19 dicembre 2011 |
Corte cost., 16 dicembre 2011, n. 331, Pres. Quaranta, Rel. Frigo (illegittima la prescrizione "obbligatoria" della custodia in carcere anche per il favoreggiamento dell'immigrazione illegale)
La Corte ribadisce l'illegittimità di presunzioni assolute di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere, fondate sul titolo del reato in contestazione, quando non corrispondano all'id quod plerumque accidit
1. È caduta l'ennesima norma tra quelle introdotte, su base presuntiva, mediante «pacchetti sicurezza» che avrebbero dovuto favorire il contenimento di alcuni fenomeni criminali, per altro selezionati secondo criteri a forte caratterizzazione ideologica.
Nella specie si allude alla legge n. 94 del 2009, cui si deve il testo novellato sia della norma sostanziale che configura le fattispecie più gravi di favoreggiamento dell'immigrazione illegale, sia della norma processuale che impone(va), per i delitti in questione, l'applicazione «obbligatoria» della custodia in carcere, sulla falsariga della prescrizione che segna il testo, a sua volta riformato, del comma 3 dell'art. 275 c.p.p.
La norma sostanziale è il comma 3 dell'art. 12 del T.u. immigrazione (d.lgs. 25 luglio 1998, n. 286), il quale punisce con la reclusione da cinque a quindici anni e con una multa proporzionale al numero degli stranieri coinvolti chiunque, in violazione delle disposizioni dello stesso testo unico, promuove, dirige, organizza, finanzia o effettua il trasporto di stranieri nel territorio dello Stato ovvero compie altri atti diretti a procurarne illegalmente l'ingresso nel territorio dello Stato, ovvero di altro Stato del quale la persona non è cittadina o non ha titolo di residenza permanente. Il fatto rileva (distinguendosi da quelli riconducibili al comma 1 dello stesso art. 12) se riguarda l'ingresso o la permanenza illegale nel territorio dello Stato di cinque o più persone, se la persona trasportata è stata esposta a pericolo per la sua vita o per la sua incolumità, oppure ad un trattamento inumano o degradante, o infine se gli agenti dispongono di armi o materie esplodenti o comunque agiscono nel numero di almeno tre concorrenti, oppure utilizzando servizi internazionali di trasporto ovvero documenti contraffatti o alterati o comunque illegalmente ottenuti.
La norma processuale, cioè quella sottoposta a censura, è contenuta nel successivo comma 4-bis, e stabilisce (o, meglio, stabiliva) che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari.
2. L'analogia della disciplina rispetto a quella dettata per numerosi altri reati dal comma 3 dell'art. 275 c.p.p. risulta evidente. Dunque risulta evidente come si tratti dell'ennesimo attacco legislativo ai margini di discrezionalità giudiziale che tanto peso hanno avuto, storicamente, nel garantire la necessaria individualizzazione dei trattamenti punitivi o cautelari, essenziale implicazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza, di minimo utile sacrificio della libertà nella prospettiva cautelare, di proporzionalità e finalizzazione rieducativa nella prospettiva sanzionatoria.
Per ragioni complesse - si è già detto - il sistema non si fida più dei suoi giudici, e sostituisce valutazioni generali ed astratte all'apprezzamento delle circostanze che segnano ciascun caso concreto.
È interessante mettere in rilievo come la logica presuntiva, che costituisce la sola giustificazione razionale per trattamenti differenziali non fondati sull'accertamento caso per caso, si sia espressa non soltanto a proposito del giudizio di pericolosità concernente la questione cautelare. È chiaro - o almeno lo è grazie a tutti i giudizi costituzionali già celebrati sul comma 3 dell'art. 275 c.p.p. (infra) - che il divieto di applicare misure coercitive diverse dalla custodia in carcere è sostenuto da una presunzione, della quale occorre misurare la ragionevolezza, e cioè che il segnale sintomatico promanante dalla qualità del fatto in contestazione sia tale da rendere palese l'inadeguatezza delle misure alternative al contenimento della pericolosità espressa dall'interessato. Ma la stessa logica avrebbe dovuto sostenere norme di vera e propria stigmatizzazione, come ad esempio quella che precludeva l'accesso al patrocinio a spese dello Stato per coloro che avessero riportato condanna in ordine a determinati delitti (sent. n. 139 del 2010 della Corte costituzionale), o quella che imponeva un aggravamento di pena per tutti i fatti commessi da uno straniero in condizione di soggiorno irregolare (sent. n. 249 del 2010).
Soprattutto, la presunzione sempre più chiaramente si rivela quale unico possibile presupposto giustificativo per regole sostanziali che discriminano il trattamento sanzionatorio d'un determinato fatto in base ad una caratteristica personale dell'agente, in primis la recidiva. Non è un caso che, tra le ultime sentenze manipolatorie della Corte sul tema delle presunzioni assolute, ve ne fosse una, particolarmente importante, riguardo alla parziale preclusione del riconoscimento di attenuanti generiche in favore del recidivo reiterato (sent. n. 183 del 2011).
3. È noto che le presunzioni, proprio perché tendono ad imporre un determinato trattamento per tutte le situazioni riferibili alla fattispecie che le presuppone, a prescindere da eventuali scarti tra modello astratto ed ipotesi concreta, generano «naturalmente» una tensione con i principi di uguaglianza e ragionevolezza. Dunque la «legge di copertura» in base alla quale una presunzione viene costruita deve essere molto attendibile, in grado elevatissimo quando si discuta di presunzioni assolute. La fisionomia della fattispecie deve essere costruita in guisa tale, cioè, da ridurre grandemente, se non eliminare, il rischio della sua applicazione ad ipotesi concrete prive della connotazione che giustifica razionalmente la disciplina considerata.
