29 marzo 2017 |
Ancora sul sovraffollamento carcerario: nel calcolo della superficie della cella è compreso lo spazio del letto? La Cassazione interpreta la giurisprudenza di Strasburgo in modo particolarmente favorevole ai detenuti
Nota a Cass., Sez. I, sent. 9 settembre 2016 (dep. 13 dicembre 2016), n. 52819, Pres. M. Vecchio, Est. R. Magi
Contributo pubblicato nel Fascicolo 3/2017
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1. Torna alla ribalta il problema del sovraffollamento carcerario, con particolare riferimento alle modalità di calcolo della superficie della cella. La Cassazione, nella pronuncia in commento, afferma che per verificare il rispetto dei parametri fissati dalla Corte EDU (ed accertare se la carcerazione in uno spazio troppo ristretto integri o meno un trattamento inumano e degradante), si deve tenere conto dell’area in cui il detenuto ha libertà di muoversi. Dalla superficie complessiva della cella vanno quindi sottratti gli spazi occupati non solo dai servizi igienici, ma anche dal letto e da tutti gli altri arredi tendenzialmente fissi, che costituiscono un ingombro e limitano la possibilità di movimento (restano invece esclusi gli arredi facilmente amovibili). La vicenda è di un certo interesse poiché la Corte di legittimità, in assenza di un’esplicita disposizione di legge, si è trovata di fronte a diversi orientamenti della giurisprudenza nazionale e sovranazionale, ed ha scelto l’interpretazione più favorevole ai detenuti, assicurando loro una tutela più ampia rispetto ai limiti fissati dalla Convenzione e (forse) dalla stessa Corte di Strasburgo.
2. Questi, in estrema sintesi, i fatti all’origine della vicenda. Un detenuto presso la casa circondariale di Spoleto aveva proposto un reclamo per ottenere tutela inibitoria e risarcitoria ai sensi degli artt. 35 bis e 35 ter ord. pen. (l. 26 luglio 1975, n. 354), lamentando di essere stato costretto ad occupare una cella troppo ristretta; il ricorrente denunciava infatti di aver subito un trattamento contrario al divieto di cui all’art. 3 CEDU, norma dal carattere assoluto ed inderogabile, la cui violazione è stata spesso riscontrata con riferimento alla detenzione in spazi non adeguati alle esigenze della vita quotidiana.
Riguardo allo spazio minimo da assicurare ad ogni detenuto, la giurisprudenza di Strasburgo si è notevolmente evoluta nel corso degli anni. Vale la pena ricordare le tappe più significative di questo percorso. In un primo periodo, lo spazio delle celle veniva sempre preso in considerazione unitamente ad altri fattori, quali le precarie condizioni igieniche ed il rischio della diffusione di malattie. Con alcune più recenti sentenze, tra cui la celebre pronuncia Sulejmanovic c. Italia, la Corte europea ha impresso una svolta al proprio orientamento: se lo spazio a disposizione di ciascun detenuto è inferiore ai 3 mq, vi è una presunzione assoluta di trattamento inumano e degradante che nessun altro fattore può controbilanciare; se, invece, la superficie è compresa tra 3 e 4 mq, la presunzione è relativa, e devono essere tenuti in considerazione anche altre condizioni di detenzione[1]. Negli stessi termini si è espressa la Corte nell’importante sentenza-pilota Torreggiani e altri c. Italia[2], che ha rilevato problematiche strutturali nell’organizzazione delle carceri italiane, ingiungendo alle autorità competenti di dotarsi di un rimedio idoneo ad offrire una forma di ristoro a coloro che ne rimangono vittime. L’anno scorso, tuttavia, quello che sembrava un orientamento ormai consolidato è stato disatteso dalla Grande Camera, che nella sentenza Muršić c. Croazia ha ridisegnato il metodo per stabilire la rilevanza del sovraffollamento. Ogni cella deve possedere tre requisiti minimi: una superficie di almeno 3 mq per detenuto, la disponibilità di uno spazio individuale per dormire e la possibilità di muoversi liberamente all’interno. Se una o più tra queste condizioni non sono soddisfatte, sorge sì una forte presunzione di violazione dell’art. 3 CEDU, che tuttavia non è assoluta: infatti, può essere vinta se altri fattori (quali la breve durata della detenzione, la possibilità di svolgere delle attività all’esterno della cella, le adeguate condizioni di detenzione della struttura carceraria, quindi l’illuminazione, l’areazione, lo stato dei servizi igienici, etc.) bilanciano la gravità della condizione[3]. Al contrario, se lo spazio a disposizione è compreso tra 3 e 4 mq, perché sia riscontrata una violazione dell’art. 3 CEDU devono accompagnarsi a tale dato altre inadeguate condizioni detentive. Infine, se lo spazio è superiore a 4 mq, l’eventuale violazione dei diritti del detenuto sarà determinata solo da altri fattori, senza prendere in considerazione il sovraffollamento[4].
