ISSN 2039-1676


15 settembre 2013 |

Convertito in legge il ‘decreto carceri' 78/2013: un primo timido passo per sconfiggere il sovraffollamento

Per consultare il provvedimento in commento, clicca sotto su download documento (le parti evidenziate su sfondo grigio sono quelle inserite in sede di conversione).

 

1. Il 20 agosto è entrata in vigore la legge 9 agosto 2013, n. 94, che ha convertito con modificazioni (anche di un certo spessore) il decreto legge 1 luglio 2013, n. 78, contenente "Disposizioni urgenti in materia di esecuzione della pena" (clicca qui per accedere al testo del d.l. prima delle modifiche apportate in sede di conversione).

Il decreto legge muove, come noto, dall'urgente necessità di ridurre la popolazione detenuta, in considerazione dell'inadeguatezza dei rimedi sino ad ora predisposti e della scadenza, oramai vicina, del termine di un anno, imposto dalla sentenza Torreggiani della Corte EDU per impedire le violazioni 'seriali' dell'art. 3 della Convenzione, dovute alla situazione di sovraffollamento delle nostre carceri.

Le norme introdotte con il provvedimento in esame apportano modifiche al codice penale (limitatamente all'art. 612 bis), al codice di procedura penale, alla legge di ordinamento penitenziario e al t.u. sugli stupefacenti (d.P.R. 309/90) e si muovono lungo due direttrici: da un lato, la riduzione del flusso di soggetti in ingresso negli istituti penitenziari (si vedano in questo senso la restrizione dell'ambito di operatività della custodia cautelare in carcere e l'ampliamento dell'operatività del meccanismo di sospensione dell'ordine di esecuzione delle condanne a pena detentiva di cui all'art. 656 co. 5 c.p.p.); dall'altro, l'eliminazione (o meglio una prima parziale eliminazione) degli automatismi che impediscono o rendono più difficile l'accesso ai benefici penitenziari a categorie di condannati  sulla base di presunzioni assolute di pericolosità (in particolare, ai 'recidivi reiterati').

 

2. Una delle disposizioni più rilevanti, introdotta in sede di conversione del decreto, è la modifica dell'art. 280 co. 2 c.p.p.: secondo quanto previsto dall'art. 1 co. 0 del d.l. il limite di pena per l'applicabilità della custodia cautelare in carcere è stato innalzato da 4 a 5 anni di reclusione. La norma contiene però una specifica deroga per il delitto di finanziamento illecito ai partiti (art. 7 l. 195/1974), per il quale è prevista l'applicabilità della custodia cautelare in carcere, nonostante sia punito con un pena massima di 4 anni di reclusione. La deroga solleva forti dubbi di costituzionalità in relazione al parametro di cui all'art. 3 Cost.: non è chiaro infatti quale sia il fondamento giustificativo di tale eccezione, al di là delle ragioni prettamente politiche che ne hanno evidentemente imposto l'introduzione.

Sempre in sede di conversione è stato modificato l'art. 274 co. 2 lett. c) c.p.p. che, relativamente all'esigenza cautelare rappresentata dal pericolo di commissione di delitti della stessa specie di quello per cui si procede, stabilisce che la custodia cautelare possa essere disposta solo se si tratta di delitti puniti nel massimo con una pena non inferiore a 5 anni (anziché a 4).

In assenza di specifiche disposizioni transitorie, è necessario chiedersi se tali modifiche normative siano destinate ad incidere sulle misure cautelari in corso al momento dell'entrata in vigore della legge di conversione (ossia il 20 agosto, essendo stata la legge pubblicata nella G.U. del 19 agosto 2013). Ora, la materia processuale è governata, come noto, dal principio del tempus regit actum, in base al quale gli atti processuali già compiuti conservano la loro validità anche dopo un mutamento della disciplina legislativa. In materia di custodia cautelare, tale principio è costantemente declinato dalla giurisprudenza di legittimità nel senso che, in caso di successione di leggi, debba darsi applicazione a quella in vigore nel momento in cui la custodia è in corso. Vero è che le Sezioni Unite, nel 2011, hanno affermato l'opposto principio secondo cui "in assenza di una disposizione transitoria, la misura cautelare in corso di esecuzione disposta prima della novella codicistica (...) non può subire modifiche solo per effetto della nuova, più sfavorevole normativa" (cfr. C 31.3.2011, n. 27919, pubblicata su questa Rivista con nota di Romeo, Le Sezioni Unite sul regime intertemporale della presunzione di adeguatezza della custodia cautelare: un revirement giurisprudenziale). Tuttavia, la presa di posizione della Corte si riferiva ad un'ipotesi di modifica normativa in malam partem (si trattava, in particolare, della norma che estendeva la presunzione di adeguatezza della custodia cautelare in carcere al reato di cui all'art. 74 d.P.R. 309/90): un'ipotesi che involge delicate questioni di rispetto dei principi costituzionali di garanzia della libertà personale.

