’attenzione delle Sezioni unite). Alla donna era stata originariamente contestata la violazione dell’art. 476, co. 1, c.p.; il Tribunale, tuttavia, rilevando la “chiara riconducibilità” della condotta descritta nell’imputazione ad un falso realizzato in un atto pubblico di fede privilegiata, concludeva che il fatto concretamente addebitato integrasse l’ipotesi aggravata di cui al comma 2 e che la menzione del comma 1 fosse il risultato di un mero errore.

Si sottolinea fin da subito che il fatto che l’atto di protesto, alla cui formazione concorrono le attestazioni del presentatore, abbia natura fidefacente è pacifico in giurisprudenza (vd. Cass., sez. V, 20/02/1996, n. 5274, Panzitta) e trova una conferma nell’art. 4, co. 2, l. 349/1973, che prevede testualmente che l’atto di protesto “fa piena prova, ai sensi dell’articolo 2700 del codice civile, anche delle dichiarazioni del debitore e degli altri fatti che il presentatore riferisce avvenuti in sua presenza o da lui compiuti”.

Il Tribunale, dunque, per porre rimedio a tale errore di contestazione aveva proceduto a quella che definiva come una “riqualificazione del fatto nella fattispecie aggravata”.

La ricorrente promuoveva ricorso lamentando che fosse stato violato il principio di correlazione tra imputazione e condanna, dal momento che il Tribunale l’aveva ritenuta responsabile dell’ipotesi aggravata di falso nonostante la circostanza aggravante non fosse stata contestata nel capo di imputazione. A parere della ricorrente, la riqualificazione così operata avrebbe violato il suo diritto al contraddittorio. La V Sezione della Cassazione, chiamata a decidere sul ricorso, rimette la questione alle Sezioni Unite, rilevando che per decidere sia necessario sciogliere il contrasto giurisprudenziale circa l’ammissibilità o meno della contestazione in fatto dell’aggravante di cui all’art. 476, co. 2, c.p.

 

3. Nell’esaminare il ricorso, le Sezioni Unite si premurano in primo luogo di delineare i contorni della questione, escludendo che possa trattarsi di un problema di riqualificazione del fatto e riconducendo piuttosto la doglianza alla tematica della corretta contestazione all’imputato del fatto e delle circostanze aggravanti. A parere della Corte, infatti, si può parlare correttamente di riqualificazione quando l’affermazione di responsabilità da parte dell’organo giudicante abbia ad oggetto un’ipotesi difforme da quella contestata, anche se tale da potervi ricondurre il fatto materialmente descritto nell’imputazione. Nel caso in esame, invece, l’affermazione di responsabilità era piuttosto riferita ad una fattispecie aggravata che il Tribunale riteneva fosse già stata contestata in fatto, benché non correttamente identificata nei richiami normativi. La decisione del Tribunale, dunque, implicitamente riteneva legittima la contestazione in fatto della circostanza aggravante.

La Cassazione fa presente oltretutto che la confusione tra questioni attinenti alla contestazione in fatto e questioni riguardanti invece la riqualificazione aveva inquinato anche il dibattito giurisprudenziale in materia: in particolare, l’indirizzo che ammetteva la contestazione in fatto dell’aggravante faceva spesso riferimento ai principi espressi in materia di legittimità della riqualificazione, richiamando il criterio della prevedibilità della riqualificazione stessa (vd. Cass., sez. V, 26/06/2015, n. 31617, Lucci) ed il fatto che l’assistenza tecnica obbligatoria dovrebbe garantire la prevedibilità della riqualificazione, alla luce del tipo di atto dedotto in contestazione (vd. Cass., sez. V, 04/04/2018, n. 23609, Musso; Cass., sez. V, 04/04/2018, n. 33843, Scopelliti; che richiamano anche Corte Edu, 14/04/2015, Contrada c. Italia).

Ritenendo dunque che si tratti di un problema attinente alla contestazione del fatto, la Corte prende le mosse dal dato normativo relativo ai requisiti dell’imputazione. In particolare, in base all’art. 417, lett. b), c.p.p. uno degli elementi che dev’essere contenuto nella richiesta di rinvio a giudizio è “l’enunciazione in forma chiara e precisa” del fatto e delle circostanze aggravanti, “con l’indicazione dei relativi articoli di legge”; la stessa previsione è ribadita all’art. 429, comma 1, lett. b) c.p.p. per il decreto dispositivo del giudizio (a sua volta richiamato dall’art. 450, comma 3, c.p.p., per la citazione a giudizio direttissimo, e dall’art. 456, comma 1, c.p.p., per il decreto dispositivo del giudizio immediato) e all’art. 552, comma 1, lett. c) c.p.p., per la citazione diretta. In termini analoghi si esprime anche l’art. 6, comma 3, lett. a) CEDU, in base al quale l’imputato ha diritto ad essere informato “in modo dettagliato” della natura e dei motivi dell’accusa elevata a suo carico. Lo stesso indirizzo giurisprudenziale che legittima la contestazione in fatto, d’altronde, ne subordina l’ammissibilità all’individuazione chiara e precisa degli elementi che integrano la fattispecie circostanziale: affinché una circostanza aggravante possa essere validamente contestata in fatto è dunque necessario che dalla descrizione del fatto materiale sia possibile risalire agli elementi costitutivi dell’aggravante stessa.

 

4. Tuttavia, ciò che le Sezioni Unite sottolineano è che non tutte le fattispecie aggravanti hanno la medesima struttura e, dunque, i criteri da utilizzare per verificare la sussistenza dei requisiti di chiarezza e precisione dell’imputazione sono diversi a seconda della categoria cui appartengono le aggravanti stesse. In particolare, la Cassazione distingue tra aggravanti che sono costituite esclusivamente da elementi di fatto e aggravanti che invece si compongono anche di elementi valutativi.