3. A fronte di un quadro tanto complesso[5], è evidente che la modalità di calcolo della superficie a disposizione gioca un ruolo centrale: includere o escludere lo spazio occupato dai servizi igienici, dagli armadi e dal letto può determinare un diverso tipo di presunzione; può fondare o escludere la violazione dell’art. 3 CEDU. Evidenti sono poi le conseguenze in punto di risarcimenti che possono essere chiesti all’autorità statale[6], nonché le ricadute pratiche sul problema dell’edilizia carceraria.
Vediamo quindi come nella sentenza in commento è stato affrontato questo problema. Il Tribunale di sorveglianza di Perugia notava che il reclamante aveva avuto a disposizione, in due periodi diversi, 4,64 e 3,75 mq. Il giudice di secondo grado precisava che dal computo della superficie utile era stato escluso lo spazio dedicato al bagno e ai mobili che costituivano un ingombro nella cella. Al contrario, non era stata sottratta l’area del letto, considerato non idoneo a limitare lo spazio vitale, e ritenuto un’utile “superficie di appoggio”, funzionale allo svolgimento delle attività prevalentemente sedentarie che impegnano i detenuti in cella.
La Cassazione, tuttavia, non condivide tale modalità di calcolo, né la motivazione che la correda. In primo luogo, i giudici di legittimità richiamano le indicazioni contenute nella sentenza Torreggiani, in cui la Corte EDU non ha indicato esplicitamente un criterio per calcolare l’area della cella, ma, nel riscontrare che lo spazio lordo per ogni occupante era esattamente di 3 mq, ha soggiunto che esso era “ulteriormente ridotto dalla presenza di mobilio nelle celle”[7]. Secondo la Cassazione, i giudici europei non hanno calcolato la metratura netta solo perché sarebbe stato inutile, in quanto la superficie lorda già coincideva con la soglia minima indicata dalla giurisprudenza convenzionale; tuttavia, hanno inteso riferirsi allo spazio al netto del mobilio. Pertanto – proseguono i giudici di legittimità –, la superficie a cui si applicano i parametri minimi individuati dalla Corte EDU deve essere intesa come “spazio utile al fine di garantire il ‘movimento’ del soggetto recluso nello spazio detentivo, il che esclude di poter inglobare nel computo gli arredi fissi, in ragione dell’ingombro che ne deriva”[8].
Ecco allora il punto veramente innovativo della pronuncia: i giudici italiani ritengono che il letto non possa essere considerato come una superficie utile allo svolgimento delle attività sedentarie del detenuto (come il riposo o il semplice appoggiare alcuni oggetti), ma che costituisca, al contrario, una limitazione della possibilità di muoversi. A conforto di tale posizione, la Cassazione cita il passaggio della sentenza Muršić c. Croazia in cui si afferma che “l’importante è determinare se i detenuti hanno la possibilità di muoversi normalmente all’interno della cella”[9]. Pertanto, devono essere inclusi nel calcolo dello spazio effettivo solo gli arredi facilmente amovibili, ma non armadi e letti.
La conclusione della Cassazione è quindi nel senso del annullamento con rinvio al Tribunale di Sorveglianza competente in quanto la valutazione sulla sussistenza di un trattamento inumano e degradante a causa del sovraffollamento è stata fondata su un criterio di calcolo della metratura erroneo.
4. La sentenza in commento presenta la giurisprudenza della Corte EDU come se fosse piuttosto univoca riguardo alla determinazione dei criteri di calcolo dello spazio per i detenuti; la questione, tuttavia, è assai più incerta[10].