Nel caso di specie, invece, le modifiche processuali operano a favore dell'imputato ed in questo caso il principio che deve operare è quello secondo cui la restrizione della libertà personale implica una continua verifica circa la persistenza delle condizioni di applicabilità della misura cautelare. Principio, questo, che trova del resto espressione nell'art. 299 c.p.p., secondo cui la misura cautelare deve essere immediatamente revocata  "quando risultino mancanti, anche per fatti sopravvenuti, le condizioni di applicabilità previste dall'art. 273 o dalle disposizioni relative alle singole misure".  

Le modifiche agli artt. 280 e 274 c.p.p., forse ancor più che per gli effetti (presumibilmente modesti) che da esse è lecito attendersi, sono significative in quanto esprimono la consapevolezza del legislatore circa il fatto che, in un ordinamento dove più del 40% dei detenuti è costituito da soggetti in attesa di giudizio, una seria politica di riduzione della popolazione carceraria non può prescindere da interventi funzionali a ridurre l'area di operatività della custodia cautelare in carcere.

 

3. Strettamente connesso alle modifiche del codice di procedura di cui si è detto è poi l'innalzamento della pena massima prevista per il delitto di stalking, di cui all'art. 612 bis co. 1 c.p., che è ora punito con la reclusione da sei mesi a cinque anni (anziché quattro): tale modifica - anch'esso introdotta in sede di conversione - è evidentemente finalizzata a consentire l'applicabilità della custodia cautelare, che sarebbe ora altrimenti preclusa dai nuovi limiti di pena fissati nell'art. 280 co.2 c.p.p. A differenza di quanto osservato in relazione alle modifiche del codice di procedura penale, l'innalzamento di pena previsto dall'art. 612 bis c.p. è però destinato ad operare - ai sensi dell'art. 2 co. 4 c.p. - solo per i fatti consumati dopo l'entrata in vigore della legge: da ciò la conclusione che gli imputati attualmente in custodia cautelare per un fatto di stalking commesso anteriormente al 20 agosto potranno chiederne la revoca ai sensi dell'art. 299 c.p.p.     

 

4. Un'ulteriore modifica al codice di procedura penale (questa contenuta già nel testo originario del decreto legge) riguarda l'art. 284 c.p.p., in materia di arresti domiciliari: secondo quanto previsto dal nuovo co. 1 bis, il giudice dovrà operare una valutazione sull'idoneità del luogo di esecuzione della misura, in considerazione delle "prioritarie esigenze di tutela della persona offesa dal reato".

Come evidenziato nella Relazione di accompagnamento al disegno di legge di conversione (reperibile sul sito internet del Ministero della Giustizia), tale norma - del tutto eccentrica rispetto all'obiettivo di riduzione della popolazione carceraria, proprio del provvedimento in esame - è finalizzata a soddisfare le esigenza di tutela della persona offesa nei reati come i maltrattamenti o lo stalking, "laddove la vicinanza dell'autore delle condotte [alla vittima] potrebbe agevolarlo nella reiterazione delle stesse o nella perpetrazione di delitti più gravi". Sempre in tale Relazione si osserva che, per effetto del richiamo che l'art. 47 ter o.p. fa all'art. 284 c.p.p., anche il tribunale di sorveglianza sarà tenuto ad effettuare la valutazione sull'idoneità del domicilio, nel disporre le modalità di esecuzione della detenzione domiciliare.

