27 febbraio 2012 |
Corte cost., 23 febbraio 2012, n. 31, Pres. Quaranta, Rel. Criscuolo (illegittimo l'automatismo nell'applicazione della sanzione accessoria della perdita della potestà di genitore per il delitto di alterazione di stato)
Poiché la potestà di genitore è essenzialmente funzionale all'interesse dei figli, e poiché l'alterazione di stato non è condotta necessariamente sintomatica di assoluta inidoneità all'esercizio della funzione, è irragionevole che la sanzione debba essere applicata senza previa valutazione di corrispondenza, nel caso concreto, agli interessi del minore
1. Con la pronuncia qui pubblicata, la Corte ha operato, almeno per implicito, intorno a temi della più grande rilevanza generale.
È chiaro, in particolare, che la questione sollevata dai giudici milanesi investiva il tema dei limiti del sindacato di costituzionalità circa l'esercizio della discrezionalità legislativa in materia di individuazione dei comportamenti criminosi e di determinazione del relativo trattamento sanzionatorio. Un problema tradizionalmente risolto nel senso della inammissibilità di censure che non siano fondate sulla manifesta irrazionalità della scelta legislativa, e però episodicamente trattato secondo criteri diversi, almeno in via di fatto.
È chiaro anche, per altro verso, come la questione investisse il tema della compatibilità tra principio di uguaglianza e automatismi sanzionatori, particolarmente ricorrente nella giurisprudenza costituzionale dell'ultimo periodo, sempre con esiti infausti per le norme limitative dell'apprezzamento giudiziale del caso concreto (possono citarsi genericamente, qui, sia le sentenze sulle norme processuali in tema di custodia in carcere, sia la decisione "sostanziale" sulla preclusione delle attenuanti generiche in danno del recidivo).
La Corte, pur naturalmente consapevole di implicazioni tanto generali e tanto rilevanti, ha preferito risolvere la questione con riguardo molto specifico alla sanzione presa in esame ed al reato cui la stessa veniva collegata. Il che tra l'altro si comprende, considerando come l'automatismo nell'applicazione sia una caratteristica comune per le pene accessorie. Ciò non toglie, ad ogni modo, che l'odierna decisione si inserisca con armonia nelle tendenze più recenti della giurisprudenza costituzionale, e che di essa debba tenersi conto quando si tratti, appunto, di ricostruire tali tendenze.
2. È il caso allora di concentrarsi, rapidamente, sulle caratteristiche del caso concreto.
Il Tribunale di Milano aveva sollevato, in riferimento agli articoli 2, 3, 27, terzo comma, 30 e 31 Cost., questione di legittimità costituzionale dell'art. 569 del codice penale, che com'è noto prevede la pena accessoria della perdita della potestà genitoriale nel caso di condanna per uno dei delitti contro lo stato di famiglia (artt. 566-568 c.p.). Tra detti delitti è compreso quello di alterazione di stato (art. 567 c.p.).
Era accaduto, per quanto è dato sapere, che una donna coniugata aveva denunciato la nascita della propria bambina, presso l'ufficiale dello stato civile, come figlia naturale, vanificando la presunzione di legittimità che assiste i bambini nati in costanza di matrimonio.
Prima di deliberare una eventuale sentenza di condanna, il Tribunale ha contestato che il provvedimento dichiarativo della «decadenza» fosse nell'interesse della bambina, e dunque che fosse ragionevole la sua applicazione necessaria, apprezzando anche il fatto, forse, che la questione (non sollevata dall'imputata) sia stata posta proprio dal curatore speciale della minore.
3. Il ragionamento della Corte si è sviluppato attraverso alcuni snodi essenziali.
In primo luogo, la potestà genitoriale non può più essere considerata quale prerogativa dell'adulto, quanto piuttosto alla stregua di funzione di servizio nell'interesse del minore, il quale va accompagnato, nell'ambito della famiglia naturale (ogni volta che sia possibile), nel suo percorso di crescita materiale e spirituale.