In alcune sentenze, il calcolo dello spazio pro capite non tiene affatto conto dei mobili[11]; in altri casi la Corte europea afferma genericamente di prendere in considerazione la restrizione dello spazio effettivo a causa degli arredi[12], o affianca il calcolo delle superfici lorda e netta senza indicare quale dato debba essere tenuto in considerazione[13]. In un altro gruppo di pronunce si stabilisce che lo spazio degli arredi va sottratto dal calcolo dell’area a disposizione del detenuto[14]; resta poi isolata una pronuncia che ha escluso solo lo spazio dei letti, ma non quello degli altri mobili[15].
Infine, come accennato, in alcuni casi[16] sono stati indicati quali requisiti minimi della cella sia la superficie di 3 mq, sia uno spazio sufficiente per consentire al detenuto di muoversi liberamente tra gli elementi di arredo: una formula poco felice, a causa della sua ambiguità. Curiosamente, proprio la pronuncia della Grande Camera nel caso Muršić ha da un lato riaffermato tale principio, ma dall’altro ha testualmente precisato che “il calcolo della superficie disponibile nella cella deve comprendere lo spazio occupato dai mobili”. Queste due affermazioni appaiono contraddittorie, quantomeno se ci si riferisce agli armadi, che, più ancora del tavolo e del letto, non possono essere usati come superficie di appoggio per lo svolgimento di attività e – di fatto – sono un ostacolo a muoversi liberamente[17].
5. Le fonti nazionali non offrono maggiore chiarezza, a cominciare da una vera e propria lacuna legislativa sul punto[18]. Nessun parametro per calcolare la superficie delle celle è rinvenibile nella legge sull’ordinamento penitenziario (l. 354/1975)[19] ed ugualmente muti sono gli articoli 6-8 del regolamento di attuazione (d.P.R. 30 giugno 2000, n. 230)[20]. Un’indicazione circa la metratura per tutte le abitazioni civili – cui si riferisce l’amministrazione penitenziaria per il calcolo della capienza regolamentare delle carceri[21] – è contenuta nell’art. 2, comma 2 d.m. del Ministero dalla Sanità del 5 luglio 1975, n. 399000, in cui si afferma che “le stanze da letto debbono avere una superficie minima di mq. 9, se per una persona, e di mq. 14, se per due persone”, aggiungendo 5 mq in più per ogni ulteriore detenuto[22]. Balza all’occhio come tale standard sia superiore alla soglia minima fissata dalla Corte EDU; eppure, questo criterio è stato spesso disatteso nella pratica[23], come testimoniano le numerose condanne subite dall’Italia in tema di sovraffollamento carcerario.
Su questo sfondo normativamente “muto”, la giurisprudenza italiana si è mossa con andamento incerto. In sede di merito, alcune pronunce della magistratura di sorveglianza fanno riferimento alla superficie lorda (tale filone sembrava in via di superamento dopo la pronuncia Torreggiani ma è stato recentemente riproposto)[24]; altre, pur senza calcolare la superficie netta, affermano di tener conto dell’ingombro degli arredi[25]. In alcuni casi viene scomputato lo spazio occupato solo da alcuni mobili, includendo però l’area del letto perché è uno spazio utilizzato per il riposo[26]; in altre pronunce il calcolo dell’area è operato al netto dell’ingombro di tutti gli arredi, compreso il letto, richiamando il concetto di area “calpestabile”[27].
Per quanto riguarda le pronunce di legittimità, alcune non detraggono lo spazio occupato dal mobilio[28]. Altre sentenze, al contrario, richiamando soprattutto la pronuncia Torreggiani c. Italia, lo sottraggono[29]. Infine, la Cassazione talvolta afferma (pur in forma di obiter dicta) che anche lo spazio occupato dal letto non può rientrare nella superficie netta, come ha stabilito anche la sentenza in commento[30]. In tre ulteriori recenti decisioni viene poi utilizzata fugacemente l’espressione “superficie calpestabile”[31].
