ISSN 2039-1676


9 gennaio 2013 |

Sentenza pilota della Corte EDU sul sovraffollamento delle carceri italiane: il nostro Paese chiamato all'adozione di rimedi strutturali entro il termine di un anno

Corte EDU, Sez. II, sent. 8 gennaio 2013, Torreggiani e a. c. Italia, ric. n. 43517/09, 46882/09, 55400/09, 57875/09, 61535/09, 35315/10 e 37818/10

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1. Come largamente ci si attendeva, la Corte europea  dei diritti dell'uomo - investita dopo la sentenza Sulejmanovic c. Italia, del 16 luglio 2009 (ric. n. 22635/03), di centinaia di ricorsi da parte di detenuti italiani che lamentano la violazione del proprio diritto a non subire pene o trattamenti inumani o degradanti in conseguenza del sovraffollamento carcerario - ha pronunciato una sentenza pilota contro il nostro Paese (clicca qui per accedere alle informazioni ufficiali disponibili sul sito della Corte sullo strumento delle sentenze pilota), accertando nel caso concreto la violazione dell'art. 3 CEDU a danno di sette ricorrenti e, contestualmente, ingiungendo allo Stato italiano di introdurre, entro il termine di un anno dal momento in cui la sentenza della Corte sarà divenuta definitiva, "un ricorso o un insieme di ricorsi interni idonei ad offrire un ristoro adeguato e sufficiente per i casi di sovraffollamento carcerario, in conformità ai principi stabiliti dalla giurisprudenza della Corte". Durante questo termine, la Corte sospenderà le procedure relative a tutti gli altri ricorsi analoghi attualmente pendenti avanti a sé.

La sentenza è stata decisa all'unanimità, e dunque anche con il voto conforme del giudice italiano Raimondi, che componeva il collegio di sette giudici della Seconda Camera; la Presidente JočienÄ— - che aveva a suo tempo aderito all'opinione dissenziente del giudice italiano Zagrebelsky nel caso Sulejmanovic - ha annesso alla sentenza una brevissima opinione concorrente, con la quale illustra le ragioni che l'hanno indotta in questo caso a ritenere la sussistenza della violazione lamentata dai ricorrenti.  

Ai sensi degli artt. 43 e 44 CEDU, la sentenza diverrà definitiva se nel termine di tre mesi dalla sua pronuncia nessuna delle parti chiederà il rinvio della questione innanzi alla Grande Camera. Laddove tale richiesta fosse formulata, un collegio di cinque giudici dovrà valutare l'ammissibilità della richiesta di rinvio; nel caso in cui essa venga accolta, il caso verrà sottoposto alla decisione finale della Grande Camera.  

Rinviando ad altra sede un più articolato commento, ci limitiamo qui ad una cursoria rassegna di alcuni dei profili salienti di questa importantissima sentenza.

 

2. I profili di interesse del caso non concernono, in verità, la decisione finale relativa ai sette casi di specie affrontati, rispetto ai quali la Corte si limita ad applicare principi ormai consolidati nella propria giurisprudenza, concernente soprattutto Paesi diversi dall'Italia (sui quali cfr. ampiamente A. Colella, La giurisprudenza di Strasburgo 2008-2010: il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU),  p. 236 ss.; Id., La giurisprudenza di Strasburgo 2011: il divieto di tortura e di trattamenti inumani o degradanti (art. 3 CEDU), ibidem, p. 222 ss.; cfr. anche l'articolato documento sul tema pubblicato sul sito della Corte) ma già applicati in un caso italiano dalla menzionata sentenza Sulejmanovic.

