ISSN 2039-1676


14 febbraio 2011 |

Alle S.U. la questione del regime intertemporale della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare

Nota a Cass. pen., sez. I, 13.10.2010 (dep. 19.1.2011), n. 1338 (ord.), Pres. Silvestri, Rel. Bonito, ric. Pellegrino

È stata fissata dinanzi alle Sezioni unite, per l’udienza del 31 marzo 2011, la discussione di un ricorso nel quale è allattenzione del massimo collegio la questione dellapplicabilità, per effetto di normativa sopravvenuta, di regime cautelare più severo a misura in corso.
 
Nella specie, a seguito dell’entrata in vigore del decreto-legge 23 febbraio 2009, convertito, con modificazioni, nella legge n. 38 del 2009, che ha ampliato il novero dei reati per i quali vige la presunzione legale di adeguatezza esclusiva della custodia in carcere, salva lacquisizione di elementi da cui risulti che non sussistono esigenze cautelari, la Corte dassise dappello, dinanzi alla quale si celebrava il giudizio, aveva sostituito la misura degli arresti domiciliari in corso per un imputato di omicidio pluriaggravato con quella della custodia in carcere e il tribunale della libertà aveva rigettato lappello proposto.
 
A fondamento della decisione di merito era stato evocato il dictum di una non recente pronuncia delle Sezioni unite (Sez. un., 27 marzo 1992 n. 8, Di Marco, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, p. 1481, con commento di Peroni), ritenendosi che la lex superveniens, in quanto di natura processuale e non sostanziale, dovesse trovare applicazione secondo il noto principio tempus regit actum, e quindi comportare la sostituzione, a una misura cautelare in corso, di quella, anche se più afflittiva, imposta dalla disciplina sopravvenuta.
 
Non sarà inutile ricordare che la questione era stata già rimessa allesame delle Sezioni unite, in un caso di associazione finalizzata al narcotraffico, sulla base di argomentazioni sostanzialmente analoghe a quelle riprodotte nel provvedimento in commento, con ordinanza 4 marzo 2010, n. 17981, della quinta sezione penale, anch’essa resa su ricorso avverso provvedimento del medesimo tribunale della libertà. Tale ricorso fu tempestivamente restituito alla sezione di provenienza per la valutazione di attualità del contrasto, avuto riguardo a numerose pronunce che, avallando lindirizzo largamente maggioritario della Corte, adesivo al citato precedente delle Sezioni unite, lasciavano presumere il superamento del contrasto stesso. Di fatto, poi, la sezione lo dichiarò inammissibile per rinuncia, a seguito di intervenuta assoluzione del ricorrente dallimputazione contestata (sez. V, 30 giugno 2010, n. 30111).
 
Ora, la rivalutazione dell’attualità del contrasto viene compiuta dalla prima sezione penale della Corte suprema con levocazione di argomenti non tutti omogenei, anche se quasi tutti presenti nella precedente ordinanza di rimessione; ma la fattispecie di reato è diversa e, nel dilatarsi di decisioni conformi allindirizzo maggioritario (applicabilità della legge sopravvenuta), lordinanza segnala la necessità di un intervento del massimo consesso, nella prospettiva di ossequio alla funzione di nomofilachia della Corte, che verrebbe vulnerata da una decisione difforme da quell’indirizzo.
 
È legittimo però domandarsi perché, questa volta, la questione sia stata assegnata alle Sezioni unite, dato che il trend giurisprudenziale successivo non registra sentenze di segno contrario a quell’orientamento assolutamente prevalente che aveva indotto la Presidenza della Corte a restituire il precedente (mentre ne annovera di conformi e in numero consistente: da ultimo, in aggiunta alle sentenze citate nel provvedimento in commento, Cass., sez. V, 24 settembre 2010, n. 42876, inedita; Cass., sez. V, 15 luglio 2010, n. 35677, inedita; Cass., sez. V, 24 marzo 2010, n. 18093, in C.E.D. Cass., n. 246957; Cass., sez. V, 16 marzo 2010, n. 18090, ivi, n. 247143; Cass., sez. VI, 17 novembre 2009,  n. 8704/2010, ivi, n. 246170) e se, quindi, lattualità del contrasto si sarebbe dovuta egualmente escludere.
 