6. Dalla ricostruzione della giurisprudenza qui proposta è evidente che la pronuncia qui annotata ha aderito al filone che tutela in modo più spiccato i diritti dei detenuti, poiché dal calcolo della superficie netta a disposizione dei detenuti vengono esclusi gli spazi occupati sia dagli armadi, sia dal letto. È particolarmente interessante il fatto che la Cassazione, a sostegno di tale soluzione, citi due pronunce della Corte EDU che sono, in realtà, quantomeno ambigue: come abbiamo visto, la sentenza Torreggiani semplicemente prende in considerazione la riduzione dello spazio senza adottare un criterio di calcolo univoco, mentre la sentenza Muršić addirittura afferma la necessità di includere nello spazio a disposizione “i mobili” (espressione che, letteralmente, sembra comprendere anche i letti), anche se immediatamente dopo ribadisce il requisito della libertà di movimento. La Cassazione ben avrebbe potuto fermarsi alla formulazione letterale più chiara, e calcolare la superficie al lordo degli arredi; invece ha adottato una soluzione favorevole al detenuto, cercando la migliore interpretazione possibile delle parole della Corte EDU.
A parere di chi scrive, il giudice di legittimità italiano non ha semplicemente fatto riferimento al testo della Convenzione come interpretato dalla Corte di Strasburgo, ma ha utilizzato le formule ambigue presenti in alcune sentenze europee per estendere ulteriormente la tutela dei detenuti. Si potrebbe dire che ha interpretato lo spirito e la lettera della Convenzione superando la valutazione che aveva fatto la stessa Corte europea. È opportuno sottolineare l’assoluta legittimità di una tale decisione: nulla vieta agli ordinamenti nazionali di assicurare un livello di tutela ulteriore rispetto a quello indicato dalla Corte EDU e, d’altro canto, l’operazione ermeneutica della Cassazione non entra in contrasto con alcuna norma di diritto positivo di matrice nazionale, poiché il legislatore è rimasto silente sul punto.
Peraltro, non sono mancate alcune critiche della dottrina all’idea dello scomputo dello spazio dei letti. C’è chi ha evidenziato l’opportunità di distinguere tra le superfici degli armadi (che possono essere usate solo per contenere effetti personali) e quelle di tavoli e letti (che, al contrario, sono funzionali al riposo e allo svolgimento di altre attività quotidiane). Un’altra soluzione proposta (prima della pronuncia della Grande Camera nel caso Muršić) consiste nello scomputare dallo spazio a disposizione solo i letti dei compagni di cella, ma non quello del ricorrente, poiché è funzionale al suo riposo[32]. Sono state sollevate anche perplessità di ordine pratico: un simile criterio comporterebbe per l’Amministrazione penitenziaria l’onere di misurare i singoli arredi di ogni cella, e potrebbe persino incentivare la pratica “elusiva” di spostare nei corridoi elementi di arredo oggi a disposizione nelle celle[33]. Personalmente, la soluzione proposta dalla pronuncia in commento ci sembra meno pilatesca e più equa, più vicina alla sensibilità comune di chi entri in una stanza troppo piccola e, a causa dell’ingombro dei letti e degli armadi, dica di avere difficoltà a muoversi.
Un ultimo cenno ad un problema diverso, ma collegato. Come abbiamo richiamato, la sentenza Muršić, considera, quale fattore per vincere la forte presunzione di trattamento inumano e degradante in caso di spazio inferiore ai 3 mq, anche la possibilità per il detenuto di trascorrere alcune ore fuori dalla cella. Si tratta, in altre parole, del modello di “sorveglianza dinamica” in cui la cella viene usata principalmente per il riposo, mentre molte attività sono svolte dai detenuti in altri spazi comuni[34]. Sorge allora il dubbio se in questi casi anche il criterio di calcolo dello spazio possa essere adeguato in una forma meno favorevole. La pronuncia della Cassazione in commento si schiera contro questa ipotesi, sottolineando che le problematiche sono diverse. A nostro parere, se già il tempo passato fuori dalla cella può mitigare la gravità della riduzione dello spazio, sarebbe eccessivo utilizzare due modalità di calcolo diverse. Si rischierebbe infatti di aumentare in modo significativo (e forse ingiustificato) il divario tra i detenuti sottoposti ai vari regimi di sorveglianza[35].
In conclusione, non possiamo che auspicare un intervento del legislatore che (oltre a rendere vincolanti le indicazioni sulle dimensioni minime delle celle) individui con chiarezza il parametro per il calcolo dello spazio a disposizione dei detenuti. Ciò sarebbe utile, in primo luogo, ad una mappatura precisa della situazione attuale di (sovr)affollamento delle nostre carceri e ad orientare la prassi futura.