 

5. Sempre al fine di ridurre il flusso di detenuti 'in ingresso' negli istituti penitenziari, è stata ulteriormente ampliata l'operatività della sospensione dell'ordine di esecuzione delle pene detentive di cui all'art. 656 co. 5 c.p.p., sino ad ora operante - come noto - per le pene detentive sino a 3 anni (o 6 nel caso di condannato tossicodipendente, ai fini dell'applicazione delle misure di cui agli artt. 90 e 94 d.P.R. 309/90). In relazione a ciò, il decreto legge - non investito da emendamenti, sul punto, in sede di conversione - ha modificato il co. 5 dell'art. 656 c.p.p., prevedendo la possibilità di sospendere le condanne fino a 4 anni "nei casi previsti dall'art. 47 ter co. 1", ossia nei confronti di: donna incinta; madre (o padre) di prole, convivente, di età inferiore ai dieci anni; persona in gravi condizioni di salute; ultrasessantenne se inabile anche parzialmente; minore di anni ventuno.

Tale modifica, del tutto apprezzabile, vale a colmare la sfasatura, prima esistente, tra il limite di 3 anni della pena sospendibile ex art. 656 co. 5 c.p.p. e il limite di 4 anni previsto dall'art. 47 ter co. 1 o.p. per l'accesso alla detenzione domiciliare: una sfasatura che comportava il necessario passaggio dal carcere per i condannati con pene tra i 3 e i 4 anni che volessero fare istanza per la detenzione domiciliare.

Ad oggi quindi, il meccanismo di cui all'art. 656 co. 5 c.p.p. opera (salvo le preclusioni di cui al co. 9, delle quali tra beve si dirà):

a) di regola, per le condanne a pene detentive fino a tre anni;

b) nei confronti dei soggetti di cui all'art. 47 ter o.p., per le condanne a pene detentive fino a quattro anni;

c) nei confronti dei tossicodipendenti, laddove si debba applicare l'art. 90 o 94 d.P.R. 309/90, per condanne a pene detentive fino a sei anni.

 

6. Un'ulteriore ampliamento dell'operatività del meccanismo sospensivo di cui all'art. 656 co. 5 c.p.p. deriva poi dalla possibile anticipazione, al momento dell'emissione dell'ordine di esecuzione, dell'applicazione della liberazione anticipata ex art. 54 o.p. (che prevede come noto uno sconto di pena di 45 giorni ogni sei mesi di pena scontata o di custodia cautelare). A questo proposito, con il nuovo co. 4 bis dell'art. 656 c.p.p. si prevede che il p.m. - qualora il condannato abbia trascorso dei periodi di custodia cautelare o abbia espiato periodi di pena 'fungibili' in relazione al titolo esecutivo da eseguire e qualora ritenga che, per effetto della liberazione anticipata, la pena da scontare rientri nei limiti di cui al co. 5 dell'art. 656 - sospenda le proprie determinazioni, trasmettendo senza ritardo gli atti al magistrato di sorveglianza competente, affinché decida in merito all'applicazione dell'art. 54 o.p. Solo a seguito dell'ordinanza del magistrato, il p.m. potrà emettere il provvedimento ex art. 656 c.p.p.: a) sospendendo l'ordine di esecuzione, qualora per effetto degli sconti di pena ex art. 54 co.p., la pena sia 'scesa' al di sotto dei livelli di cui al co. 5; b) emettendo l'ordine di esecuzione quando la pena residua da scontare sia superiore a tali livelli.

Come si è detto, la norma prescrive che la liberazione anticipata debba essere calcolata sui periodi di custodia cautelare già trascorsi o su periodi di pena 'fungibili': per sciogliere tale ultima espressione occorre fare riferimento all'art. 657 c.p.p., che considera appunto 'fungibili' le pene espiate nei casi di revoca della sentenza e nei casi di amnistia o di indulto.

Vale la pena forse precisare che il provvedimento in esame (sul punto non modificato in sede di conversione) non incide sulla disciplina della liberazione anticipata, che rimane invariata quanto a presupposti e ad effetti (già l'art. 54 o.p. prevedeva infatti la possibilità di computare, ai fini degli sconti di pena, anche eventuali periodi di custodia cautelare): la novità consiste solo nell'anticipazione del giudizio del magistrato di sorveglianza - da effettuare, come di norma, secondo la procedura di cui all'art. 69 bis o.p. - prima dell'emissione dell'ordine di esecuzione da parte del p.m., al fine di evitare inutili passaggi dal carcere a chi - per effetto appunto di una successiva pronuncia del magistrato di sorveglianza - potrebbe poi essere scarcerato in tempi brevi.