In effetti per l’orientamento minoritario, secondo cui le misure cautelari legittimamente disposte prima dellentrata in vigore di una modifica legislativa in peius, per reati compresi nella previsione di maggior rigore del nuovo testo normativo, non possono subire trasformazioni per effetto della lex superveniens, risultano solo Cass., sez. VI, 8 luglio 2009, n. 31778, ivi, n. 244264 e Cass., sez. VI, 6 ottobre 2009, n. 45012, ivi, n. 245474.
 
Entrambe queste sentenze, peraltro, muovono dalla premessa della natura processuale delle disposizioni riguardanti modifiche al regime delle misure cautelari, ma rilevano che in nessun caso dal riconoscimento di tale natura si potrebbe desumere lapplicazione di esse anche in relazione a fatti anteriori alla loro introduzione, dovendosi avere riguardo, se non al tempus commissi delicti, quanto meno a quello dell’adozione della misura, per escluderne lapplicabilità con riferimento a misure già in corso alla data della loro entrata in vigore.
 
Tra le ragioni che, in questa occasione, hanno determinato l’assegnazione del ricorso alle Sezioni unite, pare acquistare un peso determinante, più che la diversa fattispecie di reato, la sentenza 21 luglio 2010,  n. 265, della Corte costituzionale, relativa alla presunzione di adeguatezza assoluta della custodia in carcere per numerose fattispecie di violenza sessuale.
 
È arduo attribuire un rilievo decisivo, piuttosto, a Corte eur. dir. uomo, 6 novembre 2003, Pantano c. Italia. Infatti quella pronuncia, peraltro risalente, si era limitata ad affermare, in un passaggio della motivazione, che «in mancanza di elementi che inducano a credere che l’accusato non avrebbe posto nessun reale pericolo, una presunzione come quella prevista dall’articolo 275.3 c.p.p. rischia di impedire al giudice di adattare la misura cautelare alle esigenze di ogni caso di specie e potrebbe quindi apparire eccessivamente rigida», ma che tuttavia «bisogna tenere conto del fatto che il procedimento a carico del ricorrente riguardava delitti legati alla criminalità di stampo mafioso. Ora, la lotta contro questo flagello può, in certi casi, portare all’adozione di misure che giustificano una deroga alla norma fissata dall’articolo 5, che mira a tutelare, prima di tutto, la sicurezza e l’ordine pubblico, nonché a prevenire la commissione di altri reati penali gravi. In questo contesto, una presunzione legale di pericolosità può essere giustificata, in particolare quando non è assoluta, ma si presta ad essere contraddetta dalla prova contraria».
 
È ben vero, come sottolinea il provvedimento in commento, che l’ampliamento del novero dei reati ai quali è stata estesa la più severa disciplina della legge n. 38 del 2009 appare del tutto irrazionale e incoerente, e che la congruità dell’inasprimento è stata ritenuta dalla giurisprudenza costituzionale e sopranazionale solo con riferimento ai delitti di criminalità organizzata; ma è anche indubbio che non si rinvengono, nella decisione della Corte europea, elementi idonei ad escludere che lestensione della normativa di maggior rigore anche ad altri fenomeni criminali, di pari o maggiore gravità, debba essere ritenuta automaticamente lesiva dellart. 5, § 3, della Convenzione europea.
 
Sembra, infatti, che, ai fini della compatibilità della legislazione interna con i principi elaborati dalla Corte europea, sia maggiormente significativa, nelle parole del giudice sopranazionale, la facoltà di prova contraria della presunzione legale di pericolosità dell’imputato.
 
Idem per quanto si riferisce agli elementi desumibili da Corte cost., 24 ottobre 1995, n. 450, per un preteso e necessitato vulnus agli artt. 3, 13 e 27 Cost. di meccanismi di rigida applicazione delle misure, sottratto alla possibilità di interventi discrezionali del giudice.
 