I ricorrenti, detenuti negli istituti penitenziari di Busto Arsizio e Piacenza, lamentavano in sostanza di essere stati confinati in celle di 9 metri quadrati, ciascuno assieme ad altri due detenuti, e di avere potuto usufruire in quantità insufficiente di acqua calda ed illuminazione. Secondo l'ormai costante giurisprudenza della Corte, che considera automaticamente integrato un trattamento inumano e degradante allorché ciascun detenuto disponga di uno spazio personale pari o inferiore a 3 metri quadri (a fronte degli almeno quattro raccomandati dal Comitato per la Prevenzione della Tortura del Consiglio d'Europa), la prima doglianza era di per sé assorbente: ed in effetti, rigettata la difesa del governo italiano che contestava in fatto - ma senza addurre prove concrete - l'allegazione dei ricorrenti, la Corte accerta la violazione dell'art. 3 CEDU rispetto ai sette ricorrenti, condannando lo Stato italiano a corrispondere, a titolo di equa soddisfazione per il danno morale subito, somme di entità variabile da 10.600 a 23.500 euro, in relazione in particolare alla durata della rispettiva detenzione in condizioni di sovraffollamento.

 

3. Più interessanti appaiono le argomentazioni della Corte relative ai profili di ricevibilità del ricorso, in relazione in particolare all'eccezione - formulata dal governo italiano - di mancato esaurimento dei ricorsi interni. Il governo sosteneva, in effetti, che ciascun detenuto ha il diritto di presentare reclami al magistrato di sorveglianza ai sensi degli artt. 35 e 69 ord. pen. per lamentare la violazione dei propri diritti durante il trattamento, e che tale ricorso costituisce un mezzo effettivo per la tutela dei diritti medesimi. Rispetto poi al caso specifico di uno dei ricorrenti, che aveva effettivamente esperito tale rimedio e aveva ottenuto nel 2010 dal magistrato di sorveglianza di Reggio Emilia un'ordinanza che accertava la violazione dell'art. 3 CEDU attualmente subita dal detenuto - ordinanza subito trasmessa dallo stesso magistrato alla direzione del carcere di Piacenza e al Ministero della giustizia affinché fossero adottati i provvedimenti necessari a far cessare la violazione in atto -, il governo italiano aveva eccepito che sarebbe stato onere del ricorrente medesimo chiedere alle "autorità giudiziarie interne" competenti l'esecuzione coattiva del provvedimento del magistrato di sorveglianza, senza peraltro indicare quali fossero tali autorità, e che tipo di ricorso sarebbe stato possibile esperire a tal fine.

La Corte ha qui buon gioco nel disattendere l'eccezione, richiamando la propria costante giurisprudenza sulla regola del previo esaurimento dei rimedi interni di cui all'art. 35 CEDU, che preclude l'accesso alla Corte alla vittima di una violazione convenzionale allorché essa non si sia avvalsa di un rimedio interno effettivo, idoneo  a riparare alla violazione e facilmente accessibile, sottolineando altresì come rispetto allo specifico problema del sovraffollamento carcerario tale rimedio debba essere idoneo non solo a riparare ex post le conseguenze della violazione - in particolare garantendo un risarcimento pecuniario -, ma anche a porre fine alla violazione e a migliorare le condizioni generali della detenzione (§ 50).

Nell'ordinamento italiano, l'ineffettività sotto questi specifici profili del procedimento di reclamo avanti il magistrato di sorveglianza è dimostrata proprio dalla vicenda personale del ricorrente che aveva esperito il rimedio, ottenendo in sostanza nulla più che una pronuncia declaratoria sull'esistenza di una violazione in atto, alla quale soltanto tardivamente - e dopo la proposizione del ricorso avanti alla Corte europea - le autorità penitenziarie avevano dato parziale esecuzione, disponendo il trasferimento del detenuto in una cella dotata di spazi più ampi. Né il governo italiano ha potuto chiarire alla Corte quale procedimento consentirebbe di dare esecuzione forzata alle ordinanze del magistrato di sorveglianza che accertino la violazione del diritto del detenuto a non essere ristretto in spazi troppo esigui.

