ISSN 2039-1676


13 giugno 2011 |

Corte cost., 10 giugno 2011, n. 183, Pres. Maddalena, Rel. Lattanzi (sul riconoscimento di attenuanti generiche al recidivo reiterato)

Costituzionalmente illegittimo l'art. 62 bis, co. 2 c.p. nella parte in cui vieta di riconoscere le attenuanti generiche al recidivo reiterato in base al comportamento tenuto dopo la commissione del reato

1. È stato rilevato l’ennesimo profilo di contrasto tra la disciplina della recidiva, come introdotta dal legislatore mediante la celeberrima legge n. 251 del 2005, ed alcuni fondamentali parametri costituzionali: la ragionevolezza, l’uguaglianza, la necessaria finalizzazione rieducativa della pena.
 
La Corte costituzionale, con la sentenza n. 183 del 2011, ha infatti eliminato una porzione del regime «speciale» di applicazione delle circostanze attenuanti generiche per il caso di recidivi reiterati chiamati a rispondere di gravi delitti, dichiarando l’illegittimità del «nuovo» art. 62-bis c.p., nella parte appunto in cui stabiliva «che, ai fini dell’applicazione del primo comma dello stesso articolo», non si potesse «tenere conto della condotta del reo susseguente al reato».
 
Torneremo tra breve, con maggior dettaglio, sulla portata del decisum. Può essere utile, prima, un breve inquadramento della disciplina sottoposta a censura e dei principi in base ai quali la Corte ne ha identificato, con logica stringente e argomenti conclusivi, il sicuro carattere di incostituzionalità.
 
 
2. È risaputo come le attenuanti generiche abbiano rappresentato il primo (ed ancor oggi il più potente) mezzo per fronteggiare l’incapacità legislativa di pervenire ad una organica riforma del diritto penale, necessaria per adeguare pienamente il sistema sanzionatorio alla Costituzione ed alla sua gerarchia di valori. Nel 1944 l’introduzione dell’art. 62-bis costituì lo strumento urgente per fronteggiare la severità delle scelte di politica criminale sottese al codice vigente e l’eccentricità di parte delle medesime rispetto ai principi liberali ed umanitari che avrebbero trovato consacrazione alla fine del processo costituente. Dopo trent’anni una ulteriore riforma – che ebbe anche il sapore della rinuncia ad una organica ridefinizione del sistema penale – comportò che le attenuanti generiche si trovassero inserite in un regime delle circostanze completamente destrutturato, attraverso l’espansione (nell’oggetto e negli esiti possibili) del meccanismo di comparazione, accompagnata dalla demolizione della recidiva. Recidiva che divenne sempre «facoltativa», e che comunque poteva essere liberamente comparata con circostanze di segno opposto, tra le quali naturalmente primeggiavano proprio le attenuanti generiche.
 
Di qui, per altro, un fenomeno di grande portata, e cioè la delega di fatto, nei confronti del corpo giudiziario, del compito di governare l’evoluzione del sistema, la sua (indispensabile) rispondenza ai mutamenti della società e delle dinamiche di devianza. Una perdita di controllo della politica in ordine alle scelte di governo dei fenomeni criminali. Ed anche, per altro verso, una diminuita efficienza del principio di legalità. Per restare nella dimensione sanzionatoria, l’escursione tra il massimo ed il minimo della pena possibile è divenuta tanto ampia che la prevedibilità delle relative decisioni è rimasta per la gran parte affidata alla ragionevolezza dei giudici ed alla forza condizionante delle prassi territoriali.
 
 
3. È risaputo per altro che, per ragioni complesse,  il sistema ha perso fiducia nei suoi giudici. Di più, la politica ha maturato un fisiologico bisogno di riassumere il controllo delle scelte di governo dei fenomeni di devianza. E tuttavia, trascurando la complessità del sistema, la strategia si è risolta nella mera e caotica riduzione degli spazi di discrezionalità giudiziale, in una logica pressoché completamente «reattiva».
 