È questo il concetto che la Corte costituzionale ha ripreso di recente con locuzioni che, ormai, si trasferiscono quasi inalterate da una decisione all'altra: «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit». In particolare, l'irragionevolezza della presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia «agevole» formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa (sent. n. 139 del 2010).
Nel corso dell'ultimo anno, il concetto si è posto alla base delle tre sentenze che hanno inciso sulla preclusione posta dal comma 3 dell'art. 275 c.p.p., trasformando la presunzione di inadeguatezza delle misure alternative alla carcerazione da assoluta a relativa. Al legislatore non è vietato di assegnare valore, sul piano delle procedure di formazione della base cognitiva e di accertamento del fatto, a circostanze normalmente sintomatiche di una caratteristica che legittima, sul piano razionale, un determinato trattamento. È vietato, però, di imporre tale ultimo trattamento, attraverso una presunzione insuperabile, anche quando, nel caso concreto, la fattispecie risulti priva della caratteristica indicata, a meno che la frequenza statistica delle corrispondenze non sia tanto elevata da rendere del tutto implausibile l'eventualità dello scarto. Per quel che interessa la materia cautelare, è necessario che il valore sintomatico del fatto di reato sia così generalmente univoco, nel senso di una gravissima pericolosità, da rendere «disagevole» (ma meglio sarebbe dire implausibile) la configurazione di un caso in cui risulti chiara l'adeguatezza di misure alternative alla custodia in carcere nonostante l'esistenza di gravi indizi di responsabilità per quel reato.
Una siffatta verifica era stata puntualmente condotta dalla Corte (nonostante la diversità del linguaggio rispetto a quello odierno) già con la ord. n. 450 del 1995, che aveva «salvato» il comma 3 dell'art. 275 c.p.p. quando l'obbligo di custodia in carcere si riferiva ai soli fatti di connotazione mafiosa: in sostanza, si era ritenuto che le caratteristiche del fenomeno mafioso fossero tali da rendere ragionevole una presunzione insuperabile di elevata pericolosità. La stessa verifica si è conclusa diversamente rispetto a reati anche più gravi, sul piano della sanzione edittale, e tuttavia caratterizzati da una sensibile eterogeneità delle fattispecie riconducibili alla previsione tipica, tale da abbattere la frequenza delle corrispondenze ad un modello capace di giustificare razionalmente la presunzione. Così è stato rispetto ai delitti di violenza sessuale (sent. n. 265 del 2010), al caso dell'omicidio volontario (sent. n. 164 del 2011), al reato di associazione finalizzata al narcotraffico (sent. n. 231 del 2011).
4. Lo stesso è accaduto con la decisione qui in commento. Dopo aver ricordato i precedenti richiamati, e la propria giurisprudenza sul principio del «minore sacrificio necessario» in materia di custodia cautelare, la Corte ha operato la necessaria verifica di ragionevolezza della presunzione assoluta sottesa al comma 4-bis dell'art. 12 del T.u. immigrazione.
Agevole la conclusione. La fattispecie sostanziale delinea varie ipotesi alternative, talvolta differenziate in modo marcato proprio sotto il profilo che assume qui specifica rilevanza. Per un verso, si tratta di delitto a consumazione anticipata, il che rende sanzionabile già il mero compimento di atti «diretti a procurare» l'ingresso illegale di stranieri. Per altro verso, la condotta tipica non richiede assolutamente la pertinenza ad una struttura organizzata, e men che meno ad un gruppo associativo. Può trattarsi di una iniziativa individuale e/o occasionale, e addirittura ispirata da motivi umanitari, visto che il dolo tipico non comprende un fine di profitto. In breve, i fatti cui la norma è applicabile spaziano dall'iniziativa di sodalizi internazionali che praticano la tratta di esseri umani in modo professionale e continuativo (magari brutalmente) alla condotta di chi, magari per legami affettivi, si determina a prestare aiuto ad un singolo migrante. La base statistica della presunzione si sgretola. Ecco quanto osservato in proposito dalla Corte: «l'eterogeneità delle fattispecie concrete riferibili al paradigma punitivo astratto non consente, dunque, di enucleare una regola generale, ricollegabile ragionevolmente a tutte le "connotazioni criminologiche" del fenomeno, secondo la quale la custodia cautelare in carcere sarebbe l'unico strumento idoneo a fronteggiare le esigenze cautelari».
Come in altre occasioni, si è ribadito che la gravità della sanzione non è fattore rilevante fuori dalla prospettiva sanzionatoria (che non investe la cautela in punto di pericolosità), e che l'allarme sociale connesso a determinati fatti non può essere contenuto utilizzando la leva cautelare, perché manca, per definizione, l'accertamento della responsabilità.
5. Resta da dire che, come al solito, la Corte non ha inteso disporre la eliminazione della regola presuntiva, di talchè resta alterata la ripartizione dell'onere della prova in merito alla stretta necessità della custodia in carcere. Si è lasciata in vita una presunzione solo relativa. Dunque la norma censurata è stata dichiarata illegittima «nella parte in cui - nel prevedere che, quando sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine ai reati previsti dal comma 3, è applicata la custodia cautelare in carcere, salvo che siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari - non fa salva, altresì, l'ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risulti che le esigenze cautelari possono essere soddisfatte con altre misure».