Secondo quanto previsto nel nuovo co. 4 bis, l'applicazione anticipata della liberazione anticipata (si scusi l'inevitabile gioco di parole) non potrà operare:

a) nei casi previsti dal comma 9 lett. b) dell'art. 656 c.p.p., ossia "nei confronti di coloro che, per il fatto oggetto della condanna da eseguire, si trovano in custodia cautelare in carcere";

b) nel caso di condannato per un delitto di cui all'art. 4 bis o.p.

Tale ultima previsione solleva un problema interpretativo: non è facile, infatti, capire perché l'esclusione debba riguardare solo gli autori dei reati di cui all'art. 4 bis o.p. e non invece gli autori degli altri delitti per i quali, ai sensi del co. 9, non può operare il meccanismo sospensivo di cui al co. 5 (ossia, come vedremo tra breve, i condannati per i reati di cui agli artt. 423 bis, 572, 612 bis e 624 bis c.p.). Tale procedura 'anticipata', in quanto finalizzata a consentire l'immediata sospensione dell'ordine di esecuzione, non ha alcuna ragione d'essere, laddove già in partenza il p.m. sappia di non potervi fare luogo: essa pertanto non dovrebbe trovare applicazione in nessuno dei casi di cui all'art. 656 co. 9, nei quali appunto la sospensione non opera. Da ciò la conclusione che l'espressa esclusione per i condannati di cui all'art. 4 bis o.p. contenuta nella norma in esame è da considerare del tutto ultronea.

 

7. Come si è detto, la procedura di cui al co. 4 bis dell'art. 656 c.p.p. non opera nei confronti dei soggetti che, nel momento in cui la sentenza diviene definitiva, si trovano in custodia cautelare per il fatto oggetto della condanna. In questo caso il p.m. dovrà procedere, come di regola, ad emettere l'ordine di esecuzione di cui al co. 1 dell'art. 656 c.p.p. Tuttavia, secondo quanto previsto dal nuovo co. 4 ter dell'art. 656 c.p.p. (anch'esso non modificato in sede di conversione) "se ricorrono i presupposti di cui al co. 4 bis" - ossia se, computando gli sconti applicabili ex art. 54 o.p., la pena rimane entro i limiti di cui al co. 5 - al p.m. è fatto carico di trasmettere senza ritardo gli atti al magistrato di sorveglianza, così da sollecitare una rapida applicazione degli sconti di pena e consentirne una più rapida uscita dal circuito carcerario.

 

8. Un'ulteriore modifica dell'art. 656 c.p.p. attiene al regime delle preclusioni di cui al co. 9. Sul punto, l'intervento più significativo è senz'altro la soppressione della lettera c), ossia del divieto di sospensione dell'ordine di esecuzione per i recidivi reiterati di cui all'art. 99, co. 4, c.p. Come si legge nella già citata Relazione di accompagnamento al decreto legge, tale disposizione si fonda sulla constatazione della scarsa significatività, in termini di difesa sociale, della presunzione assoluta di pericolosità a carico di questa categoria di condannati: si tratta di una novità da salutare con grande entusiasmo, essendo espressione - si spera - di un'inversione di tendenza del legislatore, da lungo tempo auspicata dalla dottrina e presumibilmente in grado di produrre anche effetti di qualche rilievo, visto il numero non indifferente dei condannati plurirecidivi detenuti nei nostri istituti.

Si osservi, poi, che l'applicabilità dell'istituto di cui all'art. 656 co. 5 c.p.p. al recidivo reiterato è destinata a togliere spazio all'istituto sospensivo di cui alla l. 199/2010 (c.d. l. svuota-carceri), che troverà applicazione ora (per il breve tempo di vita che ancora le resta, essendo misura 'a tempo' destinata ad operare sino al 31 dicembre 2013) nei soli casi, residuali, in cui la sospensione ex art. 656 co. 5 c.p.p. non abbia avuto esito positivo (ossia, casi in cui il termine per presentare istanza di misura alternativa sia 'scaduto' per negligenza o per un errore del condannato o del suo difensore o casi in cui l'istanza sia risultata inammissibile, perché ad esempio non è stata presentata nei termini la documentazione prescritta. Sul punto sia consentito rimandare a Della Bella, Il caso Sallusti: la discussa applicazione della legge 'svuota-carceri' al condannato che abbia già beneficiato della sospensione dell'ordine di esecuzione della pena detentiva, in questa Rivista).