Negli ultimi anni (alla legge 251 del 2005 sono succeduti i «pacchetti sicurezza» del 2008 e del 2009), il legislatore ha individuato aspetti del «diritto giurisprudenziale» che, nelle sue valutazioni, contrastavano con le travi portanti delle nuove gerarchie di valori e delle nuove priorità. In una tensione irrisolta tra «rigorismo» e «garantismo», la soluzione è stata cercata e trovata non nella precisazione normativa di criteri o, più in generale, nella riscrittura delle regole, quanto piuttosto, sul piano processuale come su quello sostanziale,  nella creazione di statuti differenziali: da più parti si parla di tipi d’autore. 
 
Non v’è dubbio che il recidivo, così come l’accusato od il condannato per reati stigmatizzati dal legislatore, abbiano rappresentato negli ultimi anni l’epicentro del fenomeno sommariamente delineato. Attraverso un sistema fondato su preclusioni, che dovrebbero trovare la propria giustificazione razionale in base a presunzioni (le quali servono, per loro stessa natura, a condizionare i processi cognitivi e valutativi del giudice), il legislatore ha individuato le fasce di devianza a suo giudizio meritevoli del proprio intervento rigoristico, sottraendole in maggiore o minore misura alla discrezionalità del giudice. Il che potrebbe ben consistere in sostanziale ed auspicabile assunzione di responsabilità della politica, a condizione che gli interventi assumano veste tecnica dignitosa e risultino ispirati ai principi costituzionali.
 
 
4. La disciplina censurata dalla Consulta, con la sentenza qui in commento, si caratterizza per il connubio di interventi su due strumenti essenziali delle politiche criminali dominanti negli ultimi anni: l’irrigidimento ad ogni livellodei meccanismi punitivi concernenti i recidivi, ed in particolare i recidivi reiterati; la riduzione di efficienza del più tradizionale tra gli strumenti di mitigazione del rigore sanzionatorio che caratterizza l’ordinamento, e cioè, appunto, le attenuanti generiche.
 
A quest’ultimo proposito va ricordato come il legislatore del 1944 avesse lasciato pressoché indeterminata la fisionomia delle circostanze di fatto utili alla applicazione dell’art. 62-bis, in congruenza del resto con la funzione che la norma era chiamata ad assolvere. Il dibattito sulla relativa nozione si è sviluppato per oltre sessant’anni. La giurisprudenza, non senza qualche diversità di accento, ha sempre ammesso che il giudice possa valutare nella prospettiva delle attenuanti generiche anche i fattori che la legge, attraverso il disposto dell’art. 133 c.p., pone più generalmente a fondamento dell’opera di quantificazione della pena tra i valori edittali (ad esempio, Cass., Sez. IV, 27 giugno 2002, n. 35930, Martino, in C.E.D. Cass., n. 222351). Tra i fattori in questione, i precedenti del reo – che rilevano com’è ovvio anche a fini di applicazione della recidiva (da ultimo, Cass., Sez. VI, 16 giugno 2010, n. 34364, Giovane, ivi, n. 248244) e la condotta susseguente al reato, a cominciare dalla qualità dell’atteggiamento processuale e dall’eventuale confessione (ad esempio, Cass., sez. V, 14 maggio 2009, n. 33690, Bonaffini, ivi, n. 244912).
 
Una conferma della prospettiva storicamente adottata in giurisprudenza è venuta proprio dagli interventi «rigoristici» del legislatore sull’art. 62-bis c.p. L’intento di limitare la discrezionalità giudiziale nel riconoscimento di attenuanti generiche è stato attuato vietando l’apprezzamento di circostanze riconducibili all’art. 133 c.p. È accaduto da ultimo con l’introduzione di un terzo comma della norma sulle attenuanti generiche (decreto-legge 23 maggio 2008, n. 92, nel testo risultante dalla legge di conversione n. 125 del 2008), che preclude l’applicazione dell’attenuante in base alla mera condizione di «incensurato» del reo (condizione tradizionalmente valorizzata in rapporto al disposto del n. 2) del secondo comma dell’art. 133 c.p., che si riferisce tra l’altro ai precedenti penali e giudiziari» dell’interessato).
 