Tuttavia, il vero auspicio – quanto utopistico? – è che il legislatore intervenga in modo illuminato, lasciandosi ispirare non solo dalla giurisprudenza della Corte EDU che, come abbiamo visto, appare ancora incerta, ma anche dalle interpretazioni evolutive proposte dalla giurisprudenza nazionale. Sarebbe davvero un passo avanti: una prosecuzione del percorso compiuto per affrontare la situazione stigmatizzata dalla sentenza Torreggiani, e un esempio dei frutti che può portare la giurisprudenza quando si impegna a prendere in considerazione i principi espressi dalle corti sovranazionali, valutando l’opportunità di espandere ulteriormente la tutela dei soggetti deboli, come i detenuti.
[1] Cfr. Corte EDU, Sez. II, sent. 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia, § 40-41, in cui si fa riferimento ad altri casi in cui i giudici di Strasburgo avevano ritenuto lo spazio inferiore ai 3 mq un dato così grave ed eloquente da non considerare altri fattori. Può essere utile ricordare che la soglia individuata dalla Corte europea è tuttora inferiore tanto al minimum standard (4 mq per detenuto nelle celle con più persone), quanto al desirable standard (in cui allo spazio fisso di 6 mq si aggiungono 4 mq per ogni detenuto ulteriore) individuati dal CPT, il Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti, un organo in seno al Consiglio d’Europa. Cfr. sul punto il 25° Rapporto Generale sulle attività del CPT, § 83 ss.
[2] Corte EDU, Sez. II, sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, § 67, su cui, ex multis, cfr. F. Viganò, Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all’adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno, in questa Rivista, 9 gennaio 2013.
[3] Corte EDU, Grande Camera, sent. 20 ottobre 2016, Muršić c. Croazia, § 119 ss.; in part. § 122 ss. Per l’indicazione dei fattori che possono vincere la presunzione anzidetta, cfr. ibidem, § 129 ss. Per un commento alla sentenza, cfr. F. Cancellaro, Carcerazione in meno di 3 metri quadri: la Grande Camera sui criteri di accertamento della violazione dell’art. 3 CEDU, in questa Rivista, 13 novembre 2016, nonché A. Menghini, Spazio detentivo minimo e violazione dell’art. 3 CEDU: per una lettura conforme ai canoni di dignità e umanità della pena, in Dir. pen. proc., 2017, n. 1, p. 122 ss. La sentenza fa riferimento alla precedente pronuncia Corte EDU, Sez. I, sent. 10 gennaio 2012, Ananyev e altri c. Russia, dove era stato utilizzato questo test per la verifica della violazione dell’art. 3 con riguardo al sovraffollamento carcerario.
[4] Corte EDU, Grande Camera, sent. 20 ottobre 2016, Muršić c. Croazia, § 139-140.
[5] Proprio la pronuncia Muršić ha dato origine a grandi incertezze circa i presupposti per la violazione dell’art. 3 CEDU. I diversi orientamenti sono stati efficacemente riassunti dal giudice Scilianos nella sua Dissenting Opinion in calce alla sentenza della Prima Sezione della Corte nel caso Muršić (Corte EDU, Sez. I, sent. 12 marzo 2015, Muršić c. Croazia). Sul punto cfr. anche F. Fiorentin, Il vaso di Pandora scoperchiato: la violazione dell’art. 3 CEDU per (mal)trattamenti detentivi tra accertamento “multifattoriale” e giurisprudenza europea. Appunti a margine della sentenza Corte EDU, 12 marzo 2015, Muršić c. Croazia, in Archivio penale, 2015, n. 3. Anche A. Menghini, Spazio detentivo minimo e violazione dell’art. 3 CEDU, cit., p. 122 ss. evidenzia che un approccio “multifattoriale” potenzia la discrezionalità di apprezzamento di diversi elementi (tra cui il tempo del trattamento) da parte dei giudici europei e nazionali, rendendo gli esiti dei ricorsi assai più incerti.
[6] Attraverso lo strumento di cui all’art. 35 ter o.p. (l. 354/1975), introdotto proprio a seguito della pronuncia Torreggiani, cui si è fatto cenno poco sopra.