La Corte si sofferma altresì brevemente - nella parte della sentenza relativa alla ricostruzione del diritto interno - sull'unico precedente rappresentato dall'ordinanza 9 giugno 2011 del magistrato di sorveglianza di Lecce (pubblicata anche dalla nostra Rivista con nota di A. Ingrassia, 16 settembre 2011: clicca qui per accedervi), con la quale il giudice aveva assegnato un risarcimento di 220 euro al detenuto in chiave di riparazione del danno esistenziale in conseguenza delle condizioni di sovraffollamento della detenzione. La Corte non manca di rilevare, tuttavia, come tale pronuncia - impugnata dal Ministro della giustizia con un ricorso in cassazione, giudicato poi inammissibile dalla S.C. perché tardivo - sia rimasta isolata nella giurisprudenza italiana (si veda in effetti, in senso opposto, l'ordinanza 18 aprile 2012 del magistrato di soveglianza di Vercelli, parimenti pubblicata sulla nostra Rivista il 24 maggio 2012: clicca qui per accedervi), e come - pertanto - il rimedio immaginato dal magistrato di sorveglianza leccese non costituisca un rimedio interno effettivo, idoneo e facilmente accessibile per la generalità dei detenuti italiani rispetto a violazioni in essere dell'art. 3 CEDU delle quali siano vittime.

 

4. Il profilo di maggior interesse della sentenza è però costituito dalla misura generale disposta a carico del nostro Paese, che - come anticipato - dovrà dotarsi, entro un anno dal passaggio in giudicato della sentenza, di un rimedio idoneo contro le violazioni dell'art.3 CEDU conseguenti al sovraffollamento carcerario, secondo i parametri indicati dalla Corte.

La Corte riafferma anzitutto la propria costante giurisprudenza secondo cui dall'art. 46 CEDU, interpretato alla luce dell'art. 1 CEDU, discende l'obbligo a carico dello Stato soccombente di mettere in opera, sotto il controllo del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa, le misure individuali (relative alla posizione del singolo ricorrente) e le misure generali (relative alla generalità di coloro che si trovino in situazioni analoghe) necessarie ad ovviare alla violazione (§ 83), sia assicurando un adeguato ristoro per le violazioni già subite, sia - soprattutto - ponendo fine alle violazioni ancora in essere. Principio questo, per inciso, di fondamentale importanza, spesso sottovalutato o addirittura ignorato nel nostro Paese, ove troppo spesso si sente acriticamente ripetere che la Corte europea sarebbe un giudice del caso concreto, e che le sue pronunce non avrebbero alcuna portata generale rispetto a casi analoghi a quello deciso.

Lo scopo della procedura pilota adottata dalla Corte in situazioni oggetto di numerosi ricorsi seriali, come quelli relativi al sovraffollamento delle carceri italiane, è quello - sottolinea ancora la Corte - di porre chiaramente in luce l'esistenza dei problemi strutturali che sono all'origine delle violazioni lamentate dai ricorsi seriali, e di indicare allo Stato le misure e azioni indispensabili per porvi rimedio, sotto la supervisione del Comitato dei Ministri (§ 84); e ciò in conformità al principio di sussidiarietà che regola i rapporti tra la Corte e gli Stati parte della Convenzione, secondo il quale spetta anzitutto alle autorità nazionali assicurare un'adeguata tutela ai diritti convenzionali (§ 85).

Rispetto allo specifico problema del sovraffollamento delle carceri italiane, la Corte sottolinea dunque il carattere sistemico delle violazioni dell'art. 3 CEDU, dimostrato non solo dalle centinaia di ricorsi pendenti avanti alla Corte, il cui numero peraltro non cessa di crescere (§ 89), ma anche da specifici riconoscimenti delle massime autorità italiane (§§ 23-29), i cui provvedimenti di emergenza -pur salutati con soddisfazione dalla Corte hanno tuttavia potuto sino a questo momento attenuare in misura soltanto molto parziale il fenomeno (§ 92).