Ecco perché la sentenza n. 265 del 2010 della Corte costituzionale, che è successiva alla restituzione illo tempore avvenuta, non solo sembra assumere un sicuro valore per la spiegazione di questa assegnazione, ma appare anche un elemento utile per una prognosi del caso.
 
Non sfuggirà il rilievo che, nella citata sentenza, la Consulta, ritagliando la decisione di illegittimità costituzionale in parte qua dell’art. 275, comma 3, c.p.p., sulle fattispecie di cui agli articoli 600-ter, primo comma, 609-ter e 609-quater del codice penale, oggetto dei procedimenti a quibus, non ha fatto cenno, neanche di passata, ad altri reati oggetto dell’ampliamento del regime di maggiore severità, limitandosi a stabilire l’illegittimità della mancata previsione dell’ipotesi in cui siano acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, di soddisfacimento delle esigenze cautelari con altre misure.
 
Comè evidente, il caso all’esame delle Sezioni unite è diverso, perché si tratta di stabilire se, in una ipotesi di omicidio pluriaggravato, una misura cautelare in corso di applicazione, diversa dalla custodia in carcere, debba essere sostituita da quest’ultima per il solo fatto che la legge sopravvenuta lo imponga, senza che sia consentito al giudice di continuare a ritenere la congruità della misura applicata in relazione alle esigenze cautelari del caso concreto, sulla base della considerazione che il diritto processuale incidente sulla libertà personale è da assimilare al diritto sostanziale, con la conseguenza della irretroattività della norma meno favorevole per limputato (in tal senso, si veda già Cass., sez. VI, 19 febbraio 1998, n. 595, in C.E.D. Cass., n. 211083).
 
Daltro canto, gli argomenti addotti venti anni fa dalle Sezioni unite e ruotanti sostanzialmente su un’interpretazione discutibile dell’art. 299 c.p.p., nonché sulla configurabilità della lex superveniens come fatto nuovo, sembrano fragili – come puntualmente evidenziato dalla pronuncia in rassegna – alla luce dell’evoluzione della giurisprudenza costituzionale, mentre il principio del favor libertatis pare spingere la soluzione del quesito nel senso di una non reversibilità della misura cautelare meno grave in corso, pur a fronte di un mutamento legislativo in peius che non la consenta più in relazione al titolo di reato contestato (ma si tenga presente che anche Cass., Sez. un., 1° ottobre 1991, n. 20, in Riv. it. dir. proc. pen., 1992, con commento di Riccio, si muove nella stessa logica di Sez. un, Di Marco, cit., quando ritiene legittima la protrazione dei termini di durata massima della custodia cautelare prevista in un provvedimento legislativo modificativo delle norme precedentemente vigenti, salva la già avvenuta maturazione del diritto alla scarcerazione da parte dellimputato).
 
E tuttavia, ad onta di queste premesse, una prognosi in senso favorevole a una sconfessione, da parte delle Sezioni unite, del loro insegnamento di venti anni fa, non sembra del tutto certa.
 
Indubbiamente, la circostanza che in questa occasione, a differenza che in quella di maggio 2010, il ricorso non sia stato restituito alla sezione rimettente pare far inclinare, a fronte di ragioni che censurano lorientamento dominante soprattutto con riferimento a una lettura costituzionalmente orientata delle norme di riferimento, per una particolare attenzione a questa lettura e sembra autorizzare la previsione di una soluzione negativa dellapplicabilità del sopravvenuto regime cautelare più severo a misure in corso.
 
Ma il rigoroso self restraint della sentenza n. 265 del 2010 della Corte costituzionale in ordine allambito di applicazione della sua pronuncia potrebbe anche far propendere le Sezioni unite verso un incidente di costituzionalità, peraltro prospettato nei motivi di ricorso, qualora esse non se la sentissero di operare sic et simpliciter un revirement rispetto a un autorevole, ma datato, loro precedente.