Quanto alle prime, i requisiti anzidetti di chiarezza e precisione possono ritenersi pienamente soddisfatti qualora l’imputazione contenga la descrizione di comportamenti determinati nella loro materialità e nelle loro caratteristiche oggettive: in questi casi, la contestazione in fatto è ammissibile poiché la mera indicazione di tali fatti materiali è idonea a ricondurre la contestazione all’ipotesi aggravata della fattispecie, rendendo possibile l’adeguato esercizio dei diritti di difesa dell’imputato.

Diverso è il discorso per quanto riguarda le circostanze aggravanti nelle quali, in luogo dei fatti materiali o in aggiunta agli stessi, la disposizione normativa prevede componenti valutative. La sussistenza di tali componenti nei casi concreti è oggetto di valutazione compiuta in primo luogo dal pubblico ministero e, in seconda battuta, dal giudice. È evidente che laddove il risultato di questa valutazione non sia esplicitato nell’imputazione – con la precisazione della ritenuta esistenza delle connotazioni di cui sopra – la contestazione risulterà priva di una compiuta indicazione degli elementi costitutivi della fattispecie circostanziale e, di conseguenza, difetterà dei requisiti di precisione e chiarezza.

D’altra parte, continuano le Sezioni Unite, dall’imputato di certo non può esigersi l’individuazione dell’esito qualificativo che connota l’ipotesi aggravata in base all’autonomo compimento del percorso valutativo, prerogativa dell’autorità giudiziaria. Oltretutto, trattandosi per l’appunto di componenti valutative, l’imputato potrebbe trarne conclusioni opposte rispetto a quelle individuate dall’autorità giudiziaria.

In conclusione, dunque, le Sezioni Unite stabiliscono che la contestazione in fatto non sia ammissibile con riferimento alle aggravanti la cui struttura preveda un elemento valutativo.

 

5. Venendo poi nello specifico alla circostanza prevista dal comma 2 dell’art. 476 c.p., la Cassazione ritiene che la struttura della fattispecie comprenda sia un elemento materiale, costituito dal compimento della condotta su un atto che è oggettivamente formato o manipolato da un pubblico ufficiale, sia un elemento valutativo, dato dalla possibilità di qualificare l’atto come facente fede fino alla querela di falso.

Quest’ultima componente valutativa ha l’ulteriore peculiarità di concernere un profilo normativo molto articolato, costituito dalla ravvisabilità di due elementi essenziali: la titolarità, in capo al pubblico ufficiale, del potere di conferire all’atto efficacia fidefacente (art. 2699 c.c.) e l’oggetto di tale efficacia (art. 2700 c.c.). Trattandosi di “profili che sono oggetto di una pluralità di giudizi valutativi”, la Corte conclude che “la qualificazione dell’atto come fidefacente, che costituisce il risultato di queste valutazioni, non può di conseguenza ritenersi debitamente contestata con la mera indicazione dell’atto stesso nell’imputazione”. La semplice descrizione dell’elemento materiale - non consentendo di portare a conoscenza dell’imputato l’efficacia fidefacente dell’atto - non sarebbe sufficiente a garantire l’effettivo esplicarsi del diritto alla difesa. L’addebito relativo al delitto di falso aggravato deve dunque essere contestato o attraverso il richiamo al comma 2 dell’art. 476 c.p. (che individua inequivocabilmente l’aggravante) o attraverso l’espressa qualificazione del fatto come fidefacente – ammettendosi in questo caso anche formulazioni che descrivano in termini equivalenti l’efficacia fidefacente dell’atto.

In base alle considerazioni svolte, le Sezioni Unite dichiarano dunque fondato il ricorso presentato dall’imputata, affermando che la circostanza aggravante non era stata contestata validamente. L’imputazione contestava infatti l’aggravante in fatto, riportando unicamente la descrizione della dichiarazione del presentatore dei titoli (ossia la componente materiale della fattispecie), senza che venisse evidenziata la natura fidefacente di tale atto (la componente valutativa). Oltretutto, non solo nell’imputazione era assente il richiamo esplicito al comma 2 dell’art. 476 c.p., ma addirittura veniva richiamato il primo comma, tanto da suggerire una contestazione limitata all’ipotesi non aggravata del reato.

 

6. La sentenza di cui si è offerta una breve sintesi risolve una controversia oggetto di un lungo dibattito in seno alla Corte di Cassazione, ma pone anche alcune questioni relative alla portata dei principi ivi espressi. Sebbene infatti le Sezioni Unite si pronuncino con specifico riferimento alla fattispecie aggravata del falso in atto pubblico commesso da pubblico ufficiale, i principi espressi nella sentenza sembrano dettare una linea anche in relazione ad altre ipotesi di aggravanti costituite da componenti valutative.

In secondo luogo, restano valide le considerazioni svolte nella già citata nota all’ordinanza di rimessione (D. Albanese, Le contestazioni “in fatto” delle circostanze aggravanti all’attenzione delle Sezioni unite): il fatto che una circostanza aggravante sia costituita da componenti fattuali non rende necessariamente meno problematica la sua contestazione in fatto. Non è infatti detto che tale aggravante possa essere più facilmente colta rispetto alle circostanze agganciate a qualificazioni giuridiche: si pensi, a titolo di esempio, all’uso del mezzo fraudolento nel delitto di furto (art. 625, co. 1, n. 2 c.p.) o all’aver agito per motivi abietti o futili o con crudeltà verso le persone (art. 61, n. 1 e n. 4 c.p.).