1. Nel commentare l’ordinanza di rimessione alle Sezioni unite della
questione concernente l’applicabilità, per effetto di normativa sopravvenuta, di regime cautelare più severo a misura in corso (
in questa Rivista, 2011, ric. Pellegrino), ci eravamo permessi di formulare, sia pure con qualche cautela, la previsione – affidata a più di un motivo e poi avveratasi – di una
soluzione negativa. La cautela era dovuta soprattutto al peso di quella
vischiosità giurisprudenziale che troppe volte ha costituito in passato (gli esempi sono numerosi e si sprecherebbero) e costituisce tuttora
un freno a salutari svolte interpretative.
Era, dunque, nell’aria la decisione, che segna un revirement rispetto ai precedenti delle stesse Sezioni unite e a una pressoché totalitaria giurisprudenza delle sezioni semplici (da ultimo, proprio a ridosso della sentenza in rassegna, Cass., sez. 2a, 16 febbraio 2011 n. 11749, in C.e.d. Cass., n. 249686).
In verità, all’udienza del 31 marzo 2011, nella quale è stata assunta la decisione in commento, era stato discusso un altro ricorso che proponeva la medesima questione – appunto quello più sopra citato, in proc. Pellegrino – ma esso era stato dichiarato inammissibile per il passaggio in giudicato della condanna, con conseguente sopravvenuta irrilevanza della questione medesima, secondo il principio già enunciato da un precedente delle stesse Sezioni unite (Sez. un., 14 luglio 2004 n. 31524, Litteri, in C.e.d. Cass., n. 228167). Nel ricorso Ambrogio è stata invece affrontata la questione oggetto di rimessione non ricorrendo le stesse condizioni del ricorso Pellegrino, e cioè se la misura cautelare in corso di esecuzione, applicata prima di legge sopravvenuta che allarghi il novero dei reati per i quali vale la presunzione legale di adeguatezza esclusiva della custodia in carcerare, possa subire modifiche solo per effetto del nuovo e più sfavorevole trattamento normativo.
2. Ora che è nota la motivazione, ci si può rendere conto della
portata della sentenza che
esordisce ricapitolando la giurisprudenza pressoché ventennale di segno contrario avallata dalle Sezioni unite (e per la quale sia consentito un rinvio alla
nota citata in principio delle presenti osservazioni) premettendo di dover tenere fede al principio
tempus regit actum proprio della successione nel tempo di norme processuali, che tuttavia non può diventare un feticcio sull’altare del quale sacrificare esigenze, di volta in volta diverse, inerenti a specifici istituti (tra questi quello delle
misure cautelari personali), per i quali alle tradizionali logiche di carattere tecnico-formale si sovrappongono tematiche valoriali che ne rendono inadeguato e/o fuorviante l’esclusivo utilizzo.
Conseguentemente, l’approccio al tema non può essere di carattere generalizzante e astratto, ma deve misurarsi con la peculiarità dell’istituto interessato alla successione normativa. Sul piano sistematico, in tema di misure cautelari personali la sentenza muove dal rilievo che nel tessuto originario del codice figurano due momenti concettualmente distinti: quello genetico, disciplinato dagli artt. 273-275 c.p.p. (il grave quadro indiziario, l’individuazione di concrete esigenze cautelari, la selezione della misura cautelare più adeguata), e quello dinamico-funzionale, concernente la vita successiva della misura e richiedente un continuo e assiduo controllo del giudice sul persistere di tutte le condizioni legittimanti la restrizione della libertà personale.
Questo quadro, tuttavia, nel corso del tempo è stato oggetto di varie modifiche intese ad attenuare la discrezionalità del giudice mediante l’introduzione di criteri legali di valutazione, volti ora a favorire per alcuni reati l’applicazione della misura della custodia in carcere, ora a escluderla o limitarla in relazione a determinate condizioni personali. Ovvio che le disposizioni le quali, in ordine ad alcuni delitti, hanno via via introdotto una presunzione relativa di esistenza di esigenze cautelari, superabile solo quando siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari, accompagnata da una presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere, costituiscano un «un vero e proprio regime cautelare speciale di natura eccezionale» (Corte cost., 21 luglio 2010 n. 265).