Più complessa l’operazione attuata circa tre anni prima, con la legge ex Cirielli, attraverso l’introduzione del secondo comma dell’art. 62-bis. Il divieto di apprezzamento era stato posto riguardo ad un determinato tipo d’autore, identificato (almeno secondo l’interpretazione più diffusa, in un contesto letterale a dir poco problematico) attraverso un doppio criterio presuntivo. Il primo concerneva in sostanza i precedenti del reo, risolvendosi nel riferimento ai «casi previsti dall'articolo 99, quarto comma» del codice penale, cioè al recidivo reiterato. Il secondo criterio, fondato su una presunzione ancor più debole (perché connessa ad un fatto non ancora provato), si fondava sulla qualità dell’imputazione, nella specie selezionata attraverso il rinvio al solito catalogo dell’art. 407, comma 2, lett. a), del codice di rito penale (con l’ulteriore filtro della sanzione edittale pari o superiore, nel minimo a cinque anni).
 
Ebbene, per questo tipo d’autore, veniva fatto divieto al giudice di fondare il riconoscimento di attenuanti generiche su due fattori fondamentali (per quanto eterogenei) di determinazione del trattamento sanzionatorio nella prospettiva dell’art. 133 c.p.: l’intensità del dolo (n. 3 del primo comma della norma appena citata) e la capacità a delinquere (tutte le previsioni del secondo comma della medesima norma).
 
Non è questa la sede per evidenziare l’incongruenza del primo fra i due divieti. Quanto al secondo, se risulta comprensibile la necessità di prevenire interferenze con la disciplina «specifica» del precedenti criminali del reo (n. 2 del secondo comma), lo stesso non può dirsi quanto ai profili ulteriori di misurazione della capacità criminale. Dal punto di vista pratico (e, non casualmente, anche nel giudizio a quo) la disposizione censurata si risolveva soprattutto nel divieto di apprezzare la condotta susseguente al reato, anche quella processuale, quale elemento di eventuale moderazione del trattamento sanzionatorio per il recidivo reiterato.
 
Attenzione, perché il problema dell’automatismo preclusivo non poteva essere risolto, come per fattispecie analoghe è accaduto ad opera della giurisprudenza costituzionale e della giurisprudenza ordinaria, eliminando la base fattuale della regola di volta in volta presa in considerazione, e cioè non applicando la recidiva. Una strategia siffatta – della quale la stessa giurisprudenza ha evidenziato rischi e limiti – poteva essere al limite utilizzata per i casi di recidiva reiterata «facoltativa», di cui al quarto comma dell’art. 99 c.p.: il giudice che ritenesse «incongruo» il risultato sanzionatorio finale del processo di quantificazione della pena poteva, non senza improprie commistioni di criteri applicativi, escludere la recidiva proprio al fine di evitare che si attivasse il divieto di riconoscimento delle attenuanti generiche. Ma la stessa strategia non era proponibile, naturalmente, nel caso di recidiva «obbligatoria» regolato dal quinto comma dell’art. 99. Senza dire che, come vedremo tra breve, la Consulta ha ritenuto di interpretare la disposizione censurata nel senso che si riferisce proprio e solo a situazioni di applicazione obbligatoria della recidiva reiterata.
 
