25 novembre 2013 |
Sovraffollamento carcerario: dalla Corte costituzionale una decisione di inammissibilità con un severo monito per il legislatore
Corte Cost., 22 novembre 2013, n. 279, Pres. Silvestri, Rel. Lattanzi
1. Gli antefatti dell'importante decisione qui pubblicata - sulla quale torneremo con uno o più contributi di approfondimento - sono universalmente noti. La Corte di Strasburgo, con la sentenza della II sezione in data 16 luglio 2009, Sulejmanovic v. Italia, ribadendo orientamenti già consolidati, aveva affermato che i trattamenti disumani o degradanti sono vietati in assoluto, a prescindere dalla qualità del fatto da cui origina la detenzione, e che il sovraffollamento dell'ambiente di vita del detenuto può determinare sofferenze inaccettabili. Si era ripetuto, inoltre, che la fissazione degli spazi minimi da porre a disposizione delle persone ristrette in carcere non può essere operata in termini solo assoluti (anche se il Comitato per la prevenzione della tortura aveva indicato un'area individuale di circa 7 mq.). È noto che la qualità di vita dipende anche dalla quantità di luce ed aria, dal numero delle ore trascorse in ambienti comuni, ecc. Tuttavia - aveva stabilito la Corte - non si vedono in linea di principio fattori compensativi utili a rendere tollerabile una detenzione in spazi inferiori o pari a 3 mq. per persona.
È poi sopravvenuta la celeberrima sentenza Torreggiani v. Italia (II sezione, 8 gennaio 2013, definitiva dal 27 maggio successivo, avendo la Grande Camera rigettato la richiesta di nuovo esame avanzata dal Governo italiano): una sua traduzione italiana è reperibile, ad esempio, nel sito istituzionale del Ministero della giustizia. La sentenza è stata diffusamente commentata (per la nostra Rivista si veda ad esempio una prima lettura di F. Viganò, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all'adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno). È noto, in particolare, il suo contenuto essenziale: decidendo sul ricorso di sette dei molti ricorrenti attivatisi dopo la sentenza Sulejmanovic, la Corte ha accertato la violazione dell'art. 3 della Convenzione edu e, riconosciuto il carattere sistemico di detta violazione secondo lo schema formale della sentenza pilota, ha ingiunto allo Stato italiano di introdurre, entro il termine di un anno (decorrente, come detto, dal 27 maggio scorso) «un ricorso o un insieme di ricorsi interni idonei ad offrire un ristoro adeguato e sufficiente per i casi di sovraffollamento carcerario, in conformità ai principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte».
La decisione è segnata, in particolare, da un giudizio di ineffettività della procedura giurisdizionale di cui agli artt. 14-ter e 69 dell'ordinamento penitenziario, sebbene il Governo italiano l'avesse appunto indicata come rimedio interno di garanzia del diritto a non subire trattamenti disumani, e sebbene, sul piano generale, la Corte costituzionale italiana avesse stabilito definitivamente il carattere cogente, per l'Amministrazione penitenziaria, delle decisioni assunte dal magistrato di sorveglianza (sent. n. 266 del 2009, confermata sul punto dalla più recente sent. n. 135 del 2013, in questa Rivista con una nota di A. Della Bella, La Corte costituzionale stabilisce che l'Amministrazione penitenziaria è obbligata ad eseguire i provvedimenti assunti dal Magistrato di sorveglianza a tutela dei diritti dei detenuti).
2. Il termine a disposizione del legislatore italiano per adeguarsi alle prescrizioni della Corte edu è ancora relativamente lungo, tutt'altra questione essendo quella della concreta possibilità che vengano introdotte procedure e soluzioni davvero capaci di garantire ai detenuti italiani, nel loro complesso, condizioni di vita carcerarie degne di un Paese civile. Nelle more, due Tribunali di sorveglianza, dapprima quello di Venezia (ord. 13 febbraio 2013, in questa Rivista, con nota di F. Viganò, Alla ricerca di un rimedio giurisdizionale preventivo contro il sovraffollamento delle carceri: una questione di legittimità costituzionale della vigente disciplina in materia di rinvio dell'esecuzione della pena detentiva) e poi quello di Milano (ord. 12 marzo 2013, in questa Rivista, con nota di A. Della Bella, Sollevata ancora questione di illegittimità costituzionale dell'art. 147 c.p.: il Tribunale di sorveglianza di Milano segue la strada imboccata dal Tribunale di Venezia per rispondere al problema del sovraffollamento carcerario), hanno sperimentato la strada di una sollecitazione diretta alla Consulta, sul presupposto della necessità costituzionale del rimedio, al fine di ottenere una pronuncia additiva che lo introducesse nel nostro ordinamento.