È la disciplina delle vicende successive all’applicazione della misura a fornire alle Sezioni unite la chiave di volta del problema e a giustificare il corposo revirement rispetto ai loro precedenti di venti anni prima: difatti, è la necessità di una continua verifica circa il permanere delle condizioni che hanno determinato la restrizione della libertà personale e la scelta di una determinata misura a imporre una rivisitazione concettuale dell’istituto della revoca.
Per Sez. un., 27 marzo 1992 n. 8, Di Marco, la lex superveniens che imponga, per un determinato reato, la custodia cautelare in carcere, va attuata attraverso lo strumento contenuto nell’art. 299, comma 1, c.p.p., secondo cui «le misure coercitive [...] sono immediatamente revocate quando risultino mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste [...] dalle disposizioni relative alle singole misure», giacché la modifica legislativa di tali condizioni costituisce un “fatto sopravvenuto” che legittima la revoca; mentre l’applicazione della misura più grave segue di conseguenza.
Per le odierne Sezioni unite l’indirizzo espresso da quella sentenza si affida esclusivamente al novum normativo, ipotizzando un’artificiosa, virtuale revoca della precedente ordinanza cautelare come momento di passaggio intermedio per l’applicazione del più severo regime, mentre la revoca, che integra una fattispecie estintiva della misura, è destinata ad operare quando risultino carenti, «anche per fatti sopravvenuti» le condizioni di applicabilità previste dall’art. 273 c.p.p. o le esigenze cautelari di cui al successivo art. 274: dunque un atto che definisce in modo inequivocabile una situazione in cui la limitazione di libertà deve cessare del tutto.
Così si consuma definitivamente lo strappo rispetto alla precedente sentenza delle Sezioni Unite. Ad avallare quell’insegnamento si finirebbe con lo scalfire retroattivamente lo “statuto” normativo che aveva presieduto all’applicazione del provvedimento originario e ne aveva definitivamente determinato le condizioni di legittimità, vulnerando proprio il principio tempus regit actum.
Difatti, l’applicazione ope legis della disciplina più severa, e della presunzione che essa comporta, alle situazioni in cui la misura cautelare era già in corso ed era stata adottata in base alla disciplina più favorevole, che implicava un apprezzamento discrezionale, comporterebbe l’applicazione retroattiva del novum a un contesto già definito nelle sue coordinate fattuali e normative: operazione che, secondo la sentenza in commento, in mancanza di una disposizione transitoria, non sarebbe consentita proprio per la violazione del principio tempus regit actum.
3. Un paragrafo a sé la sentenza dedica ad alcuni profili posti in evidenza dal provvedimento di rimessione alle Sezioni unite e implicanti l’evocazione di argomenti valoriali, legati alle affinità tra pena e misura cautelare: tema arduo, quello delle interferenze tra i principi dell’ordinamento penale e la disciplina del processo, nel quale, però, la sentenza a ragione non si avventura, concludendo che non esistono – anche alla luce della giurisprudenza costituzionale e sopranazionale – principi di diritto intertemporale propri della legalità penale che possano essere pedissequamente trasferiti nell’ordinamento processuale.