Dunque, per i «casi gravi», il legislatore aveva introdotto un doppio automatismo, come tale fondato su una doppia presunzione assoluta.
La recidiva costituisce un lecito strumento di adeguamento sanzionatorio per i casi di relazione qualificata tra i precedenti del reo ed il fatto per il quale infliggere una punizione, nei suoi profili oggettivi e soggettivi di gravità. A queste condizioni la recidiva si armonizza con i criteri di ragionevolezza, proporzionalità, finalizzazione rieducativa della pena. Nei casi di applicazione obbligatoria, la relazione qualificata tra precedenti del reo e fatto suscettibile di sanzione è presunta dalla legge.
Per altro verso, nella prospettiva dei parametri costituzionali già evocati, il divieto incondizionato di apprezzare determinati fattori di attenuazione non poteva che reggersi concettualmente sulla presunzione legislativa di irrilevanza dei medesima fattori nella misurazione della capacità criminale del reo.
 
 
5. Non è un caso che abbia di recente dovuto rivitalizzarsi, e trovare applicazioni sempre più frequenti e rilevanti, una tradizionale giurisprudenza costituzionale sui limiti di compatibilità tra il principio di uguaglianza e le presunzioni assolute poste a fondamento di determinate discipline. Dette presunzioni, proprio perché servono ad imporre un determinato trattamento per tutte le situazioni riferibili alla fattispecie che le presuppone, a prescindere da eventuali scarti tra modello astratto e fattispecie concreta, generano «naturalmente» una tensione con i principi di uguaglianza e ragionevolezza. Dunque la «legge di copertura» in base alla quale una presunzione viene costruita deve essere molto attendibile, in grado elevatissimo quando si discuta di presunzioni assolute. La fisionomia della fattispecie deve essere costruita in guisa tale, cioè, da ridurre grandemente, se non eliminare, il rischio della sua applicazione ad ipotesi concrete prive della connotazione che giustifica razionalmente la disciplina considerata.
 
È possibile, ad esempio, che si desuma dal compimento di determinati reati, in presenza di certe condizioni, la disponibilità di un reddito occulto da parte del responsabile. Ma la tipologia dei reati rilevanti, così come altre loro caratteristiche (a cominciare dalla loro prossimità cronologica rispetto al momento della valutazione), devono essere selezionate in modo da garantire una elevatissima coincidenza tra casi presunti e casi verificati di disponibilità del reddito.
 
L’esempio è ispirato dalla prima delle recenti sentenze costituzionali che hanno fondato dichiarazioni di illegittimità sul carattere ingiustificato delle presunzioni assolute introdotte dall’attuale legislatore. Il caso di specie riguardava proprio un divieto di accesso al patrocinio a spese dell’Erario per soggetti in precedenza condannati in ordine a determinati reati: la giustificazione implicita (e, curiosamente, anche esplicita) della preclusione consisteva nella presunzione, non superabile, che dai reati pregressi l’imputato avesse tratto un reddito occulto superiore alle soglie che specificano il concetto di «non abbienza» (art. 76, comma 4-bis, del d.P.R. n. 115 del 2002). Tutto ciò comprendendo nell’elenco reati non necessariamente lucrosi, senza alcuna limitazione di prossimità cronologica, di talché la presunzione di «abbienza» doveva reggersi anche riguardo a fatti commessi decenni prima di quello posto ad oggetto dell’imputazione. Ebbene, ecco la regola generale enunciata: «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit». In particolare, l’irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia «agevole» formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sentenza n. 139 del 2010).  
 
Com’è noto, ragionamenti analoghi sono stati posti a fondamento di decisioni ancor più recenti, in materia di applicazione «obbligatoria» della custodia in carcere nei confronti di persone accusate di determinati delitti (comma 3 del novellato art. 275 c.p.p.). Di nuovo, norme presuntive fondate sull’assunto che la (ipotizzata) responsabilità per determinati fatti esprima un livello di pericolosità tale da non essere contenibile mediante forme di restrizione della libertà meno assolute della restrizione in carcere.
 
La legge di copertura è stata giudicata inaffidabile dalla Corte costituzionale, per ragioni di dettaglio che qui non mette conto ricostruire, sia nel caso dei reati sessuali (sentenza n. 265 del 2010) sia nel caso dell’omicidio volontario (sentenza n. 164 del 2011).
In entrambi i casi, la Corte non ha eliminato radicalmente la norma presuntiva, ma l’ha resa superabile in presenza di caratteristiche del caso concreto difformi, quanto agli elementi giustificativi del trattamento, dal modello astratto posto ad oggetto della generalizzazione.
 