L'attenzione dei rimettenti si è appuntata sulla disciplina del differimento della pena, cioè su quelle cause di rinvio o sospensione dell'esecuzione che sono regolate dagli artt. 146 e 147 c.p. L'opzione non era parsa arbitraria, perché la ratio comune ed essenziale della disciplina si fonda su ragioni di salute o di necessità familiare che corrispondono ad un bene della vita assimilabile a quello pregiudicato dall'applicazione di trattamenti disumani o degradanti (ben altra questione appariva, fin dall'inizio, è il carattere «obbligato» della «rima» che la Corte costituzionale avrebbe dovuto trovare per un'addizione tanto impegnativa). I Tribunali avevano censurato, in particolare, la norma che disciplina i casi di rinvio facoltativo, l'art. 147 c.p., nella parte in cui non prevede - al fianco dei casi di presentazione di una domanda di grazia, di pena da eseguirsi contro chi si trova in condizioni di grave infermità fisica o di donna con prole di età inferiore a tre anni - «l'ipotesi di rinvio facoltativo dell'esecuzione della pena quando essa debba svolgersi in condizioni contrarie al senso di umanità». Parametri costituzionali evocati, gli artt. 2, 3, 27, terzo comma, e 117, primo comma, Cost., quest'ultimo in relazione all'articolo 3 della Convenzione edu (come interpretato, ovviamente, dalla Corte di Strasburgo).
Nella logica dei rimettenti, in difformità da un orientamento presente nella giurisprudenza di merito ed in dottrina, la conformazione al diritto convenzionale non potrebbe passare solo da rimedi «interni» al circuito carcerario, ma dovrebbe necessariamente attuarsi mediante la liberazione (o non incarcerazione) di una quota consistente di detenuti. Si ammetteva che, sul punto, la sentenza Torreggiani ha lasciato margini di apprezzamento. Ma sarebbe la logica della stessa sentenza, in effetti, a sostenere il ragionamento. Il ricorso individuale al magistrato di sorveglianza affinché siano migliorate le condizioni di detenzione, in una situazione strutturale di sovraffollamento, può comportare al più il trasferimento del problema da un detenuto all'altro, posto che lo spazio ricavato per l'uno è spazio tolto a qualcun altro, e si generano paradossi come la rottura del principio di prossimità territoriale del luogo di esecuzione (si ricorderà il caso del «detenuto bibliotecario», molto bene adattato al carcere in cui era ristretto e positivamente impegnato nel lavoro affidatogli, e però trasferito altrove, in esecuzione di un provvedimento giudiziale che imponeva di assegnargli una cella più spaziosa).
Il rinvio facoltativo delle pene avrebbe, nella logica praticata dai rimettenti, molti vantaggi: allargherebbe i casi di detenzione domiciliare, sarebbe sensibile ad eventuali diminuzioni della pressione intramuraria, comporterebbe un intervento giudiziale a carattere discrezionale, capace sui grandi numeri di selezionare per il carcere solo i condannati più pericolosi. E nel vivo dibattito sull'argomento, all'obiezione per la quale la soluzione sottintenderebbe la legittimità di trattamenti disumani per i detenuti pericolosi, si è replicato che il beneficio accordato all'uno è beneficio anche per l'altro, perché - immaginata la concorrenza di due detenuti per una cella singola - il differimento per l'uno comporta per l'altro la disponibilità di uno spazio a pieno ed esclusivo titolo.