* * *
4. Non può mancare qualche osservazione finale.
Difficile non condividere le conclusioni della sentenza e anche, nella sostanza, l’impianto argomentativo. Difficile, ancora, sfuggire alla suggestione che questo revirement delle Sezioni unite sia stato favorito anche dalla Corte costituzionale (sentenza n. 265 del 2010); anche se va forse aggiunto che il circuito virtuoso dell’interpretazione trova conferma nell’ulteriore sentenza di illegittimità costituzionale in parte qua della Corte costituzionale, sopravvenuta alla decisione del massimo organo di nomofilachia (sentenza n. 164 del 2011, in questa Rivista, 2011, con commento di Panzarasa). E certo la reciproca interazione tra le più alte Corti potrà trovare ulteriore motivo di convergenza nella imminente sentenza della Consulta sulla stessa disposizione con riferimento proprio al reato oggetto di esame da parte delle Sezioni unite nel presente ricorso (art. 74 d.p.r. n. 309 del 1990), nonché in altre sentenze che dovranno definire ulteriori incidenti di costituzionalità (quello sollevato da Cass., sez. I, 22 marzo 2011, L.A., con riferimento al delitto di omicidio, resta sostanzialmente assorbito dalla già citata n. 164 del 2011).
Non appare, invece, del tutto convincente l’evocazione, anche nel principio formulato a norma dell’art. 173 disp. att. c.p.p., della riserva di “assenza di una disposizione transitoria”. Se con tale espressione si intende far riferimento alla possibilità che il legislatore stabilisca una deroga al principio della non applicabilità di disposizioni inerenti alla materia cautelare in peius anche a misure in corso, consentendo così di realizzare quel risultato che la sentenza stessa vuole interdetto su un piano generale, qualche dubbio sulla correttezza della decisione può essere utilmente formulato, specie con riferimento a censure che, sul piano costituzionale, potrebbero essere avanzate nei confronti di una simile disposizione (in ogni caso non va dimenticato che le norme transitorie sono sempre di stretta interpretazione e che la stessa sentenza qualifica come eccezionali le disposizioni introduttive di presunzione relativa di esistenza di esigenze cautelari e assoluta di adeguatezza della sola custodia in carcere).
Ancora: prudentemente è stata solo sfiorata l’ardua questione delle possibili interferenze tra principi dell’ordinamento penale e disciplina di istituti processuali. Ma forse qualche approfondimento, sia pure in obiter, sarebbe stato utile; specie a fronte delle disposizioni transitorie che, in proposito, Rocco, legislatore fascista, aveva dettato all’atto dell’entrata in vigore del codice di procedura penale del 1930, quando all’art. 68 aveva previsto che “all’imputato che si trovi in stato di custodia preventiva nel giorno dell’entrata in vigore del codice di procedura penale, si applicano le disposizioni circa la custodia preventiva del codice abrogato, in quanto siano più favorevoli”, motivando questa scelta, nella Relazione al Re, come segue: “Questa disposizione non è motivata soltanto dalla equità, ma anche da ragioni giuridiche. Infatti, le norme del codice di procedura penale che dispongono sulla libertà personale dell’imputato hanno carattere restrittivo, epperò debbono soggiacere ai criteri di diritto transitorio propri del diritto penale materiale e di ogni altra legge che restringa il libero esercizio di diritto, e non a quelli di diritto processuale.”
D’altronde, già le Sezioni unite, non di recente (Sez. un., 28 gennaio 1998 n. 3, Budini, e coeve Sassosi e Bonanni, in Cass. pen., 1998, p. 2324), avevano affermato, in tema di necessità di espletamento dell’interrogatorio di garanzia dopo la declaratoria di illegittimità costituzionale in parte qua degli artt. 294 e 302 c.p.p. intervenuta con sentenza n. 77 del 1997 della Corte costituzionale: “D’altro canto è assai agevole osservare che il richiamo alla regola tempus regit actum è, nel caso in esame, del tutto inconferente. Tale regola invero, ha valore solo procedurale, mentre all’interrogatorio di garanzia sono legati interessi di natura prettamente sostanziale e, primo tra tutti, quello alla libertà del cittadino, come già in precedenza osservato.” Lasciando, così, intendere che un raccordo, e non di modesto rilievo, intercorre tra istituti processuali inerenti alla libertà personale e diritto penale sostanziale.
Di questo problema e di altri, appena accennati dalla sentenza, di non semplice soluzione, sicuramente si tratterà in qualche prossima occasione.