La Corte si mostra invero ben consapevole che soltanto sforzi a lungo termine da parte delle autorità italiane potranno risolvere il problema strutturale del sovraffollamento carcerario, e sottolinea come il suo compito non possa essere quello di indicare le specifiche misure da adottare in questo contesto, che resteranno affidate alla valutazione discrezionale delle autorità italiane, sotto la supervisione del Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa. Tuttavia, la Corte non si esime dal fornire qualche importante indicazione in questo senso, richiamando anzitutto le raccomandazioni  Rec(99)22 e Rec(2006)13 del Comitato dei Ministri che invitano gli Stati, ed in particolare pubblici ministeri e giudici, a ricorre il più ampiamente possibile alle misure alternative alla detenzione e a riorientare la loro politica penale verso un minor ricorso alla detenzione allo scopo, tra l'altro, di ridurre la crescita della popolazione carceraria (§ 95).

In secondo luogo, la Corte evidenzia come lo Stato italiano debba al più presto dotarsi - al più tardi, come più volte sottolineato, entro un anno dal passaggio in giudicato della sentenza - di un sistema di ricorsi interni idonei tanto a garantire un rimedio preventivo contro le violazioni dell'art 3 CEDU a carico dei detenuti (e dunque idonei a far cessare le violazioni in atto), quanto un rimedio compensatorio nei casi di avvenuta violazione (§ 96).

 

5. La palla passa, a questo punto, alle autorità italiane, messe ignominiosamente in mora dalla Corte europea. Potrà, certo, ipotizzarsi una richiesta di rinvio della questione alla Grande Camera da parte del nostro governo: ma si tratterebbe soltanto di un espediente per dilazionare la soluzione di un problema indilazionabile, quanto meno sotto il profilo morale. I detenuti italiani sono sottoposti sistematicamente a trattamenti inumani e degradanti, e questa situazione è indegna di un paese che vuole definirsi civile. Anche perché inevitabili saranno le ricadute in materia di procedimenti di estradizione attiva, e di esecuzione dei mandati di arresto europei emessi dalle autorità giudiziarie italiane: gli Stati richiesti avranno buon gioco, ora, a rifiutare l'estradizione o l'esecuzione del MAE, in nome del rispetto dei diritti fondamentali delle persone richieste; ed anzi, a rigore tutti gli Stati aderenti alla CEDU avranno da oggi l'obbligo di non procedere alla consegna, per evitare di esporre la persona richiesta ad una assai probabile violazione del suo diritto fondamentale discendente dall'art. 3 CEDU, secondo l'autorevolissima valutazione della Corte EDU.

In difetto di radicali rimedi strutturali che consentano di abbattere drasticamente gli afflussi in carcere, il rimedio - pur denso di indesiderabili effetti collaterali, che tutti ben conosciamo - dell'amnistia o dell'indulto diverrà a questo punto inevitabile. Ma sarebbe, ancora una volta, soltanto una boccata di ossigeno, a meno che non si voglia contestualmente affrontare in radice il problema di una sostanziale decarcerizzazione, magari in parallelo rispetto al già progettato ampliamento della capienza del sistema penitenziario italiano.

Nel frattempo, però, la magistratura italiana - solennemente richiamata dalla Corte europea alle proprie responsabilità - dovrà anch'essa fare il proprio dovere, cercando di individuare sin d'ora rimedi all'inerzia del legislatore: sia attraverso un più rigoroso self-restraint nell'uso delle misure cautelari e delle pene detentive, così come raccomandato dal Comitato dei Ministri e ora dalla stessa Corte; sia attraverso un serio sforzo per immaginare l'introduzione in via pretoria nel nostro sistema, laddove il legislatore seguitasse a fare orecchie da mercante, di un rimedio giurisdizionale contro le violazioni dei diritto in parola. Un'impresa forse non impossibile: ma di questo occorrerà, al più presto, riparlare.