[7] Corte EDU, Sez. II, sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e altri c. Italia, § 75.
[8] Cass. pen., Sez. I, sent. n. 52819, 13 dicembre 2016, ud. 9 settembre 2016, p. 6.
[9] Corte EDU, Grande Camera, sent. 20 ottobre 2016, Muršić c. Croazia, § 114. La traduzione italiana qui citata, non ufficiale, è quella riportata nella pronuncia della Cassazione in commento.
[10] Non solo: poiché gli standard individuati dal CPT hanno solo un valore consultivo, manca anche uno strumento in seno al Consiglio d’Europa che consenta di uniformare i parametri adottati dai vari Stati per valutare la capacità carceraria. La conseguenza è una difficoltà a confrontare tra loro le statistiche dei Paesi membri. Lo evidenziano R. Piscitello, A. Albano, F. Picozzi, Avvertenze per la lettura delle statistiche europee sul sovraffollamento delle carceri, in Cass. pen., 2015, fasc. 6, p. 2144 ss.
[11] Corte EDU, Sez. II, sent. 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia, § 43-45; Corte EDU, Sez. II, sent. 22 aprile 2014, G.C. c. Italia, § 81-82; a titolo di esempio, tra le pronunce che non riguardano l’Italia, cfr. Corte EDU, Sez. IV, sent. 22 ottobre 2009, Norbert Sikorski c. Polonia, § 134, 135; Corte EDU, Sez. III, sent. 8 luglio 2014, Dulbastru c. Romania, § 34.
[12] Corte EDU, Sez. III, sent. 7 aprile 2009, Branduse c. Romania, § 49; Corte EDU, Sez. III, sent. 2 febbraio 2010, Mariana Marinescu c. Romania, § 66; Corte EDU, Sez. I, sent. 27 gennaio 2011, Yevgeniy Alekseyenko c. Russia, § 87; Corte EDU, Sez. III, sent. 19 febbraio 2013, Ciolan c. Romania, § 44; Corte EDU, Sez. II, sent. 10 marzo 2015, Varga e altri c. Ungheria, § 87.
[13] Corte EDU, Sez. III, sent. 4 maggio 2005, Kadikis c. Lettonia (n. 2), § 52.
[14] Corte EDU, Sez. I, sent. 8 aprile 2010, Lutokhin c. Russia, § 57; Corte EDU, Sez. I, sent. 16 dicembre 2010, Trepashkin c. Russia (n. 2), § 113; Corte EDU, Sez. I, sent. 21 dicembre 2010, Gladkiy c. Russia, § 68; Corte EDU, Sez. I, sent. 20 gennaio 2011, Petrenko c. Russia, § 39; Corte EDU, Sez. III, sent. 26 novembre 2013, Cojoaca c. Romania, § 33;
[15] Corte EDU, Sez. III, sent. 1o aprile 2014, Enache c. Romania, § 54; nella pronuncia, peraltro, non sono spiegati i motivi della originale scelta di sottrarre esclusivamente il letto.
[16] Cfr. le sentenze Corte EDU, Sez. I, sent. 10 gennaio 2012, Ananyev e altri c. Russia, § 148; Corte EDU, Sez. I, sent. 12 marzo 2015, Muršić c. Croazia, § 53; Corte EDU, Grande Camera, sent. 20 ottobre 2016, Muršić c. Croazia, § 119.
[17] La pronuncia della Grande Camera sembra invece risolvere definitivamente la questione circa la superficie del bagno, indicando l’esclusione dal computo dello spazio per i detenuti. In precedenza, una simile posizione era stata adottata, per esempio, con la citata pronuncia Corte EDU, Sez. II, sent. 16 luglio 2009, Sulejmanovic c. Italia, § 8, 43, mentre in altri casi la Corte aveva incluso tale spazio nel calcolo (per esempio: Corte EDU, Sez. II, dec. 5 marzo 2013, Tellissi c. Italia, § 38, 52, 53; Corte EDU, Sez. I, sent. 12 dicembre 2013, Kanakis c. Grecia (n. 2), § 91; Corte EDU, Sez. IV, sent. 22 ottobre 2009, Sikorski c. Polonia, § 139. Sugli orientamenti interni sul punto, cfr. A. Albano, F. Picozzi, Contrasti giurisprudenziali in materia di (misurazione dello) spazio detentivo minimo: lo stato dell’arte, in Archivio penale – rivista web, 2015, n. 1, p. 12.