 

9. Rimanendo sempre nell'ambito del co. 9 dell'art. 656 c.p.p., con riferimento questa volta alle preclusioni legate al tipo di reato, occorre osservare che il Governo, in sede di redazione del decreto legge, aveva optato per la loro eliminazione (fatta eccezione, come sempre, per i reati di cui all'art. 4 bis o.p.). In sede di conversione, invece, a fianco della soppressione di alcuni reati ostativi (art. 624-625 c.p.), ne sono stati aggiunti di nuovi, considerati oggi di maggior allarme sociale (e ciò a dimostrazione del fatto che l'art. 656 c.p.p. è uno dei luoghi dell'ordinamento più sensibili alle istanze di tipo securitario). Il risultato finale di tali articolate 'manovre' è che, ad oggi, la sospensione dell'ordine di esecuzione non opera per le condanne relative ai reati di cui all'art. 4 bis o.p., all'art. 423 bis c.p. (incendio boschivo), all'art. 624 bis c.p. (furto in abitazione) e - questi i nuovi reati inseriti nell'elenco - agli artt. 572 co. 2 e 612 bis co. 3 c.p. (ipotesi aggravate di maltrattamenti e di stalking).

 

10. Quanto alla legge di ordinamento penitenziario, un primo gruppo di disposizioni contenute nel provvedimento in esame mira all'eliminazione degli automatismi fondati su presunzioni assolute di pericolosità.

Con particolare riferimento al recidivo reiterato, è stato soppresso:

- il divieto di concessione della detenzione domiciliare tra i 3 e i 4 anni di pena (co. 1.1. art. 47 ter o.p.);

- il divieto di accesso alla detenzione domiciliare infra-biennale (co. 1 bis art. 47 ter o.p.).

Altre 'soppressioni' contenute nel decreto legge non sono state invece approvate in sede di conversione. In particolare, risultano 'ripristinati':

- gli artt. 30 quater o.p. e 50 bis (che prevedono più rigide condizioni di accesso ai permessi premio e alla semilibertà)

- l'art. 58 quater co. 7 bis (che sancisce il divieto di una seconda concessione delle misure alternative).

Sempre nell'ottica dell'eliminazione di automatismi legati a presunzioni di pericolosità, il decreto legge, nella sua originaria formulazione, aveva previsto l'abrogazione del co. 9 dell'art. 47 ter , che prevedeva la sospensione della detenzione domiciliare e poi la sua revoca in caso, rispettivamente, di denuncia e condanna per il reato di evasione (disposizione peraltro già dichiarata parzialmente incostituzionale dalla Corte costituzionale, nella sentenza 173/1997, nella parte in cui prevedeva l'automaticità della sospensione in caso di denuncia per il delitto di evasione). In sede di conversione, la disposizione è stata ripristinata, seppure con una importante modifica: secondo quanto ora previsto nel co. 9 dell'art. 47 ter o.p., solo la condanna per evasione (non più quindi la mera denuncia) può comportare la revoca della detenzione domiciliare. Inoltre, conformemente a quanto prescritto dalla Corte costituzionale nella sentenza citata, la revoca non opererà automaticamente, ma solo a seguito di un vaglio giudiziale circa la "non lieve entità" del fatto.

 

11. Altre modifiche della legge di ordinamento penitenziario sono funzionali a valorizzare il lavoro del detenuto, considerato - a ragione - un potente antidoto contro la recidiva.

In questo senso, innanzitutto, sono stati potenziati gli incentivi fiscali a vantaggio di coloro che assumono detenuti e internati, sia nella forma di più vantaggiosi sgravi contributivi, sia di nuovi crediti di imposta (tali previsioni, introdotte in sede di conversione, non hanno in realtà interessato l'.o.p., bensì le l. 381/1991 e 193/2000).

In secondo luogo, con l'introduzione di un nuovo co. 4 bis all'art. 21 o.p., si è prevista la possibilità di ammettere "di norma" i detenuti e gli internati a lavori di pubblica utilità, cioè a prestazioni lavorative fornite a titolo volontario e gratuito, disciplinate - in quanto compatibili - con le modalità previste nell'art. 54 del d.l. 2000/274 (relativo al lavoro di pubblica utilità, quale sanzione sostituiva nel sistema del giudice di pace). La norma si rivolge ad una platea particolarmente ampia di destinatari, potendo riguardare sia i detenuti (quindi sia i condannati, sia gli imputati), sia gli internati, con la sola esclusione - introdotta in sede di conversione del decreto - degli autori dei delitti di cui all'art. 416 bis c.p. e dei delitti commessi  avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare le attività delle associazioni in esso previste. 