3. La risposta della Corte costituzionale, così come anticipato in un comunicato stampa del 10 ottobre 2013, è consistita in una decisione di inammissibilità. Ma va subito chiarito che la Consulta non ha negato il fondamento del «bisogno di tutela» espresso dalle ordinanze di rimessione. Non ha negato, anzitutto, che nelle carceri italiane si viva una situazione insopportabile, denunciata del resto dal Presidente della Repubblica, oltre che dalla Corte edu. Non ha negato neppure l'esigenza di un rimedio individuale, preventivo oltre che compensativo, utile ad impedire la violazione dei diritti dei singoli, anche se non ha mancato di esprimere perplessità sulla soluzione «proposta» dai rimettenti (che introdurrebbe un forte elemento di casualità, e quindi di disuguaglianza, nelle vicende esecutive).
I rimedi individuali possono essere già in parte attuati secondo le norme interne al sistema penitenziario, attraverso una opportuna politica di collocazioni e trasferimenti, assistita, nei suoi riflessi individuali, dalla tutela giudiziale dei relativi diritti, della quale - per inciso - la Corte ha ribadito la piena esecutività (richiamando le già citate sentenze n. 266 del 2009 e n. 135 del 2013), e per la quale si è sollecitato un ulteriore rafforzamento ad opera del legislatore (specie con riguardo a procedure esecutive in caso di inottemperanza dei provvedimenti assunti dalla magistratura di sorveglianza).
Naturalmente, la Corte non si è nascosta che il carattere strutturale del problema preclude una soluzione a livello meramente individuale e «interno» al sistema penitenziario, e che dunque - in tempi più stretti di quelli connessi alle pur necessarie politiche di deflazione penale e di riduzione dei casi di custodia cautelare - è necessaria la previsione di strumenti che permettano «una fuoriuscita del detenuto dal circuito carcerario, eventualmente correlata all'applicazione nei suoi confronti di misure sanzionatorie e di controllo non carcerarie».
Tuttavia - si «arrende» la Corte - la pluralità delle soluzioni normative che potrebbero essere adottate esclude l'asserito carattere "a rime obbligate" dell'intervento additivo proposto riguardo all'art. 147 cod. pen. Sovviene per primo l'esempio di forme alternative di esecuzione della pena, ben conosciute dal nostro ordinamento, i cui presupposti di applicazione potrebbero essere ampliati in guisa da consentire un'adeguata riduzione dei casi di carcerazione. La stessa introduzione del «metodo» proposto dai rimettenti richiederebbe una precisazione, di palese competenza legislativa, dei criteri di «selezione» tra condannati da detenere immediatamente e condannati per i quali il differimento non avrebbe costi sociali eccessivi.
Insomma, un tipico non possumus a fronte della primazia delle istituzioni rappresentative nelle scelte di politica criminale. Una discrezionalità che per altro si ferma di fronte ai diritti inviolabili, garantiti dalla Costituzione, dei quali si riscontra una lesione in atto. Ed ecco allora un altrettanto tipico monito, che può ricordare ad esempio, per qualche verso almeno, l'allarme lanciato con la sent. n. 129 del 2008 riguardo alla previsione di uno strumento processuale utile a rimuovere il giudicato per dare esecuzione alle sentenze della Corte di Strasburgo: allarme rimasto senza esito, al punto che la stessa Consulta, sia pur valorizzando la reimpostazione del tema da parte del rimettente, avrebbe poi superato ogni esitazione, introducendo con sentenza additiva, delle cui "rime obbligate" molto si è discusso, un diverso caso di revisione nell'ambito dell'art. 630 cod. proc. pen. (sent. n. 113 del 2011, in questa Rivista, ove si rinviene anche un commento di S. Lonati, La Corte costituzionale individua lo strumento per dare attuazione alle sentenze della Corte europea: un nuovo caso di revisione per vizi processuali).
Con sintesi estrema, e mediante citazione del passaggio di una recente ed analoga presa di posizione, la Corte chiude lapidariamente la propria sentenza: «nel dichiarare l'inammissibilità, "questa Corte deve tuttavia affermare come non sarebbe tollerabile l'eccessivo protrarsi dell'inerzia legislativa in ordine al grave problema individuato nella presente pronuncia (sentenza n. 23 del 2013)"».
Il discorso insomma non è chiuso, né potrebbe esserlo, alla luce della decisione e della severità con la quale, a Strasburgo, si è ritenuto di reagire ai troppi anni di indifferenza, o di attendismo, riguardo alla garanzia dei diritti umani in carcere.