[18] Un silenzio causato – secondo alcuni autori – da un “anomalo rapporto internormativo imputabile a una vera e propria omissione legislativa, rispetto alla discrezionalità riconosciuta agli organi di produzione del diritto dall’art. 27, comma 3 Cost.” (A. Pugiotto, La parabola del sovraffollamento carcerario e i suoi insegnamenti costituzionalistici, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, fasc. 3, p. 1207).
[19] L’art. 6 afferma semplicemente che “i locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente” (comma 1) e che “i locali destinati al pernottamento consistono in camere dotate di uno o più posti” (comma 2). L’art. 5, comma 1 si limita ad affermare che “gli istituti penitenziari devono essere realizzati in modo tale da accogliere un numero non elevato di detenuti o internati”, e l’art. 14, comma 1 che “il numero dei detenuti e degli internati negli istituti e nelle sezioni deve essere limitato e, comunque, tale da favorire l'individualizzazione del trattamento”.
[20] E l’assenza di una disposizione legislativa impedisce anche il controllo da parte della Consulta: cfr. A. pugiotto, La parabola del sovraffollamento carcerario e i suoi insegnamenti costituzionalistici, in Riv. it. dir. proc. pen., 2016, fasc. 3, p. 1209.
[21] “La capienza regolamentare [degli istituti penitenziari] viene calcolata rispetto a un parametro secondo il quale in una camera detentiva di 9 mq è prevista la presenza di un detenuto [...] mentre in quelle più grandi è prevista l'allocazione di un detenuto per ogni ulteriori 5 mq da aggiungere ai 9 mq di partenza”. (Audizione del Ministro della Giustizia, Anna Maria Cancellieri, sulle tematiche oggetto del messaggio del Presidente della Repubblica trasmesso alle Camere il 7 ottobre 2013, in Atti Camera dei Deputati, XVII Legislatura, Commissione II (Giustizia), 17 ottobre 2013, seduta n. 3, resoconto stenografico, p. 2-3). L’affermazione è ribadita anche da D. Verrina, Sub art. 6, in Ordinamento penitenziario commentato, a cura di V. Grevi, G. Giostra, F. Della Casa, IV ed., Padova, Cedam, 2011, t. I, p. 123.
Secondo alcun autori, è improprio far dipendere la capienza regolamentare delle carceri dagli standard fissati per le abitazioni civili, in quanto su tratta di un “collegamento ad un metro di natura metagiuridica”, che viene ricavato “in relazione agli avanzamenti dei livelli di vita raggiunti nella società esterna”. Così G. Di Gennaro, R. Breda, G. La Greca, Ordinamento penitenziario e misure alternative alla detenzione, Milano, Giuffrè, 1997, p. 68 ss.
[22] G. Tamburino, Il carcere nel 2014: verso il superamento dell’emergenza, in Rass. penit. crim., 2014, fasc. 12, p. 39 ss.
[23] Lo stesso Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria ha comunicato che tali indicazioni non vengono ritenute vincolanti (cfr. Comunicato stampa del 2 aprile 2014). A conferma di ciò, si noti che spesso al calcolo della capienza regolamentare viene affiancata l’indicazione della capienza tollerata. Secondo alcuni autori, “[s]i parla di ‘capienza tollerabile’ quando si rimane all’interno della forbice tra la capienza regolamentare e il limite estremo” (G. Tamburino, Il carcere nel 2014, cit., p. 39 ss.). Essa sarebbe “individuata, orientativamente, nel doppio di quella regolamentare” (F. Cascini, Analisi della popolazione detenuta e proposte di intervento, in Rass. penit. crim., 2013, fasc. 1, t. II, p. 3). Ovviamente, molti autori hanno criticato questa duplicità di parametri: per esempio, A. Pugiotto, Il volto costituzionale della pena (e i suoi sfregi), in Rivista AIC, 2014, n. 2.