La previsione ci pare apprezzabile, da un lato perché non è dubbio che tali attività lavorative, benché non retribuite, possano rappresentare un'utile occasione di formazione o, più in generale, di reinserimento sociale per la persona (si consideri, a questo proposito, che la stragrande maggioranza dei detenuti passa le giornate senza svolgere alcun tipo di attività, dal momento che la percentuale di detenuti impiegati in attività lavorative intra o extra-murarie è ad oggi estremamente modesta); dall'altro, perché, nella attuale fase di recessione, la soluzione prospettata rappresenta realisticamente l'unica praticabile. E' forse ottimistica, però, la previsione che tale assegnazione possa rappresentare 'la norma' all'interno degli istituti, se non altro in considerazione del fatto che mancano ad oggi le risorse necessarie - in termini di agenti di polizia penitenziaria - per 'muovere' un numero così consistente di detenuti. 

 

12.  Al fine di limitare l'ingresso in istituto penitenziario dei tossicodipendenti, che costituiscono una percentuale estremamente rilevante dell'attuale popolazione detenuta, il decreto legge ha poi ampliato l'ambito applicativo del lavoro di pubblica utilità, già previsto nell'art. 73 co. 5 bis d.P.R. 309/90 quale sanzione sostitutiva della pena detentiva per i tossicodipendenti condannati per il reato di 'spaccio' nella forma attenuata di cui all'art. 73 co. 5 (punito con la reclusione fino a 6 anni). Secondo quanto previsto nel nuovo co. 5 ter , il lavoro di pubblica utilità può essere concesso al condannato tossicodipendente o assuntore abituale di stupefacenti, anche per reati diversi da quelli previsti dall'art. 73  co. 5 (con l'eccezione dei delitti di cui all'art. 407 co. 2 lett. a c.p.p. e dei reati contro la persona), purché si tratti di reati commessi "in relazione" alla condizione di dipendenza o di assunzione abituale.

A seguito degli emendamenti operati in sede di conversione, l'area di operatività di questa nuova forma di lavoro di pubblica utilità risulta piuttosto esigua, posto che la sostituzione:

- può essere operata solo per pene fino ad un anno di detenzione (nel testo originario del decreto legge, non erano invece previsti limiti di pena);

- opera solo nell'ipotesi in cui il reato diverso da quello di cui all'art. 73 co. 5 sia stato "commesso per una sola volta".

Tale ultima espressione, a dire il vero non proprio cristallina, parrebbe significare che la sanzione sostitutiva può essere applicata anche più di una volta, purché il soggetto commetta reati diversi l'uno dall'altro, mentre non può essere applicata a chi commetta per due volte lo stesso reato: questa lettura - l'unica, ci sembra, compatibile con il dato testuale - lascia perplessi. Sarebbe stato forse più rispondente agli scopi preventivi che ispirano la disposizione ammettere il condannato tossicodipendente ad una sola sostituzione, a prescindere dal tipo di reato commesso. 

 

13. Le ultime disposizioni del decreto sono poi dedicate ai compiti attribuiti al "Commissario straordinario del Governo per le infrastrutture carcerarie", i cui poteri sono stati ulteriormente potenziati e prorogati fino al 31 dicembre 2014.

 

14. Conclusivamente, si può dire che il decreto legge, forse non risolutivo sotto il profilo dell'adeguamento agli obblighi imposti dalla sentenza Torreggiani, rappresenta però un primo apprezzabile sforzo nella giusta direzione. Ciò, innanzitutto, perché - per la prima volta - l'intervento ha riguardato anche la custodia cautelare in carcere: è questo uno snodo centrale per un ordinamento, come il  nostro, nel quale quasi la metà dei detenuti - come si è già osservato - è costituita da soggetti in attesa di giudizio.

In secondo luogo, perché si è avviato (e si spera non concluso) un processo di razionalizzazione del sistema esecutivo, attraverso l'eliminazione di alcuni degli automatismi applicativi basati su presunzioni assolute di pericolosità: presunzioni che, come la dottrina non si stanca di ripetere, sono spesso infondate e, in quanto tali,  in insanabile contrasto con gli art. 3 e 27 co. 3 Cost.