La Corte ricorda le principali fonti sovranazionali mirate alla tutela dei minori, le quali direttamente impongono che, in qualunque decisione lo coinvolga, «l'interesse superiore del fanciullo deve essere una considerazione preminente» (art. 3, primo comma, della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176). Analoghi contenuti esprimono la Convenzione europea sull'esercizio dei diritti dei fanciulli, adottata dal Consiglio d'Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996, ratificata e resa esecutiva con legge 20 marzo 2003, n. 77, e la cd. Carta di Nizza. Naturalmente, agli stessi valori si orientano il diritto di famiglia ed il diritto minorile di matrice interna.
Da un lato dunque la potestà genitoriale è un bene riferibile al minore, più che al titolare, e dall'altro l'interesse del minore nel caso concreto deve essere il criterio di decisione prevalente in ogni fattispecie. Esattamente quel che non consente una decadenza «automatica». Viene da rilevare, anche se la Corte non esprime un concetto del genere, quanto sia illogico che, per punire l'adulto, si colpisca un diritto del fanciullo. Sempreché, naturalmente, l'interruzione del rapporto non corrisponda nel caso concreto all'interesse del minore. Ciò che l'automatismo denunciato, ancora una volta, non consente di verificare.
Ecco allora il secondo ed essenziale snodo del ragionamento. La norma censurata è irragionevole (non, si noti, manifestamente irragionevole) perché «statuisce la perdita della potestà sulla base di un mero automatismo, che preclude al giudice ogni possibilità di valutazione e di bilanciamento, nel caso concreto, tra l'interesse stesso e la necessità di applicare comunque la pena accessoria in ragione della natura e delle caratteristiche dell'episodio criminoso, tali da giustificare la detta applicazione appunto a tutela di quell'interesse».
È significativo come la Corte riprenda un leitmotiv delle sue recenti decisioni sugli automatismi, verificando l'attendibilità della legge di copertura che dovrebbe giustificare la presunzione assoluta costruita sulla fattispecie incriminatrice e sulla connessa previsione sanzionatoria. Un cenno molto fugace ma inequivocabile: l'alterazione di stato, «diversamente da altre ipotesi criminose in danno di minori, non reca in sé una presunzione assoluta di pregiudizio per i loro interessi morali e materiali, tale da indurre a ravvisare sempre l'inidoneità del genitore all'esercizio della potestà genitoriale». Ed anche per questa ragione la norma censurata contrasta con l'art. 3 Cost.
4. Un'ultima, rapida notazione. Come detto, la Corte ha "ritagliato" la propria decisione sulla fattispecie, con particolare cura. L'art. 569 c.p. è stato dichiarato illegittimo solo nella parte in cui preclude «al giudice ogni possibilità di valutazione dell'interesse del minore nel caso concreto», e solo con riguardo al reato di cui al secondo comma dell'art. 567 c.p. (per altro più grave di quello previsto al comma precedente). Per quanto condotta in punto di ragionevolezza intrinseca (e comunque nella prospettiva dell'art. 3 Cost.), l'analisi è stata fortemente ancorata alla preminenza «rafforzata» dell'interesse che, nei singoli casi concreti, può essere pregiudicato dall'automatismo.
La scelta è del tutto armonica con quella che ha segnato le più volte richiamate decisioni degli ultimi tempi. La Corte non ha inteso e non intende negare la possibilità di ricorso a presunzioni assolute come ragioni giustificatrici di determinate discipline. Ha inteso piuttosto verificare, caso per caso, se la presunzione sia ragionevole.
Il che, per inciso, porta ad interrogarsi su recenti tendenze della giurisprudenza comune a generalizzare l'esito dei giudizi di legittimità costituzionale in rapporto a «materie analoghe», quasi che la ratio decidendi di una pronuncia di illegittimità possa direttamente risolversi in un precetto cui riferire l'interpretazione «adeguatrice», e non piuttosto segnare la linea d'una valutazione di compatibilità costituzionale delle norme «analoghe».