[24] Mag. sorv. Lecce, 9 giugno 2011, n. 17/10, in questa Rivista, 16 settembre 2011, con nota di A. Ingrassia, Sovraffollamento dei luoghi di detenzione, danno non patrimoniale per i reclusi e diritto di reclamo al Magistrato di Sorveglianza. Più recentemente, cfr. Trib. sorv. Venezia, 22 luglio 2014, che ha ritenuto di non “tenere in alcun conto l’ingombro costituito dal mobilio, d’altro canto necessario per lo svolgimento [di] funzioni vitali (riposo, sonno, alimentazione)”.
[25]Mag. sorv. Verona, 2 luglio 2013, in Rass. penit. crim., 2013, n. 1, p. 176.
[26]Mag. sorv. Alessandria, 14 aprile 2014, in www.diritto.it, nonché Mag. sorv. Padova, 30 maggio 2013, in Rass. penit. crim., 2013, n. 1, p. 168.
[27] Mag. sorv. Venezia, 6 febbraio 2014, n. 301, in Cass. pen., 2014, fasc. 7/8, p. 2672, con nota di A. Albano, F. Picozzi, Considerazioni sui criteri di calcolo dello spazio detentivo minimo.
[28] Per esempio, Cass. pen., Sez. I, sent. 18 ottobre 2013, ud. 27 settembre 2013, n. 42901, in Leggi d’Italia. Si tratta della medesima posizione su cui l’Amministrazione penitenziaria ha incentrato la propria linea difensiva (cfr. Lettera circolare 18 aprile 2014, n. 0145780, Contenzioso ai sensi degli articoli 35-bis e 69 O.P. Reclami in tema di calcolo dello spazio detentivo pro capite).
[29] Si tratta delle sentenze – dalla formulazione pressoché identica – Cass. pen., Sez. I, sent. n. 5728, 5 febbraio 2014, ud. 19 dicembre 2013 e Cass. pen., Sez. I, sent. n. 5729, 5 febbraio 2014, ud. 19 dicembre 2013, entrambe in DeJure.
[30] Cfr. Cass. pen., Sez. I, sent. n. 8568, 26 febbraio 2015, ud. 29 ottobre 2014, che fa laconicamente riferimento ad “un passaggio della citata sentenza pilota Torreggiani”.
[31] Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 23277, 3 giugno 2016, ud. 1o giugno 2016; Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 25423, 17 giugno 2016, 14 giugno 2016; Cass. pen., Sez. VI, sent. n. 29721, 13 luglio 2016, ud. 8 luglio 2016, in Leggi d’Italia.
[32] A. Menghini, Spazio detentivo minimo e violazione dell’art. 3 CEDU, cit., p. 122 ss.
[33] Cfr. A. Albano, F. Picozzi, Contrasti giurisprudenziali in materia di (misurazione dello) spazio detentivo minimo, cit. p. 11-12.
[34] Sul punto cfr. M. De Pascalis (a cura di), La via del cambiamento attraverso un modo di essere diverso. La sorveglianza dinamica, in Dispense dell’Istituto Superiore di Studi Penitenziari, 2013, n. 1. Si vedano anche la recente Circolare n. 3663/6113 del 23 ottobre 2015 circa le modalità di esecuzione della pena e la precedente Circolare del 25 novembre 2011, in questa Rivista, 30 novembre 2011, con nota di A. Della Bella, Una rivoluzionaria circolare dell’Amministrazione penitenziaria che introduce un regime “aperto” per i detenuti comuni e che propone una nuova strategia per prevenire il rischio suicidiario all’interno delle carceri. Della questione si sono occupati anche i partecipanti agli Stati generali dell’esecuzione penale: cfr., in particolare, i lavori del Tavolo 2 e gli accenni presenti nella Relazione finale (Parte quarta, § 3.1). Peraltro, questo modello sembra perfettamente coerente con il tenore letterale della legge sull’ordinamento penitenziario, che distingue tra “locali di soggiorno” e “locali di pernottamento” (art. 6 l. 354/1975).
[35] È interessante sottolineare che proprio la citata Relazione finale degli Stati generali dell’esecuzione penale non ha preso in considerazione il quid pro quo, cioè la diffusione della sorveglianza dinamica accompagnato dal calcolo dello spazio al lordo degli arredi; i due argomenti sono rimasti affiancati ma separati. (Parte quarta, § 3.1).