 
6. Questo il panorama sul quale la Corte è intervenuta con la dichiarazione parziale di illegittimità dell’art. 62-bis c.p.
 
Il giudice rimettente aveva costruito le proprie censure in varie direzioni, segnalando la ridotta possibilità per il giudice di assicurare un rapporto proporzionale tra pena e fatto (fino ad evocare la nota tematica delle pene fisse), postulando l’irrazionalità di una selezione operata all’interno del catalogo fissato nell’art. 407 c.p.p.,  prospettando una situazione conseguente di parificazione indebita tra situazioni disomogenee e di illegittima discriminazione tra situazioni assimilabili.
 
La Corte costituzionale, dal canto proprio, ha fissato alcune premesse. In primo luogo, e come si è visto, ha precisato che la norma censurata concernerebbe i soli casi di recidiva obbligatoria («il richiamo congiunto alla recidiva reiterata (…) e al catalogo dei “delitti previsti dall’articolo 407, comma 2, lettera a), del codice di procedura penale”, cui rinvia anche il quinto comma dell’art. 99 cod. pen., fa sì che il secondo comma dell’art. 62-bis cod. pen. debba intendersi riferito a un’ipotesi di recidiva obbligatoria».
È dunque stata esclusa, per implicito, la possibilità di «aggirare» la preclusione concernente le attenuanti generiche attraverso la disapplicazione della recidiva.
In secondo luogo è stata negata la rilevanza della tematica concernente le pene fisse e, in generale, gli strumenti per l’adeguata modulazione del trattamento sanzionatorio, perché la norma censurata lasciava pur sempre spazi significativi di valutazione discrezionale. Del pari infondati i rilievi del rimettente sulla pretesa «arbitrarietà» delle scelte legislative nell’assemblaggio dei «parametri» di pericolosità sui quali fondare la preclusione.
 
Con decisione, invece, la Corte ha individuato la regola presuntiva sottesa al divieto, e cioè l’aspettativa che l’elemento rappresentato dai precedenti del reo risulti sempre preponderante, nella valutazione della capacità a delinquere, sui fattori indicati al secondo comma dell’art. 133 c.p.: che una piena confessione, ad esempio, non possa mai valere a bilanciare il significato sintomatico della recidiva,per altro non valutabile in concreto, trattandosi di fattispecie ad applicazione obbligatoria.
 
Insomma, un duplice automatismo, il primo risultante dal quinto comma dell’art. 99 c.p., ed il secondo dalla norma censurata.
 
La Corte non ha voluto né poteva occuparsi del primo, ma puntualmente ha colto l’irragionevolezza del secondo, subito richiamando i precedenti citati nel paragrafo che precede.
 
Non corrisponde all’id quod plerumque accidit  che il reo gravato da determinati precedenti (magari non gravi e assai risalenti nel tempo) sia portatore necessariamente di una capacità delinquenziale tale da rendere insignificante il suo comportamento successivo al reato (magari segnato da confessione e atteggiamento collaborativo, in un contesto tale da rendere queste scelte non banali o ispirate a mere ragioni di convenienza). È agevole immaginare (per riprendere un’altra espressione della giurisprudenza in materia) situazioni concrete in cui lo scarto dal modello presuntivo sotteso alla preclusione sia tale da rendere irragionevole, nella prospettiva dell’art. 3 Cost., la parificazione nel trattamento di maggior rigore.
 
È opportuna una citazione testuale: «una siffatta formulazione [è] agevole, considerando, da un lato, che la recidiva può basarsi anche su fatti remoti e privi di rilevante gravità e, dall’altro, che la decisione può intervenire anche a distanza di anni dalla commissione del fatto per cui si procede e che successivamente l’imputato potrebbe aver tenuto comportamenti sicuramente indicativi di una risocializzazione in corso, o interamente realizzata, e potrebbe anche essere divenuto una persona completamente diversa da quella che a suo tempo aveva commesso il reato».
 
Oltretutto – osserva la Corte – il riconoscimento delle attenuanti generiche rappresenta il minimo utile a neutralizzare gli effetti sanzionatori delle aggravanti, e della stessa recidiva, dato che resta comunque operante il divieto di prevalenza posto dall’art. 69 del codice penale.
 
Insomma, violazione dell’art. 3 Cost., nei termini che sono ormai ampiamente illustrati.
 
 
7. Ma la Corte ha ravvisato anche, e significativamente, una violazione del terzo comma dell’art. 27 Cost.
 
Il principio di necessaria finalizzazione rieducativa della pena non opera soltanto con riguardo alla fase esecutiva, ma deve permeare, com’è noto, le scelte legislative in punto di comminazione, e dunque ispirare le opzioni in termini di qualità e quantità della risposta sanzionatoria. La Corte ha ricordato, in proposito, la propria giurisprudenza, secondo cui il legislatore può discrezionalmente regolare l’equilibrio tra le varie funzioni che l’ordinamento assegna alla sanzione penale, posto che la valenza rieducativa non è l’unica, e deve ad esempio concorrere con finalità di prevenzione speciale. Tuttavia sono illegittime scelte che comportino la completa obliterazione, nel caso concreto, di una delle funzioni costituzionalmente imposte, ed in particolare di quella rieducativa.
 
Proprio questo è accaduto nel caso di specie: «l’inasprimento del trattamento sanzionatorio per i “recidivi reiterati” (…) senza la possibilità di tenere conto del loro comportamento successivo alla commissione del reato, anche quando è particolarmente meritevole ed espressivo di un processo di rieducazione intrapreso, o addirittura già concluso, la norma in esame, in violazione dell’art. 27, terzo comma, Cost., privilegiando un profilo general-preventivo, elude la funzione rieducativa della pena».
 
Di qui il dispositivo della sentenza: illegittimo l’art. 62-bis, secondo comma, cod. pen., come sostituito dall’art. 1 della legge n. 251 del 2005, «nella parte in cui stabilisce che, ai fini dell’applicazione del primo comma dello stesso articolo, non si possa tenere conto della condotta del reo susseguente al reato».

 

8. Un’ultima notazione. In un passaggio del proprio argomentare la Corte ha rilevato come il rimettente avesse inteso censurare la norma sottoposta al vaglio di costituzionalità per una sola parte del suo oggetto. Tra i fattori esclusi dalla valutazione concernente il recidivo reiterato, infatti, è stata focalizzata la sola condotta susseguente al reato (cui si riferisce, tra l’altro, il n. 3) del secondo comma dell’art. 133 c.p.). In questi termini, del resto, la questione assumeva rilevanza nel giudizio a quo. Ed in questi termini, come si è visto, è intervenuta la parziale dichiarazione di illegittimità della Corte.

 
Dunque l’effetto ablatorio della sentenza non coglie le ulteriori preclusioni poste dalla norma censurata, nella parte in cui comprende un riferimento al n. 3) del primo comma ed a tutte le altre previsioni del secondo comma dell’art. 133 c.p. Deve insomma ritenersi che sia ancora inibita la concessione di attenuanti generiche, in favore del recidivo reiterato incolpato di gravi delitti, in base a considerazioni sulla intensità del dolo, o a rilievi sui motivi a delinquere o sulle condizioni di vita del reo.
 
Che le preclusioni in discorso siano compatibili col dettato costituzionale è questione che, per qualche aspetto almeno, non sembra «pregiudicata» dal ragionamento seguito dalla Corte, se non sotto il profilo (niente affatto trascurabile) della regola presuntiva che sottende ai divieti, e della conseguente necessità di misurarne l’attendibilità alla luce dei criteri ormai più volte indicati.